In Serbia non diminuiscono i casi di violenza in famiglia, in particolare contro le donne. Ma oggi la lotta contro abusi e maltrattamenti può contare su due forze in più: il Museo della violenza appena inaugurato a Belgrado e le tante persone che hanno ballato per One Billion Rising
In Serbia, a differenza dell’Italia, la parola “femminicidio” (femicid) non è entrata a far parte del linguaggio mediatico né tanto meno di quello comune. Ancora sconosciuta ai più, essa resta una parola confinata nel gergo delle organizzazioni e dei movimenti in difesa dei diritti delle donne. Eppure l’amara realtà della violenza sulle donne in Serbia ne reclama l’uso, con tutto il suo carico di gravità e urgenza.
Lo dimostrano i dati statistici: in Serbia più della metà delle donne (il 54,2% nella Serbia centrale) ha subito atti di violenza di natura psicologica, fisica, economica o sessuale. Fra di esse, una donna su tre è sopravvissuta a forme estreme di violenza corporale come soffocamento, ustioni o aggressioni con oggetti usati come armi. In una recente conferenza sul tema, Stana Božović, segretaria del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, ha affermato che solo nei primi nove mesi del 2012 ventitré donne sono morte a seguito di violenze subite in famiglia.
Gli autori di queste violenze sono quasi sempre uomini legati alle vittime da vincoli affettivi o di parentela. Come ricorda Božović, quattro volte su cinque l’aggressore è il partner della vittima - il marito o il fidanzato - mentre nel 9% dei casi si tratta di un figlio maschio. Donne aggredite, umiliate e spesso uccise “in quanto donne”. Questo è il femminicidio: l’annientamento delle donne che provano ad autodeterminarsi trasgredendo ai ruoli femminili imposti dalla tradizione e dal patriarcato, quello di donna obbediente e sottomessa oppure quello di donna sessualmente disponibile. Lo spiega in un bell’articolo la studiosa Barbara Spinelli, autrice del libro “Femminicidio. Dalla denuncia sociale al riconoscimento giuridico internazionale”.
Una danza per spezzare le catene
Il 14 febbraio in tutto il mondo si è ballato contro la violenza sulle donne. Centinaia di migliaia di persone, donne e uomini, si sono ritrovate nelle piazze delle città di mezzo mondo per farsi corpo in nome dei corpi violati di quel miliardo di donne che durante la propria vita vengono fatte oggetto di violenza. In Serbia la danza ha conquistato le piazze di Belgrado, Niš, Leskovac e Novi Sad, e anche di varie città minori. Nella capitale i punti di ritrovo sono stati due: la piazza della Repubblica e lo spiazzo di fronte alla stazione ferroviaria, dove si è ballato al ritmo di “Break the chain” (spezza le catene).
All’evento belgradese hanno partecipato in tutto circa trecento persone. Difficile dire se siano tante o poche, in un paese dove gli unici raduni davvero numerosi sono quelli degli ultranazionalisti e dei tifosi di calcio. Ne parlo in piazza con Aleksandra, esperta di questioni di gender e attivista. Lei si ritiene soddisfatta: “Era da allora [dai tempi delle manifestazioni contro il regime di Milošević, nda] che così tanta gente non si ritrovava in piazza per una buona causa”. Ma subito puntualizza con ironia: “Se non fosse per gli stranieri e per gli attivisti del mondo delle organizzazioni non governative, oggi qui non ci sarebbe quasi nessuno”.
Mi faccio largo tra i sorrisi e le braccia che agitano l’aria. Noto qualche straniero, ma a dire il vero non molti. Riconosco alcune attiviste, qualche docente e ricercatrice politicamente impegnata, e Saša Janković, ombudsman della Serbia. Ma gran parte delle persone che ho intorno non hanno l’aria di essere “professionisti del settore”. Ci sono tante ragazze e ragazzi, probabilmente studenti, alcune signore (e signori) di mezz’età che ballano in coppia, delle bambine che sfrecciano instancabili tra la folla, e un ragazzino dall’aria seria che è venuto a vendere mimose. In tutto trecento persone. Il numero mi sembra giusto, visto che sono trecento anche le donne che ogni anno in media vengono accolte nelle “case sicure” (sigurne kuće) di Belgrado per sfuggire alla violenza dei loro mariti, fidanzati o figli.
Radiografie della violenza
Proprio a pochi passi da piazza della Repubblica, nel Centro culturale di Belgrado, da qualche giorno è aperto il Museo della violenza . Alla fine del One Billion Rising un nugolo di persone ci va in visita, un gesto di cui è difficile non vedere la continuità con la danza di poco prima. Il museo, recita il pannello introduttivo, è un’esposizione artistica socialmente impegnata che mette in mostra referti medici quali conseguenze ultime dell’incitamento all’odio, degli stereotipi, dei pregiudizi, della discriminazione e della violenza fisica.
L’atmosfera è sterile e fredda come quella di un ospedale. Sui muri bianchi campeggiano radiografie di arti fratturati, mandibole rotte e crani spaccati. A fianco, i referti medici che riportano le diagnosi e i tempi previsti per la guarigione. I nomi delle vittime sono censurati, spesso per loro stessa volontà. Ma le circostanze in cui è avvenuta la violenza sono chiare, e note: il Queerfest del 2008, la parata del Pride del 2010, e vari altri casi di cronaca in cui singole persone sono state fatte oggetto di violenza per la loro supposta “diversità”.
L’ideatore della mostra è Radojica Bunčić, dell’organizzazione Kulturpark. Radojica mi spiega che il piano è quello di creare un museo itinerante, che abbia la sua base a Belgrado e che si sposti per la regione e per il mondo raccogliendo prove e testimonianze della violenza in tutte le sue forme. “Stiamo muovendo i primi passi”, dice Radojica, “e siamo aperti alla collaborazione di chiunque condivida la nostra visione”. L’idea che sta particolarmente a cuore ai ragazzi e alle ragazze che lavorano al museo è quella di dare vita a una piattaforma educativa che coinvolga gli studenti delle scuole medie e superiori in lezioni aperte e dibattiti. Per imparare a parlare della violenza in un modo nuovo, estraneo alla retorica del patetico e all’assuefazione mediatica.
Il materiale che verrà raccolto, dice Radojica, consentirà anche di stilare delle statistiche relative ai tipi di violenza più diffusi nelle nostre società, e risalire così alle loro cause. “Io però temo”, confessa, “che la risposta ci è già nota: è il patriarcato, la violenza maschile sulle donne”. La danza di One Billion Rising è complementare al lavoro del museo, continua Radojica e poi rivolge un invito agli uomini affinché si uniscano alla lotta per i diritti delle donne, perché così facendo capirebbero meglio anche se stessi e la propria condizione. Infatti, conclude, “il patriarcato è una struttura di potere che costringe sia gli uomini che le donne”. L’oggetto che chiude la mostra è uno specchio. A fianco, una scritta che che recita: “Guardati: vedi il volto di una persona violenta?”.
Questa pubblicazione è stata prodotta con il contributo dell'Unione Europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto Racconta l'Europa all'Europa.
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