L'11 maggio, insieme a parlamentari e amministrative, in Vojvodina si è svolto il primo turno delle elezioni per il rinnovo del parlamento regionale. In attesa del secondo turno, previsto per il 25, le forze europeiste festeggiano vittorie importanti a tutti i livelli. Nostro reportage in due puntate
E' inondata di sole, Novi Sad, in questo inizio caldo di primavera. Sulla centralissima Zmaj Jovina, che unisce e separa la cattedrale cattolica del "nome di Maria" a quella ortodossa di San Nicola, molti giovani passeggiano senza fretta, passando indolenti davanti agli ombrelloni dai colori vivaci dei bar che si affacciano sulla larga via pedonale.
Nel centro storico, tutto edifici dalle facciate pastello, che richiamano più l'Europa centrale che i Balcani profondi, niente sembra tradire il fatto che ci si trovi ancora in campagna elettorale. Solo un piccolo gazebo che, da lontano, somiglia alla solita trovata pubblicitaria di un centro commerciale, da vicino appare per quello che è: un "punto elettorale", dove attivisti del Partito Democratico, con indosso magliette da cui fanno capolino stelle sorridenti che invitano a votare "Per una Vojvodina europea", distribuiscono ai passanti penne e gadget assortiti.
Più lontano, fuori dal centro affollato, oltre la periferia della città, che nel giro di qualche anno ha raddoppiato il numero dei propri abitanti, la pianura si allarga seguendo i meandri pigri del Danubio, interrotta solo dalle basse cime della Fruska Gora da una parte, e dal gigante assonnato della fortezza austro-ungarica di Petrovaradin dall'altra, appena oltre il fiume.
La Vojvodina, piatta, verde smeraldo nel tepore di maggio, si apre a raggiera in tutte le direzioni dell'orizzonte. Qui l'ambiente stesso, privo di ostacoli naturali, unisce più che creare confini, mescola più che dividere. Le vie di comunicazione, di terra e d'acqua, invitano a spostarsi e viaggiare, non permettono chiusure ed autismi. Il fuori, l'altro, l'Europa, qui sembrano proprio dietro l'angolo, ad un tiro di schioppo, dietro l'ultimo filare di pioppi che segna l'orizzonte più lontano.
Forse, più delle tante parole degli analisti di partito, per provare a capire cosa è successo qui l'11 di maggio, nelle ultime elezioni parlamentari, regionali e comunali, e quello che ci si può aspettare al secondo turno delle elezioni per il parlamento della Vojvodina, previsto per il 25, bisogna partire dalla natura stessa di questa pianura assolata, che vive e ruota intorno al grande fiume.
La Vojvodina alle elezioni parlamentari: economia, Kosovo, Europa
L'11 maggio scorso, nelle elezioni parlamentari serbe, la Vojvodina è la regione che ha regalato alla coalizione "Per una Serbia europea", guidata dal presidente Boris Tadic, la vittoria più convincente (42,1%, più di tre punti oltre la media nazionale). E se i radicali tengono, ottenendo all'incirca gli stessi voti che nel resto del paese (29%), i Dss di Kostunica raccolgono un ben magro bottino (6,98%, contro l'11,35% a livello nazionale).
Sembra questo il segno più evidente, che il Kosovo, tema su cui Kostunica ha basato in modo martellante ed esclusivo la sua campagna elettorale, dai tetti rossi e dai campanili della Vojvodina appare tanto distante, quanto vicina l'Europa. Troppo distante per scaldare il cuore degli elettori.
"I Dss, in questa campagna elettorale, hanno parlato della Vojvodina quasi esclusivamente in termini negativi, facendo costantemente riferimento al pericolo di separazione e di fatto con gli occhi rivolti al Kosovo", racconta Nedim Sejdinovic, segretario generale dell'Associazione dei Giornalisti indipendenti della Vojvodina ( Nezavisno Drustvo Novinara Vojvodine), fondata all'inizio degli anni '90 dai giornalisti che venivano allontanati dalle redazioni dall'apparato di potere di Milosevic.
"Questa politica non ha pagato, e il risultato si è visto. Prima delle elezioni, tra la gente, un tema ha prevalso su tutti: quello dell'integrazione europea che, in Vojvodina, per ragioni storiche e geografiche, è particolarmente sentito. Si è poi parlato di economia", continua Sejdinovic, "ed in particolar modo del sostegno che potrebbe arrivare grazie ai fondi europei, soprattutto nel campo dell'agricoltura".
La Vojvodina con le sue larghe distese alluvionali, deve gran parte della sua ricchezza proprio alla produzione agricola. Non a caso, a Novi Sad si svolge, proprio in questi giorni, la più grande fiera del settore in Serbia, arrivata quest'anno alla 75esima edizione, con più di duemila espositori da sessanta paesi diversi.
