Una non vittoria di Kusturica ad un festival cinematografico rischia di fare notizia. E' accaduto al suo "La vita è un miracolo" con il quale ritorna sulle vicende della guerra in Bosnia Erzegovina.
Di Nicola Falcinella
Per la prima volta in 24 anni e 8 film Emir Kusturica non ha vinto un premio ufficiale in un festival cinematografico. Da "Ti ricordi di Dolly Bell", Leone opera prima a Vemezia 1981 in poi, tra Cannes, Berlino e la Laguna, il regista serbo-bosniaco aveva ottenuto riconoscimenti ovunque.
"Život je Ćudo - La vita è un miracolo", pur tra i favoriti della vigilia, è stato escluso dal palmares del recente Festival di Cannes che ha segnalato nuovi talenti e consacrato Michael Moore con il suo fondamentale "Farenheit 9/11".
La vita di una famiglia: l'ingegnere Luka che deve costruire una ferrovia, la moglie cantante lirica che non accetta il trasferimento in campagna e il figlio Milos, promessa del calcio che deve partire militare, viene sconvolta dall'inizio della guerra. Siamo in un villaggio della Bosnia all'inizio del 1992. Un film carico di simboli, di animali, di musica (di Dejan Sparavalo e lo stesso Kusturica), di irruzioni, sorprese come il regista sarajevese ci ha abituato. Un film magmatico come sempre, dove le cose si accumulano su più livelli, poi ribollono e le cose si confondono.
Surreale e dramma si legano ancora una volta, ma sembrano prevalere i toni cupi nonostante l'ottimismo che sopravvive: un amore che nasce durante la guerra e a dispetto dei fronti contrapposti (per questo è stato un po' forzatamente definito il "Romeo e Giulietta balcanico"). Kusturica usa balli, feste, ubriacature, treni che si muovono quasi a caso sulla ferrovia che fa da perno delle vicende, letti che volano per liberare l'angoscia, ma per una volta il suo racconto sembra compresso, pare che cerchi di nascondere aspetti cupi dentro il tourbillon grottesco di vicende.
Quasi che Kusturica, dopo "Gatto nero, gatto bianco" e "Super8 Stories", torni a una forma cinematografica precedente cercando nello stesso tempo una via d'uscita a una cifra stilistica che l'ha reso celebre in tutto il mondo e che rischia di renderlo prigioniero. Abbiamo raccolto ciò che il regista ha raccontato nella conferenza stampa:
Nove anni dopo "Underground" torna sulla guerra in Bosnia. Come mai ha aspettato tanto tempo?
"Oggi le informazioni e ciò che provoca reazioni nella gente arriva dalla televisione, il cinema è un mezzo che risponde più lentamente, un qualcosa che ha bisogno di tempi diversi. In più ho trovato questa storia, che mi è stata raccontata da un serbo che vive in Francia, a Tolosa, solo molto tempo dopo la guerra. Credo che se avessi girato questo film 12 anni fa, allo scoppio del conflitto, sarebbe stato molto diverso. Ma se questo fosse accaduto in Rwanda o in Corea sarei andato a filmare. Credo che il linguaggio che mescola l'amore e la sofferenza sia quello che apre le barriere".
Il protagonista Luka non vuole capire che la guerra sta cominciando. C'è qualche riferimento personale?
"Certo, all'inizio della guerra ero in Francia e per i primi 40 giorni non ci volevo credere. Non volevo accettare che la guerra fosse iniziata. C'è stata un'intera generazione di persone della ex Jugoslavia che non erano consapevoli che questa cosa terribile fosse in atto. Luka è uno di questi".
Quindi si identifica con Luka?
"Molto. Mi piace di lui che non si butta immediatamente nell'amore. È un tipo un po' vecchia maniera, pospone il suo legame con questa donna al desiderio di rivedere il figlio. Quando lo vedo avvicinarsi alle cose piano piano mi accorgo che è come se lo facessi io".
Anche l'amore è molto presente ...
"Sono quasi un soldato dell'amore. Credo che sia una sostanza indispensabile, un po' come le proteine. È l'elemento più forte che dà motivazioni agli uomini. Per questo ci sono storie d'amore in tutti i miei film".
A proposito di famiglia, anche questa è al centro de "La vita è un miracolo" ...
"La famiglia è il centro mitico del dramma umano. Per questo mi interessa e ci sono state famiglie in tutti i miei film. È una cosa istintiva, venuta da sola, non l'ho deciso a priori. Andando avanti l'ho proseguita estendendola, mi sento quasi più un pittore che un cineasta, perché continuo a ripetere gli stessi temi cambiando e anche riprendendo con il sorriso cose che mi sono piaciute di altri film".
Crede che, come recita il titolo, la vita sia un miracolo?
"Voglio continuare a credere che la vita è un miracolo perché i miracoli accadono davvero. La speranza nella nostra vita non deve essere sconfitta. Questo film è in fondo ottimista, un po' triste, ma ottimista. Dobbiamo sapere vedere anche gli aspetti belli pur in mezzo alla tragedia".
Una presenza continua nel film sono gli animali: asini, galline, cani, gatti, cavalli, anatre ...
"Gli animali ci sono perché sono nel mondo in cui viviamo. Nel film hanno anche una funzione drammaturgia che si rivela nel finale, quando è l'asino a salvare la vita del protagonista. L'asino è il suo angelo custode. E poi amo molto gli animali anche se non so spiegare il motivo. Gli animali dentro l'immagine mi ricordano i quadri di Chagall".
Da alcuni elementi, come la giornalista che intervista dei prigionieri senza aver capito niente della guerra, sembra dire che gli occidentali non hanno capito niente della guerra ...
"Anni fa incontrai Francis Ford Coppola durante un viaggio. Per un'ora e mezza cercai di fargli capire chi ero, cosa facevo - avevo già fatto dei film - ma senza riuscirci. Se Coppola non ha capito chi fossi, volete che dei giornalisti abituati a un giornalismo da fantascienza possano capire chi sono i serbi o i mussulmani? Nella vita oggi è difficile capire quanto sia realtà e quanto finzione, quanta finzioni entri nella vita e diventi realtà. Vivendo così velocemente facciamo anche molti più errori di quanto faremmo. Però il cinema non è bugia, il cinema deve tornare a essere "bigger than life" come era nella Hollywood dei '50 o '70. Oggi troppi film sono fatti secondo le regole del marketing e il cinema è un po' inferiore alla vita".
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