Il muro ungherese, al confine con la Serbia, cala un primo sipario sulla rotta dei Balcani, costringendo i rifugiati a dirottare sulla Croazia rendendogli ancora più difficile il viaggio. Settima e ultima puntata del diario del nostro inviato
Tutto è cambiato nella “jungla” di Subotica. A metà agosto, quest’ex fabbrica di mattoni ospitava centinaia di rifugiati, distesi all’ombra in attesa di riprendere il cammino verso l’Ungheria. Ora, tra le strutture abbandonate e la ferraglia arrugginita, nell’estremo Nord della Vojvodina, vagano meno di venti persone, peraltro tutte in partenza.
Tutti gli altri sono a Horgoš. “Stando a quello che ha detto il governo di Budapest, il valico sarà aperto fino a mezzanotte. Dopodiché, non sappiamo cosa succederà”, racconta Goran, uno dei membri del team di Medici senza frontiere venuto in ricognizione nella “jungla”. “Questa sera, ci saremo anche noi alla frontiera ungherese. Conviene aspettarsi di tutto”, mi dice dopo aver disegnato su un foglio la mappa del confine e del tracciato che bisognerà percorrere. Facciamo un ultimo giro tra gli stabilimenti diroccati, poi ci dirigiamo verso la stazione, mentre il sole quasi tramonta. Mancano poche ore alla chiusura della frontiera ungherese e gli autobus in partenza da Subotica si riempiono in fretta. A Horgoš, il muro di Orban sta per calare come un sipario sulla rotta dei Balcani. “Avete tre ore per attraversare la frontiera!”, lancia un volontario ai rifugiati appena scesi dal mezzo. Un ragazzo traduce in arabo e ci si incammina subito verso Nord. “Sono un po’ preoccupato”, mi confida Yezan, un ragazzo di Damasco. Ha 22 anni ed è in viaggio da cinque settimane con la giovane sposa (18 anni). “Ho paura che il confine sia già chiuso - prosegue - o comunque di quello che ci succederà una volta in Ungheria”. “Non ci prenderanno impronte digitali stasera vero?”.
Come gli altri, anche Yezan è preoccupato di dover restar bloccato in Ungheria, nel caso in cui gli ufficiali magiari decidano di rispettare il protocollo di Dublino II. “Vogliamo andare in Olanda”, dice. Lui vuole continuare gli studi di Economia e Commercio e lei, iscriversi alla Facoltà di legge. Riusciranno a passare prima della mezzanotte.Il cancello dietro cui sta schierata una dozzina di agenti ungheresi delimita la fine della corsa. Da lì in poi, si fa la fila, si ascoltano le indicazioni gridate al megafono e in arabo da un interprete della polizia di Budapest. A piccoli gruppi, poi in fila per uno, i rifugiati aspettano pazientemente, nell’aria fresca della sera e, a tratti, sotto una pioggia fine.
Diverse associazioni sono presenti, distribuiscono acqua, cibo e qualche telo plasticato con cui ripararsi dall’acqua. Poco dopo le dodici, il flusso di ingressi, già esiguo, è completamente bloccato. “Il confine è chiuso. Lo sa cosa vuol dire chiuso?”, dice un agente ad un’attivista. Lei corre dagli agenti serbi, inseguita dai giornalisti. “Bisogna trovare una soluzione, ci sono donne e bambini, dove passeranno la notte?”, chiede ai poliziotti.È il primo gruppo a rimanere al di là del muro. Altri arriveranno a breve, da Kanjiža, da Subotica. Centinaia di persone che hanno saputo troppo tardi che il governo di Viktor Orban avrebbe improvvisamente sbarrato la strada ai rifugiati.L’indomani, in Ungheria, l’atmosfera è surreale. Nella casetta di legno del Migszol (il gruppo di solidarietà ai migranti) di Szeged, aperta da più di un mese nel piazzale della stazione ferroviaria, non si servono più caffè né si distribuiscono bottiglie d’acqua. A Budapest, Keleti sembra vuota se confrontata con le immagini delle settimane scorse, quando migliaia di rifugiati aspettavano un treno per l’Austria o la Germania.I volontari stanno piegando le tende e impacchettando gli ultimi beni di prima necessità rimasti. “Qui non verrà più nessuno”, mi dice Lucie, una giovane attivista svedese di “Migration Aid”. “Ci stiamo preparando per andare al confine con la Serbia. Ma non è sicuro che riusciremo ad arrivarci, perché stanno bloccando il transito anche per le auto, anche per noi”, racconta.Qualche ora più tardi, a quella stessa frontiera, la polizia ungherese deciderà di utilizzare i lacrimogeni e i cannoni ad acqua per disperdere uomini, donne e bambini che venivano a chiedere la protezione giuridica dell’Unione europea.Migliaia di persone che saranno costrette a fare marcia indietro per un centinaio di chilometri e a deviare in Croazia, rendendo così ancora più lunga, cara e sfiancante le “rotta dei Balcani”.
Hai pensato a un abbonamento a OBC Transeuropa? Sosterrai il nostro lavoro e riceverai articoli in anteprima e più contenuti. Abbonati a OBCT!