Belgrado, Serbia © Tomas Marek/Shutterstock

Belgrado, Serbia © Tomas Marek/Shutterstock

Una curiosa vicenda animata da personaggi particolari, fra tutti un misterioso e affascinante Mirko Maratović detto Mimara. E' questo il cuore di “Bottino di guerra – Il giallo dei quadri razziati dai nazisti e deportati a Belgrado”, dei giornalisti dell’Ansa Tommaso Romanin e Vincenzo Sinapi

01/07/2024 -  Diego Zandel

Titolo e sottotitolo del libro, edito da Mursia, “Bottino di guerra – Il giallo dei quadri razziati dai nazisti e deportati a Belgrado” dei giornalisti dell’Ansa Tommaso Romanin e Vincenzo Sinapi, vanno oltre la specifica vicenda a cui si riferiscono. Quest’ultima, infatti, viene inserita nella cornice delle varie razzie che i nazisti hanno compiuto nel corso della Seconda guerra mondiale in Europa, con epicentro ovviamente l’Italia, la più fornita di grandi opere.

Naturalmente, anche altri paesi sono stati interessati e, tra questi, la Francia, verso la quale l’intento era anche quello malevolo di far sparire le opere - astrattisti, cubisti e di altri movimenti d’avanguardia - considerate degenerate (poi saranno ritrovate in cave sperdute e in altri siti venuti alla luce dopo il conflitto).

La causa scatenante sono state innanzitutto le brame collezionistiche sia di Hitler che voleva realizzare a Linz – non a Vienna, perché la città lo aveva disconosciuto come artista – il suo Führermuseum, sia di Goering, che voleva arricchire la sua personale collezione. Si parla di migliaia di opere, non tutte recuperate, nonostante al termine della guerra gli americani abbiano a riguardo istituito la cosiddetta “Commissione Roberts” (Commission for the Protection of Cultural Treasure in War Areas) con due punti di raccolta, i Collecting point di Monaco e di Wiesbaden.

Da quel momento, previo l’interessamento e la presentazione delle relative richieste e documentazione dei rispettivi stati, è cominciata la restituzione.

L’Italia, nell’immediato dopoguerra alle prese con grandi difficoltà economiche e conflitti politici, ed eternamente penalizzata da una burocrazia in grado di minare volontà, progetti, animi, ha dato subito prova di lentezza e inadeguatezza, che è stato possibile vincere, come sempre succede, solo grazie al talento e alla volontà e al rischio di singole personalità, in grado, per carattere, esperienza e passione di vincere sia gli ostacoli interni che gli eventuali esterni.

Queste personalità hanno un nome e cognome: il principale è quello di Rodolfo Siviero, uno storico d’arte, agente segreto durante il fascismo, quindi partigiano, poi Ministro plenipotenziario per il recupero dei beni artistici, il tutto condito da una vita avventurosa, ricca di misteri, che attraversa quasi cinquanta anni di storia nazionale, quale paladino del nostro patrimonio.

Un’impresa, la sua, cominciata quando i tedeschi, diventati nemici dopo l’8 settembre del 1943, cominciarono a far razzia delle nostre opere d’arte. Razzia, è bene sottolinearlo, che in realtà era cominciata ancora prima della guerra, con vendite e regalìe da parte di Mussolini e di altri gerarchi fascisti agli amici nazisti.

Ha scritto a riguardo Siviero: “Il problema più difficile restava sempre quello degli illeciti acquisti di Hitler e di Goering che essi, fin dal 1937, avevano compiuto con la complicità degli antiquari italiani”. Siviero impegnerà i successivi quarant’anni nell’impresa, tutt’altro che facile di fronte ai soprusi a cui lo stesso Stato italiano da una parte lo avrebbe sottoposto (si pensi solo che non gli sarebbe stata neppure riconosciuta la pensione).

