Fino a pochi anni fa, l’opinione pubblica serba avrebbe reagito a qualsiasi tentativo di Belgrado di scendere a patti con Pristina, figurarsi sostenere un governo Haradinaj. Oggi le cose sono cambiate
Ramush Haradinaj, accusato dalla procura di Belgrado di gravi crimini di guerra e rappresentato dai media serbi come un crudele assassino dei civili serbi, è recentemente diventato primo ministro del Kosovo proprio grazie ai voti della minoranza serba.
Questa svolta nella scena politica kosovara ha permesso alla leadership al potere in Serbia, guidata dal presidente Aleksandar Vučić, di riconfermarsi agli occhi di Bruxelles e Washington come quella forza politica che mantiene il pieno controllo della situazione, essendo in grado di cambiare il corso della politica serba senza provocare notevoli turbolenze interne.
La nomina del nuovo governo kosovaro ha aperto la strada al proseguimento dei negoziati sull’attuazione dell’accordo di Bruxelles sulla normalizzazione delle relazioni tra Belgrado e Pristina, che erano rimasti bloccati per mesi a causa dell’impossibilità di trovare un accordo in seno al parlamento kosovaro sulla formazione della nuova maggioranza.
Benché i negoziati per la formazione del nuovo governo kosovaro si siano svolti senza alcuna mediazione formale dell’Unione europea e degli Stati Uniti, è logico supporre che Bruxelles e Washington abbiano attentamente seguito l’evolversi della situazione, incidendo sia sulle decisioni di Belgrado sia su quelle di Pristina.
Vučić spera (ed è del tutto probabile che abbia già ottenuto una promessa al riguardo) che Haradinaj e il suo governo renderanno possibile la creazione dell’Associazione delle municipalità serbe nel nord del Kosovo, ritenuta da Belgrado la sua più grande conquista nell’ambito dell’Accordo di Bruxelles. Nel caso si facesse qualche progresso in tale direzione, Vučić potrebbe usarlo come dimostrazione del fatto che la Serbia è riuscita a predisporre una cornice istituzionale che garantisse maggiore tutela della popolazione serba del Kosovo, e che a tal fine valeva la pena entrare in coalizione con Haradinaj.
Nel tentativo di giustificare di fronte all’opinione pubblica serba l’accordo con Haradinaj, Belgrado sostiene che il governo kosovaro dipenderà interamente dai voti della minoranza serba (Haradinaj ha infatti ottenuto il sostegno di soli 61 deputati su 120) e che quest’ultima potrà incidere in maniera significativa sulle decisioni del nuovo esecutivo. Questa è, tuttavia, pura retorica perché la stragrande maggioranza dei deputati del nuovo parlamento kosovaro appartengono ai partiti albanesi, sicché la dipendenza dai voti serbi (o da quelli di altre minoranze nazionali) potrebbe facilmente venire meno nel caso si decidesse di creare nuove alleanze o di indire nuove elezioni che potrebbero cambiare i rapporti di forza.
Sostegno
Bruxelles e Washington sono senz’altro contenti di come si stanno sviluppando le cose, e Vučić ha ragione di sperare che il sostegno di cui finora godeva da parte loro verrà ulteriormente rafforzato. Quello che gli resta da fare è prevenire l’insorgere di turbolenze interne, e per ora ci sta riuscendo. Fino a pochi anni fa, l’opinione pubblica serba e diversi gruppi e partiti di orientamento nazionalista e ultranazionalista avrebbero reagito a qualsiasi tentativo del governo di scendere a patti con Pristina – figuriamoci di fare un’alleanza con chi è accusato di crimini contro la popolazione serba – organizzando proteste di massa in tutto il paese. Questa volta invece non è successo niente.
Vučić è riuscito a impedire qualsiasi seria resistenza alla coalizione con Haradinaj grazie alla sua capacità di esercitare, al contempo, un alto grado di controllo sui media mainstream e un’influenza, a quanto pare significativa, sugli ultranazionalisti. Un approccio simile è già stato usato in passato, quando gli organi giudiziari e le forze di polizia presenti nel nord del Kosovo, a maggioranza serba, sono stati spostati sotto la competenza delle autorità di Pristina. Questa vicenda ormai non suscita più alcuna attenzione da parte dei media mainstream in Serbia, né tanto meno innesca proteste di gruppi nazionalisti e ultranazionalitsti, e il tema è stato completamente marginalizzato.
