Novi Sad (foto G. Vale)

Novi Sad (foto G. Vale)

Dall’11 al 18 agosto, «Confluenze. Nel sud-est Europa con lentezza» ha organizzato un viaggio lungo il Danubio serbo, in collaborazione con ViaggieMiraggi e Slow Food. A bordo di un piccolo battello che navigava tra i sapori e le storie del grande fiume, c’era anche un inviato di OBC Transeuropa. La prima puntata del suo diario

22/10/2019 -  Giovanni Vale

Oltre le porte della vecchia sinagoga di Novi Sad, la luce estiva entra a malapena, schermata e colorata dalle eleganti vetrate. In silenzio, prendiamo posto tra i banchi, mentre sul palco si dispone un quartetto di archi, impeccabile negli abiti neri e nelle camicie bianche. È il primo appuntamento musicale del nostro viaggio lungo il Danubio serbo. Altri ne seguiranno, intervallati da danze, visite culturali e delizie gastronomiche, in una discesa che si annuncia già ricca di scoperte. 

Si inizia con delle note malinconiche, a volte strazianti, che raccontano le peregrinazioni degli ebrei dell’Europa centrale ed orientale. «Ale brinder», «Oyfn Pripetchik»… il gruppo klezmer «Panonija» mette in musica le storie senza tempo di quegli Ebrei erranti che Joseph Roth ha narrato con maestria. Siamo a Novi Sad, in Serbia, ma al tempo stesso altrove. Come se non fosse più agosto, torniamo al gennaio del 1942, o prima ancora, cambiando geografia, all’epoca dell’Austria-Ungheria. 

È il tono che seguirà il nostro percorso fino alle Porte di Ferro: un continuo andirivieni tra mappe e tempi diversi, come se viaggiassimo su più livelli paralleli. E Novi Sad non fa eccezione. Nella capitale della Vojvodina, fino alla Seconda guerra mondiale c’erano circa 4.000 ebrei. I giorni freddi di Novi Sad - la strage del gennaio 1942 - si sono portati via tutto, lasciando dietro di sé un piccolo gruppo culturale privo di rabbino e una sinagoga ormai sconsacrata. 

Il confine tra due mondi

Come la musica klezmer fa rivivere la comunità ebraica, così gli edifici di Novi Sad ne raccontano il passato imperiale. L’imponente chiesa cattolica, che occupa la piazza centrale di una città oggi a maggioranza ortodossa, ricorda la fede dell’Austria-Ungheria e fu costruita, a più riprese, dopo l’arrivo degli Asburgo. Passeggiando, parliamo della pace di Carlowitz (o Sremski Karlovci, a due passi da Novi Sad), che segna l’inizio di quella nuova fase per la Vojvodina. 

È il 1699 e, dopo decenni di guerre, l’Impero Ottomano e la Lega Santa firmano un accordo. Le conseguenze sono tante, in Dalmazia, in Grecia e in tutta la penisola balcanica. Qui, la tregua tra i due mondi fa nascere una nuova frontiera, che non cambierà fino alla Prima guerra mondiale e all’interno della quale Novi Sad e la sua fortezza di Petrovaradin giocano un ruolo di primo piano. Lasciato il centro, saliamo proprio su quell’avamposto che domina il Danubio. 

Oggi, la fortezza è nota come sede del festival di musica Exit, che ha registrato quest’anno 200mila ingressi. Ma per secoli, Petrovaradin ha fatto rima con la «frontiera militare austriaca», quella krajina che ha modellato la geografia dei Balcani. Sottoposta a condizioni di favore da parte dell’amministrazione imperiale, era abitata soprattutto da serbi, tenuti a prendere le armi in caso di necessità. Una zona tampone, che diventa quasi un mondo a parte tra i due imperi. 

Gastronomia e navigazione

Pranzo a base di cavolo cappuccio (foto G. Vale)

Pranzo a base di cavolo cappuccio (foto G. Vale)

Viaggiamo dentro quel mondo anche seguendo la via dei sapori. A Futog, poco fuori Novi Sad, scopriamo il Convivium Slow Food dei produttori di cavolo cappuccio. La sorpresa è grande tra i viaggiatori quando si scopre che l’intero menù, dagli antipasti al dolce, è preparato a base di cavolo cappuccio. Inutile dire che, dopo lo stupore iniziale, ci si serve tutti a più riprese, commentando a bocca piena quanto sia duttile quella palla verde così frequente nell’Europa continentale. 

A cena siamo al «Salaš 137», un agriturismo sperduto nella pianura. Mentre un ensemble rom locale suona fisarmonica, contrabbasso e violini, noi assaggiamo i piatti tipici della tradizione serba. All’insalata šopska, ai piatti di carne d’agnello e di maiale, si accompagna la proja, la focaccia di mais che dà il benvenuto nella Serbia rurale. E non manca poi la rakija, la grappa di mele cotogne, prugne, albicocche e altro ancora che ci seguirà fino al confine con la Romania. 

L’ultimo pranzo di queste terre ci aspetta a bordo del Kovin, il battello che Emir Kusturica ha usato nel suo Underground e che ora è ancorato a Titel, sul Tibisco. Anche qui una fortezza, oggi distrutta, sorvegliava il corso d’acqua che poco più a sud si immette nel Danubio. Ed è proprio verso quel fiume che il nostro capitano punta la prua, mentre sul ponte suona il trio di Aleksandar Vasov e si esibiscono i ballerini del gruppo folkloristico «Lola». Qualcuno intanto prepara la tavola per il banchetto, preparato dal convivium Slow Food Dorćol di Belgrado.

Zemun, l’ultimo avamposto asburgico

Seguendo la corrente del Danubio, ci lasciamo alle spalle le fortezze di Titel e Petrovaradin e navighiamo alla volta di un’altra roccaforte, più imponente ancora: quella di Kalemegdan a Belgrado. La città bianca (beli grad) - come appariva a chi arrivava via nave - fu per oltre tre secoli parte dell’Impero ottomano, al di là dunque del confine imperiale. Di fronte a Belgrado, oltre il fiume, si ergeva infatti l’ultimo avamposto asburgico: la cittadina di Zemun, dove siamo diretti.

È quasi sera quando arriviamo a Zemun, la “piccola Vienna” ai confini dell’Impero. Non c’è più traccia della dogana, dell’ospedale con quarantena o del quartiere a luci rosse. Zemun oggi è il 17° municipio di Belgrado e non più la prima cittadina austriaca ad interfacciarsi con l’Impero ottomano. La chiesa cattolica nella piazza centrale resta tuttavia a testimonianza di quel tempo, come a Novi Sad, e la torre millenaria di Gardoš, costruita dagli ungheresi nel 1896 per celebrare i loro mille anni di presenza in Pannonia, ancora sorveglia il Danubio.

Noi lasciamo la riva per entrare in biblioteca, dove ci aspetta un concerto per pianoforte e voce. Le note sono di nuovo mitteleuropee, si cantano lieder tedeschi, arie italiane, ma anche composizioni in serbo, russo e armeno. Perché per quanto la si voglia usare per dividere, la frontiera finisce inevitabilmente anche per unire, come una cucitura che lega due tessuti diversi. Domani passeremo a Belgrado, parleremo di Novecento, di guerre fratricide e di memoria divisa, ma per questa sera siamo ancora tra gli Imperi.


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