E, in pratica, la Delegazione italiana per la restituzione delle opere d’arte, nata solo nel 1953, sarebbe stata sciolta nel 1987, già quattro anni dopo la morte di Siviero e quando ancora ne mancavano all’appello diverse centinaia. Esisteva a riguardo già un lavoro compiuto da Siviero, con la collaborazione di Luisa Becherucci, e alcuni giovani storici d’arte, tra cui un giovane funzionario della Soprintendenza, Antonio Paolucci, destinato a una brillante carriera, ma non bastava.

Ha scritto a riguardo Paolucci: “Il nostro compito consisteva nel dare supporto bibliografico e verosimiglianza attributiva e scientifica ai molti materiali artistici scomparsi a seguito degli eventi bellici; materiali che l’Ufficio aveva individuato e che erano oggetto di indagini” a causa dei quali i cupi uffici di via degli Astalli erano “pieni zeppi di opere d’arte di misteriosa provenienza, stracolmi di pratiche assiepate e debordanti in minaccioso disordine”.

Il problema di tutto ciò è dovuto, come lo stesso Siviero avrebbe confidato a Paolucci, alla politica internazionale, alle solite storpianti ragioni di Stato, per cui, tra gli anni Settanta e Ottanta, la logica dei blocchi rendeva inopportuna se non addirittura impossibile l’apertura di un negoziato, dal momento che l’Italia aveva già ottenuto indietro, in applicazione del Trattato di pace, la parte più ragguardevole del suo patrimonio illecitamente trasferito, per cui “non era il caso di turbare gli equilibri e le convenienze internazionali a tanti anni dalla fine della guerra, con atti di zelo eccessivo per il recupero della quota residua del patrimonio stesso”.

E, fanno sempre presente gli autori, questo non riguardava soltanto la Germania, ma anche i paesi occupati: Austria, Ungheria, Jugoslavia, Unione Sovietica. Anche se quest’ultima, dopo aver subito essa stessa il saccheggio di opere d’arte da parte dei tedeschi, si era, a sua volta, ampiamente rifatta, con gli interessi, razziando la Germania, trafugando opere che oggi si possono ammirare nei musei di Mosca, Pietroburgo e altre città russe.

E ciò vale anche, in parte, appunto, per Belgrado. In questo caso il factotum è un altro personaggio affascinante, un avventuriero croato, dalle diverse identità, il cui nome vero è Mirko Maratović, ma anche Mate Ante Topić, non si sa bene, conosciuto comunque col soprannome di Mimara, che era un’abbreviazione del suo nome Mi-rko Mara-tović.

Anche la sua data di nascita non è certa. Alcuni documenti la fissano il 16 marzo 1897, altri il 7 aprile 1898, ma di nomi, così come di date di nascite posticce, ne ha avute tante. Unico luogo certo, quello di nascita, un villaggio croato nell’entroterra spalatino. Pittore, falsario, collezionista, mercante, truffatore, si sposò con una funzionaria tedesca alle dipendenze del Collection point di Monaco, Wiltrud Mersmann, che trascinò nei suoi affari.

Questa di Mimara, più di quella di Siviero, già di suo molto avventurosa, meriterebbe una storia a sé (ci ha provato Gabriele Guidi, regista e produttore cinematografico, facendo ricerche sul personaggio per un film, con il libro “Mimara -Exegi monumentum”, edito dalla Ovepossibile). Ma già nel libro di Romanin e di Sinapi ce n’è d’avanzo per conoscere la storia di quest’uomo. Ed è lui, per arrivare all’osso, l’uomo che ha fatto arrivare le opere d’arte a Belgrado.

Il solo capitolo che racconta questa operazione è da film. Siamo nel 1955. Mimara arriva con un passaporto falso a Tangeri, in Marocco, allora zona franca. Ha con sé una quarantina di cataloghi di opere d’arte in suo possesso e va ad abitare in un lussuoso appartamento di rue de Paris. Alle autorità dichiara di voler aprire una galleria d’arte, ma subito i servizi segreti americani e la Suretè si interessano a lui, gli chiedono dei suoi rapporti con la Jugoslavia e con Tito in particolare.

