È uno dei grandi del cinema jugoslavo ed europeo: fedele al suo motto “smuovere le cose con le azioni” Aleksandar "Saša" Petrović ha regalato al pubblico film che intrecciano i temi eterni di amore e morte. Un viaggio nella sua filmografia
Il caso – un eufemismo ironico per la Risoluzione del Kominform e la rottura politica tra Jugoslavia e Urss nell’estate del 1948 – volle che il diciannovenne Aleksandar Petrović lasciasse Praga per ritornare a Belgrado. Insieme a centinaia di studenti jugoslavi iscritti alle università dei paesi del blocco orientale, Petrović, dopo solo un anno di studi alla famosa Accademia d’arte cinematografica di Praga, fece ritorno in patria.
Il fatto di non aver mai conseguito una laurea e un dottorato in cinema non gli impedì però di diventare uno dei più grandi registi al mondo (tra i cento film serbi dichiarati bene di interesse nazionale nel 2016, ci sono ben sette opere di Petrović; tutte le importanti enciclopedie al mondo – generali e del cinema – contengono una voce dedicata al regista serbo e jugoslavo e ai suoi film più premiati.)
In realtà, una laurea (in storia dell’arte) ce l’aveva, conseguita nel 1955 a Belgrado. Il cinema però è sempre stato il suo vero amore. Durante gli studi a Belgrado leggeva e scriveva assiduamente dell’arte cinematografica, vivendo i suoi saggi come “film mai girati”, come li ha definiti in un’intervista degli anni Ottanta.
All’inizio degli anni Settanta, Saša Petrović, allora professore presso l’Accademia d’arte drammatica di Belgrado, fu licenziato per aver valutato eccellente la tesi di laurea del suo studente Lazar Stojanović dedicata al film Plastični Isus [Gesù di plastica], finito nel mirino del regime. Un uomo e un artista – che aveva sempre posto il cinema al di sopra della politica e delle esigenze politiche del momento – fu allontanato dall’università.
Petrović lasciò la Jugoslavia nel 1973, dopo la messa al bando del suo film Majstor i Margarita [Il maestro e Margherita, una coproduzione tra Jugoslavia e Italia]. Nell’adattamento cinematografico della critica mossa da Bulgakov allo stalinismo, l’establishment politico vide anche una critica al socialismo jugoslavo.
Petrović visse la censura come un atto mostruoso, ritenendo assurdo vietare un film che parlava di mostruosità di un mondo privo di libertà. Successivamente, il regista cercò di recuperare l’ordinanza di divieto del film, tutti i suoi tentativi però si rivelarono vani.
Nel frattempo, Majstor i Margarita fu distribuito in tutto il mondo: nonostante la censura in Jugoslavia, il produttore italiano non ebbe alcun problema a vendere il film ai paesi interessati. Tuttavia, il motivo principale per cui Petrović decise di lasciare la Jugoslavia per trasferirsi in Francia fu la malattia di suo figlio Dragan (Petrović nacque nel 1929 a Parigi, ben presto però la famiglia fece ritorno nel Regno di Jugoslavia.)
Petrović, regista in esilio? Gran parte delle sue opere cinematografiche – sia che si tratti di lungometraggi o documentari – risale al periodo jugoslavo. Il suo documentario Let nad močvarom [Volo sulla palude], realizzato nel 1956, quindi all’inizio della carriera, non passò inosservato a Cannes. Il motto del cinema di Petrović – “smuovere le cose con le azioni” – è l’essenza dei suoi brevi documentari Zapisnik [Registro, 1964] e Sabori [Assemblee religiose, 1965]. Da storico dell’arte rese omaggio ai pittori Petar Dobrović e Sava Šumanović.
Il suo lungometraggio d’esordio Dvoje [Due], uscito nel 1961, divise il pubblico e la critica, come accadde anche due anni più tardi, dopo l’uscita del suo film Dani [Giorni]: la peculiarità di queste opere allo stesso tempo affascinava e respingeva il pubblico.