"Qui si produce soprattutto grano e granturco. Dei circa 1,5 milioni di ettari messi a coltura, 660mila producono mais. In Vojvodina il 43% degli abitanti vive in zone rurali, e 224mila famiglie, il 20% della popolazione, si occupano di agricoltura", spiega Slobodan Teofanov, vice-ministro dell'agricoltura del governo della provincia autonoma, dal 2000 in mano ad una coalizione formata da democratici, Lega dei socialdemocratici della Vojvodina (Lsv) e partito della minoranza ungherese.
Sediamo in un enorme salone, in cui vengono esposti macchine agricole e prodotti biologici in stand dai colori variegati. Su un palco improvvisato, ballerine dalle gambe vertiginose intrattengono, a ritmo di danze latino-americane, un pubblico numeroso e abbondantemente sudato.
"Sono due le cose più importanti per l'agricoltura della Vojvodina", sostiene Cedomir Keco, proprietario e direttore della rivista specializzata 'Moje Gazdinstvo', che siede insieme a noi nell'ambiente surriscaldato della fiera. "Da una parte la risoluzione dello status economico, ma anche e soprattutto sociale di chi resta a vivere nei villaggi. Dall'altra il credito necessario a migliorare e razionalizzare la produzione. Qui, naturalmente, il ruolo dei sussidi europei può risultare centrale".
"La Vojvodina non è soddisfatta dell'attuale politica agricola del governo di Belgrado, anche se le cose sono migliorate nettamente dai tempi di Milosevic", si infervora Keco di fronte ad un piatto di succulente rape rosse, condite con aglio e prezzemolo. "La nostra produzione, al contrario di quella della Serbia centrale, per il 90% va sul mercato. I sussidi annuali nel settore, però, nel nostro paese arrivano sì e no a 34 euro pro-capite, mentre nell'Ue sono in media di 125. In queste condizioni, essere concorrenziali è molto difficile".
A dare una versione alternativa dei fatti è Milorad Mircic, vice-presidente del Partito Radicale Serbo, che incontro nell'edificio modernista dove ha sede la sezione cittadina del partito, a pochi passi dalla sede del parlamento regionale della Vojvodina.
"Il contadino della Vojvodina si sente raccontare da otto anni di tutte le cose magnifiche che potrà ottenere nel momento in cui il paese sarà membro dell' Ue. Nel frattempo, però", sostiene Mircic, "diventa sempre più povero e marginalizzato, per colpa della corruzione dilagante nella classe politica."
"Alle parole del governo democratico, poi, non fanno riscontro i fatti", prosegue Mircic. "Nell'Ue all'agricoltura è riservato il 10% del budget pubblico, in Serbia invece soltanto il 4%. Anche i fondi creati per lo sviluppo agricolo vengono utilizzati soprattutto come riserve di denaro da cui l'establishment ruba a piene mani".
Le parole di Mircic seguono la linea del partito: per risollevare la Serbia non serve l'Europa, ma ripulire il paese delle "mele marce" democratiche che la governano. Raccogliendo voci in città, però, non sembra che la corruzione abbia una bandiera politica particolare. Anzi.
Secondo Miroslav Budinski, gestore del "Downtown", ostello in pieno centro, "in Vojvodina la corruzione al potere è un vero e proprio sistema". Budinski usa parole dirette, che sanno di esperienza personale. "Qui non è come in certe parti della Serbia, dove per ottenere un appalto bisogna atteggiarsi a piccoli boss da saloon. Qui tutto è più ordinato, 'scientifico', le bustarelle fanno parte del business-planning di ogni imprenditore. A prescindere dai partiti al governo".
"Dodjosi", "locali" e minoranze etniche, fratture in ombra
Per spiegare la tenuta dei radicali, più che il filone della "battaglia morale", un'altra strada sembra più promettente: quella che, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, segue le tracce delle decine di migliaia di persone arrivate nella ricca Vojvodina dalle zone più povere dell'ex-Jugoslavia, in cerca di lavoro e migliori opportunità. Molti dei "locali" li chiamano, con una sfumatura di voce non troppo tenera "dodjosi", i "nuovi arrivati".
A questi, negli anni '90 si sono aggiunti i profughi delle guerre di disgregazione della vecchia federazione, soprattutto da Croazia e Bosnia, meno dal Kosovo. Quanti è difficile dirlo, in mancanza di statistiche ufficiali. Il numero che viene fatto più spesso, però, è 200mila, di cui la metà almeno nella sola Novi Sad.
"Una vera integrazione tra profughi e popolazione locale non è mai avvenuta. E questo, si riflette anche sullo schieramento politico: il 90% dei rifugiati da Bosnia e Croazia vota per i radicali". Aleksandra Jerkov, 25 anni, è la più giovane deputato del parlamento serbo. Eletta lo scorso anno nelle fila della Lega dei Socialdemocratici della Vojvodina, partito regionalista guidato da Nenad Canak, sarà probabilmente riconfermata dopo questa tornata elettorale. Parliamo nella sede del partito, sotto le tre stelle gialle della bandiera della provincia autonoma, che simboleggiano le regioni storiche di Banato, Backa e Srem.