Mimara mente, dichiara di non vedere Tito dal 1918, raccontando i suoi diversi spostamenti negli anni prima di arrivare a Tangeri: Berlino, Montevideo, Amsterdam, Anversa, città quest’ultima dove aveva depositata la maggior parte della sua collezione. Niente Belgrado. Chiede di restare a Tangeri, ma il permesso ben presto gli viene negato. È quindi costretto a ripartire. Così va a Vienna, dove si stabilisce definitivamente.

Qui, più tardi, gli uomini del Collecting point gli avrebbero fotografato i quadri che aveva in casa, ma non risultavano esserci quelli razziati dai tedeschi, nonostante fosse stato lui, con la complicità della moglie, a svincolarli. Interrogato il 24 marzo del 1956 affermò che di quei quadri lui non sapeva nulla, l’ultima volta che li avrebbe visti sarebbe stato su un camion scortato dalla polizia americana e diretto verso il confine jugoslavo.

Si venne a sapere più tardi che si trattava di un suo regalo a Tito, al quale nel dopoguerra si era avvicinato, dichiarandosi, con uno dei suoi soliti trasformismi, comunista. Come regalo, parliamo di una serie di opere dei maggiori artisti italiani che, non conoscendo la destinazione, si ritroveranno tutte nel catalogo delle opere rubate realizzato dai carabinieri del Comando Tutela del Patrimonio.

Bene, per farla breve, molte di quelle opere saranno tranquillamente esposte nel Museo di Belgrado e i visitatori, magari non pochi italiani, avranno avuto occasione di ammirarli in loco. Ma nessuno mai se ne accorse. O, se se ne accorse, tenne la bocca chiusa. E passeranno molti anni prima ancora che si venisse a scoprire tutto. Accadrà tra il 2004 e il 2005, nel corso di una mostra itinerante tra Bologna, Bari e Brindisi “Pittura italiana dal XIV al XVIII secolo dal Museo nazionale di Belgrado”.

Capita così che a visitare per caso la mostra sia l’appuntato dei carabinieri del Comando Tutela del Patrimonio, Massimiliano Colasanti, che, nell’ammirare i dipinti, si ricorda che erano presenti nel catalogo dei quadri ricercati. Da quel momento, naturalmente, prenderanno avvio, con le severe indagini (presso gli archivi di Stato, i rapporti dei servizi segreti, quelli diplomatici, web, banche dati e così via) le tutt’altro che semplici pratiche di restituzione dei beni, con gli inevitabili aspetti giudiziari, che vedranno implicati nella imputazione di ricettazione anche i responsabili serbi del museo e delle mostre.

Sembra che non tutte le opere potranno far ritorno, sicuramente non le due che Tito ha donato rispettivamente a Nehru e a Nasser, con lui fondatori dei Paesi non allineati. Restano in ballo otto opere (“Gli otto prigionieri di guerra” come vengono chiamati in un capitolo del libro) che sono Cristina di Danimarca del Tiziano, Madonna con Bambino di Tintoretto, San Sebastiano così come San Rocco del Carpaccio, un’altra Madonna con bambino di Paolo Veneziano e una di Taddeo Gaddi, un Trittico di Paolo G. Fei e Adorazione col bambino di G. Mazzone.

Un'ultima parola su Mimara: alla sua morte, avvenuta nel 1987, ha donato l’intera sua collezione di opere, circa 3750, al Museo di Zagabria, che ha preso il suo nome e che ogni anno ha 100 mila visitatori, i quali potranno leggere “Se qualcuno può dimostrare che un’opera sia sua o sia stata trafugata venga a riprenderla. Ante Topić Mimara, Exegi Monumentum”.


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