Il giovane regista è autoironico: nel film Dani i due protagonisti, Nina (interpretata da Olga Vujadinović) e Dragan (Ljubiša Samardžić) passando davanti ad un cinema si fermano ad osservare la locandina del film Dvoje, commentando che si tratta di una limunada [opera frivola]. Se conoscete una delle quattro versioni di quella che un tempo era la lingua comune della Jugoslavia, coglierete facilmente la modernità dei due film di cui sopra, ancora oggi attuali: li potete trovare su YouTube dove sono disponibili quasi tutti i film di Petrović.
Poi seguì Tri [Tre, 1965]. Secondo molti il primo capolavoro di Saša Petrović, nominato all’Oscar come miglior film straniero nel 1966, questo lungometraggio è ispirato ad una raccolta di racconti di Antonije Isaković intitolata Paprat i vatra [Felce e fuoco].
Il film, come anche la prosa da cui è tratto, si distacca dalla consueta interpretazione della Seconda guerra mondiale in Jugoslavia. Le tre storie che compongono quest’opera cinematografica – che, come i due precedenti lungometraggi di Petrović, colpisce anche per la sua eccellente fotografia – si svolgono all’inizio, durante e alla fine del secondo conflitto mondiale che in ex Jugoslavia fu anche una guerra civile.
Se all’inizio del film il protagonista (interpretato da Bata Živojinović) rimane sconcertato dall’uccisione di un uomo, alla fine – avendo sperimentato il vortice bellico che ha diviso il mondo tra persecutori e perseguitati – accetta la regola “noi o loro”. Il film, seppur implicitamente, è in sintonia con le idee che permeano le opere letterarie di Dostoevskij. Il leitmotiv musicale del film è la canzone rom Đelem, đelem [1] che darà un’impronta unica all’opera successiva di Petrović.
Skupljači perja [Raccoglitori di piume, 1967], in Italia distribuito col titolo Ho incontrato anche zingari felici, vincitore del Gran Prix Special al Festival di Cannes, ha reso Petrović famoso in tutto il mondo, diventando il film più visto in Jugoslavia.
Ricordo quell’anno lontano. Anche nella mia città natale venivano organizzate proiezioni straordinarie e i bagarini lavoravano a pieno ritmo. Dopo aver visto il film, i miei genitori affermarono categoricamente che non era adatto ad un undicenne come me. Lo vidi per la prima volta da studente delle superiori. Sì, avevano ragione, non è un film per bambini, è rivolto a quel pubblico, sempre meno numeroso, che andando al cinema si aspetta di vedere il Film.
Skupljači perja (una metafora della libertà intesa come caratteristica intrinseca al nostro essere) fu girato nei dintorni di Sombor e Apatin, perlopiù nell’ambiente reale degli insediamenti rom. La filosofia che Petrović applicava nella scelta dei ruoli valeva anche per gli attori non professionisti perché, parafrasando il regista: o sei un attore, o non lo sei, non mi interessa alcun titolo accademico. I rom, interpretando se stessi, diedero un contributo incommensurabile all’autenticità del film.
Con la storia di Beli Bora (Bekim Fehmiu) e Mirta (Bata Živojinović), rivali nel mercato delle piume d’oca, Petrović riconfermò il suo posto di primo piano nel “catalogo” politico dei registi della cosiddetta Onda nera. Il film è originale anche per la lingua romanì. Un fermo desiderio di Petrović: in un film sui rom si deve parlare la loro lingua. Prima di Petrović nessun altro regista europeo e mondiale aveva mai realizzato un film in lingua romanì.
A cantare Đelem, đelem nel film è l’attrice Olivera Vučo (nota anche come Olivera Katarina). Con questa interpretazione, oltre che a lanciare la propria carriera musicale [2], Olivera contribuì a rendere famosa questa canzone immortale. Nel film Biće skoro propast svijeta (1968), in Italia noto col titolo Piove sul mio villaggio, in cui la protagonista è interpretata da Annie Girardot, i cantanti e i musicisti rom hanno una funzione simile a quella del coro nella tragedia antica.
Dopo Majstor i Margarita Petrović realizzò solo due lungometraggi: Grupni portret s damom [Foto di gruppo con signora, 1977] e Seobe [Migrazioni, 1989, in due parti]. “Solo due”, però entrambi capolavori.