Gli unici a criticare apertamente la coalizione con Haradinaj sono il movimento “Dveri” e il Partito democratico della Serbia (DDS), entrambi all’opposizione e di orientamento nazionalista. Si tratta di strenui oppositori al governo, che però non godono di sufficiente sostegno per poter organizzare una protesta seria. Anche il Partito radicale serbo (SRS) di Vojislav Šešelj, dalla cui scissione è sorto l’SNS di Vučić, è contrario alla collaborazione con Haradinaj, ma continua a reagire in maniera tiepida, dal che si può desumere che anch’esso è sotto l’influenza della leadership al potere.
I partiti della cosiddetta opposizione filoeuropea, in primis il Partito democratico (DS) e il Movimento dei cittadini liberi (PSG), si presentano piuttosto disorganizzati, incapaci di replicare in termini chiari alla mossa di Vučić. Criticano la decisione di entrare in coalizione con un accusato di crimini di guerra ma non hanno la forza, né sufficiente spazio di manovra, per organizzare una vera resistenza. Anche perché l’intera vicenda della coalizione con Haradinaj è legata al miglioramento dei rapporti tra Belgrado e Pristina, un obiettivo fortemente sostenuto da Bruxelles e Washington.
Ostacoli
Benché la posizione di Vučić al momento appaia piuttosto salda, vi è tutta una serie di fattori che potrebbero indebolirla. In primo luogo, sulla scena politica serba non vi è alcun attore o partito politico di orientamento esplicitamente filoeuropeo disposto a offrire un effettivo sostegno alla politica di Vučić. I partiti che fanno parte della coalizione al governo sono quasi tutti di orientamento nazionalista, e il loro sostegno alla svolta nella politica sul Kosovo è direttamente legato alla capacità di Vučić e dei suoi più stretti collaboratori di impedire qualsiasi contestazione in seno alla maggioranza.
Se nei prossimi anni dovesse succedere qualche forte turbolenza sul versante economico-sociale, ovvero se il governo non riuscisse più a soddisfare le aspettative (in primis quelle economiche) dei suoi attuali sostenitori, potrebbe verificarsi il progressivo venir meno dell’appoggio di cui gode. Perché tale appoggio non è fondato su convinzioni politiche bensì esclusivamente sugli interessi. Inoltre, una parte dell’elettorato serbo di orientamento nazionalista e ultranazionalista sta già mettendo seriamente in dubbio le intenzioni di Vučić ed è del tutto possibile che cominci ad avvicinarsi a Dveri e DSS, rimasti fedeli alla vecchia linea politica sul Kosovo.
Vučić ha completamente chiuso la porta a qualsiasi compromesso con i partiti tradizionalmente filoeuropei. Gli unici a fornirgli un certo sostegno sono il Partito liberal democratico (LDP) e la Lega dei socialdemocratici della Vojvodina (LSV), ma la loro influenza è piuttosto limitata. La leadership al governo ha praticamente negato a tutti i partiti filoeuropei che non appoggiano prontamente le sue decisioni il diritto di partecipare alla risoluzione di qualsiasi problema sociale. Così facendo, si è privata del sostegno che le forze politiche e gli elettori di autentiche convinzioni filoeuropee avrebbero potuto fornirle nell’attuazione della politica sul Kosovo.
Vučić ha scelto questa strategia probabilmente allo scopo di impedire che i partiti filoeuropei sfruttassero il cambio di linea politica nei confronti del Kosovo per aumentare la propria influenza, sia a Bruxelles e Washington sia tra gli elettori serbi. Si ha l’impressione che Vučić stia intenzionalmente spingendo le forze filoeuropee nella posizione di oppositore ai negoziati con Pristina, in modo da togliere di mezzo ogni ostacolo e presentarsi come l’unico attore politico di orientamento filoeuropeo. A suo favore gioca il fatto di essersi dimostrato in grado di esaudire in modo soddisfacente tutte le aspettative di Bruxelles e Washington, e finché continuerà a farlo godrà del loro sostegno.
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