In alcune zone, l'arrivo di profughi ha profondamente cambiato la struttura della popolazione. Nello Srem, ad esempio, oggi il rapporto tra vecchi e nuovi arrivati e di uno a uno. Molti di loro vivono nelle case dei croati che sono dovuti scappare nella direzione opposta. Intorno a Novi Sad, poi, hanno creato nuovi quartieri, come quello di 'Veternik', spesso cresciuti in modo caotico e con costruzioni abusive.
Secondo la Jerkov, oggi la maggior parte di chi è venuto da Bosnia e Croazia continua a vivere in condizioni economiche disagiate, anche se in Vojvodina non esistono più centri collettivi, e molti dei rifugiati, se non tutti, sono riusciti ad inserirsi in qualche modo all'interno della struttura economica locale.
Il fatto che una piccola minoranza sia però arrivata in Vojvodina con le tasche piene, sostiene la Jerkov, "ha alimentato ed alimenta però un certo risentimento dei locali verso i nuovi arrivati, visto che spesso è difficile capire quale sia la vera natura dei loro guadagni".
Tra "vecchi" e "nuovi" abitanti della Vojvodina, sembra resistere una frattura sotterranea e poco visibile, una linea di divisione marcata da un sentimento di estraneità e talvolta di fastidio. Anche se i "dodjosi", insieme a non pochi problemi di integrazione sociale, hanno avvantaggiato non poco l'economia locale, portando manodopera a basso costo e uno spirito imprenditoriale che in molti, in Vojvodina, sono pronti a riconoscere.
"Qui siamo tutti dei nuovi arrivati. Anche noi 'vecchi', in realtà, siamo arrivati dal Kosovo nel corso di varie migrazioni avvenute nei secoli passati", mi racconta, seduto in una delle tante birrerie che occupano le corti ai lati della Zmaj Jovina, Dejan Acanski, animatore e direttore del "Volonterski Centar Vojvodine", ong che porta volontari di tutto il mondo a sviluppare progetti culturali nei centri minori della provincia. "Nei confronti dei profughi, c'è sicuramente un forte pregiudizio. D'altra parte, però, nella mia vita, quando ho sentito urlare per strada, è stato sempre con accento bosniaco, o montenegrino", conclude Dejan, a rivelare, in modo forse inconsapevole, un atteggiamento, se non ambivalente, sicuramente tormentato.
C'è però anche chi vede le cose da un'altra prospettiva. "I profughi lavorano sodo, si danno da fare, si aiutano l'un l'altro per costruire le proprie case, le loro donne lavorano adattandosi anche a fare lavori umili", è quanto mi dice, a sera, Miroslav Budinski nel suo ostello, quando gli chiedo cosa ne pensa della questione. Per poi concludere, ancora una volta senza giri di parole: "I vecchi abitanti della Vojvodina, spesso passivi e abituati al sostegno delle istituzioni, diventano nervosi quando vedono il progresso economico dei nuovi arrivati, e provano una certa invidia rispetto alla loro capacità di adattamento".
Il rimescolamento di popolazioni provocato dalle guerre degli anni '90 non si è limitato a creare un clima di incomprensione all'interno della comunità serba. Ha avuto ripercussioni visibili anche sul delicato rapporto esistente tra gli almeno 26 gruppi etnici che fanno della Vojvodina una delle regioni più "mescolate" d'Europa.
"In alcune municipalità, come quelle di Ada, dove gli ungheresi rappresentano l'80% della popolazione, in qualche modo i nuovi arrivati hanno portato motivi di tensione anche dove non ce n'erano mai stati", sostiene Aleksandra Jerkov. "Visto il loro passato traumatico, hanno un atteggiamento di fastidio verso chi parla in un'altra lingua, e non sono rari incidenti che prima qui sembravano impossibili".
La situazione ha portato a chiusure da una parte e dall'altra. Alcune fazioni della minoranza ungherese, la comunità più ampia dopo quella serba, hanno chiesto l'istituzione di otto municipalità a statuto speciale nella Backa del nord, a ridosso del confine con l'Ungheria, proposta rigettata anche da Lsv e Ds come "un tentativo di fatto di divisione lungo linee etniche".
In queste municipalità, un accenno a tale divisione, almeno a livello politico, sembra però essere già cominciato, come denuncia Ivana Radakov, coordinatrice della sezione di Novi Sad della "Youth Initiative for Human Rights".
"In Backa settentrionale, nelle elezioni municipali, si è presentata una 'Lista Unica Serba', formata da radicali, socialisti e Dss, alla quale si è contrapposto, in modo automatico, un blocco di partiti ungheresi. Questo, di fatto, significa divisione dell'elettorato su base etnica".
"Dal nostro punto di vista", prosegue la Radakov, "è importante che le liste delle minoranze si presentino insieme alle elezioni nazionali, perché altrimenti difficilmente sarebbero in grado di superare il quorum. A livello locale, però, la separazione su linee etniche dello spettro politico è potenzialmente molto pericolosa, soprattutto per una regione variegata come la Vojvodina. Quello che succede oggi con gli ungheresi della Backa, domani potrebbe ripetersi con i rumeni del Banato, poi con gli slovacchi e così via. Le conseguenze potrebbero essere esplosive".
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