Il primo, una coproduzione internazionale, è tratto dal romanzo di Heinrich Böll (premio Nobel per la letteratura 1972) e il secondo è ispirato all’omonimo romanzo di Miloš Crnjanski, uno dei Nobel mancati delle letterature delle periferie d’Europa.
L’adattamento cinematografico del romanzo di Böll – un libro ambizioso e convincente, pubblicato un anno prima del premio Nobel, in cui il celebre scrittore espone la sua visione della storia tedesca dalla Prima guerra mondiale agli anni Sessanta – resta, purtroppo, attuale anche in questo turbolento terzo decennio del XXI secolo. Il ruolo di Leni è interpretato dalla magnifica Romy Schneider.
Nel lontano 1957, quando Crnjanski viveva ancora in esilio a Londra, il giovane Saša Petrović si rivolse allo scrittore chiedendogli il permesso di realizzare un film tratto dal romanzo Seobe. Crnjanski finalmente acconsentì solo dopo il ritorno in Jugoslavia. All’impresa, apparentemente impossibile, della “trasposizione” della saga sulla famiglia Isaković in un film, Petrović diede una sostanza poetica e una forma cinematografica tali da rendere quest’opera intramontabile. Il film è attuale anche per la decostruzione di due miti serbi: il mito russofilo e quello eurofilo.
Il messaggio di Saša Petrović può essere interpretato anche come un monito esplicito rivolto ai piccoli popoli, invitandoli a cercare indipendentemente la propria strada, sfuggendo il più possibile alle sfere politiche dei grandi e dei potenti.
Petrović dedicò Seobe a suo figlio Dragan che non visse abbastanza a lungo per vedere ultimato il film. “Ho investito la mia energia vitale principalmente in mio figlio Dragan e in Seobe”. La prima presentazione del film venne a lungo posticipata a causa di diverse peripezie (il montaggio della seconda parte fu comunque portato a termine mentre Petrović era ancora in vita.) “Non ho visto mio figlio diventare un uomo adulto e non sarò presente nemmeno alla première del film che considero l’opera della mia vita”, affermò Petrović nel 1994.
È sepolto nel cimitero Père-Lachaise a Parigi.
Banja Koviljača, città natale dei suoi genitori, dove Saša trascorse la sua infanzia e giovinezza, custodisce la memoria del grande regista. Oltre ad una strada che porta il suo nome, vi è anche una collezione memoriale dedicata a Petrović, inaugurata nel 2006. Dal 2004 a Banja Koviljača si svolge anche una rassegna del film documentario ed etnografico.
Se passeggiando per le vie di Belgrado doveste arrivare a Vračar, in via Novopazarska al numero 43 vedrete una targa commemorativa sull’edificio in cui un tempo viveva il regista. A Belgrado [3] dal 1994 viene assegnato un premio cinematografico in onore di un regista che ha sempre creduto nel cinema come veicolo di emozioni.
Così come ha creduto nell’amore come senso della vita. Per Petrović, i due grandi temi dell’arte cinematografica solo l’amore e la morte. Temi che implicitamente riflettono l’importanza del caso che, secondo Buñuel, determina il nostro destino.
Se questo modesto omaggio al grande artista ha risvegliato in voi un eccesso di curiosità, visitate il sito ufficiale curato dalla sorella del regista, Radmila (esiste anche la versione inglese).
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[1] Al Primo congresso mondiale dei rom (Londra, 1971), la canzone, che racconta la sofferenza dei rom durante l’invasione nazista dell’Europa, fu adottata come inno del popolo rom. L’autore della canzone (1949) è Žarko Jovanović.
[2] Negli annali dell’Olympia, Olivera Katarina è ricordata per aver tenuto ben settantadue concerti consecutivi in questo storico teatro parigino. Letteralmente tutta la città si inchinò alla cantante.
[3] Nell’agosto di quest’anno la Cineteca jugoslava e la Fondazione “Aleksandar Petrović” hanno reso omaggio al grande regista con una retrospettiva delle sue opere più significative.
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