Veduta aerea del fiume Sava nei pressi di Lubiana - Flystock/Shutterstock

Il fiume Sava nei pressi di Lubiana - Flystock/Shutterstock

Un tribunale amministrativo della Slovenia ha fermato la costruzione della diga di Mokrice, sulla Sava: il danno ambientale supera di gran lunga i benefici energetici della nuova centrale, fortemente voluta dal governo. Ma nel tratto sloveno del grande fiume molte altre nuove centrali sono in progetto o già costruite

26/11/2021 -  Marco Ranocchiari

La diga sulla Sava a Mokrice, in Slovenia ma un passo dal confine con la Croazia, non si farà. Almeno per ora. Lo ha deciso il 3 novembre scorso il tribunale amministrativo sloveno, capovolgendo una decisione del governo secondo cui la produzione di energia nel fiume doveva avere la priorità sulla conservazione della natura.

Mentre il ministro dell’Ambiente Vizjak, strenuo difensore del progetto, giura che la questione è solo rimandata, gli ambientalisti tirano un temporaneo sospiro di sollievo.

Ma nel tratto sloveno del fiume più importante dell'ovest dei Balcani le dighe continuano a proliferare. Una sequenza di dieci nuove centrali rischia di trasformare il suo tratto più integro in una sequenza di bacini artificiali, con gravi ripercussioni sull’ambiente e sul paesaggio.

Una storia controversa

La diga di Mokrice avrebbe dovuto completare il sistema di sei dighe, cinque delle quali costruite dopo il 2000, nel tratto più orientale della Sava slovena. A gestirle la HESS, società creata appositamente nel 2008, che spera di ricavare dal fiume 700 gigawattora di energia l’anno.

Da anni i nuovi impianti idroelettrici (per la maggior parte piccole centrali, ma anche medie o grandi come queste) generano una forte opposizione in Slovenia, dove i movimenti in difesa dell’integrità dei corsi d'acqua sono particolarmente attivi. Il progetto di Mokrice, però, è apparso da subito particolarmente controverso sin da quando è stato reso noto, oltre dieci anni fa.

Il bacino creato dalla diga andrebbe infatti a sommergere la confluenza tra la Sava e il Krka, un’area di grande valore ambientale, con gravi conseguenze per specie protette di pesci, uccelli e invertebrati oltre che per il paesaggio in un tratto in cui il fiume è relativamente intatto.

Nonostante la preoccupazione degli esperti e le polemiche il progetto ha comunque seguito il suo iter burocratico, fino a un anno fa, quando il progetto ha subito una serie di battute d’arresto.

Il governo non poteva negare i danni della nuova diga, perciò si era affrettato a dichiarare che a Mokrice due interessi pubblici, quello dell’approvvigionamento energetico e quello della conservazione della natura, erano in conflitto, e che la produzione energetica doveva essere prioritaria. L’eventualità era prevista dalla legislazione slovena e dalla Direttiva Habitat, ma solo in comprovata mancanza di alternative, e non era mai applicata prima nel paese.

Difficile, però, convincere esperti e attivisti, mobilitati fin dal 2015 contro la diga, che davvero non esistessero altre soluzioni per ricavare 28 megawatt di elettricità, meno dell’1% del fabbisogno del paese.

La Società slovena per lo studio dei Pesci (DPRS), una ong, era ricorsa al tribunale amministrativo, che già da febbraio aveva congelato i permessi. Poche settimane dopo, era arrivato un parere negativo da parte di un ente statale competente, l’Istituto di Ricerca sulla pesca, che confermava le preoccupazioni degli ambientalisti.

Ma la partita era ancora lontana dalla fine. Misteriosamente, meno di due settimane dopo lo stesso istituto ritrattava la valutazione con un nuovo rapporto, stavolta positivo. A firmarlo però non era la commissione di esperti che aveva redatto il parere precedente, ma il solo direttore.

Secondo il settimanale Mladina, che ha raccolto la testimonianza di alcuni collaboratori dell’istituto, a far cambiare idea al direttore sarebbe stata una telefonata di Janez Podgoršek, ministro dell’Agricoltura del governo Janša.

Non è un mistero che tra i sostenitori più accesi del progetto c’è il nome di un altro ministro, quello dell’Ambiente, Andrej Vizjak. Avvezzo allo scontro frontale con gli oppositori, Vizjak ha personalizzato (perdendo) il referendum sull’acqua dello scorso luglio ed è noto per l’abitudine di denunciare personalmente attivisti che lo contestano in strada oltre che per aver comprato, già in carica, un pacchetto di azioni della compagnia petrolifera Petrol.

Originario di Brežice, la cittadina sulla Sava a pochi chilometri da Mokrice e su cui nel 2017 è stata inaugurata l’ultima centrale targata HESS, il ministro ha un passato da dirigente proprio di questa compagnia. Sono in molti a giurare che Vizjak considera la nuova diga da 28 MW al confine croato una sua battaglia personale.

La commissione per la prevenzione della corruzione, comunque, nel luglio di quest’anno ha dichiarato che le accuse di conflitto di interesse mosse nei suoi confronti dagli oppositori del progetto sono infondate.

La sentenza dello scorso 3 novembre ha bloccato la costruzione della diga, ma non l’ha annullata. I proponenti potranno effettuare nuovi studi per dimostrare che tutte le specie e i tipi di habitat di Natura 2000 non corrono pericoli, e presentare nel dettaglio tutte le misure di mitigazione che intendono prendere.

Altre dieci dighe in arrivo

Nel frattempo, per la Sava si prospetta una minaccia ancora maggiore. Nella cosiddetta Sava centrale, ovvero il tratto che va all’incirca dall’altezza di Lubiana alla città di Celje, nei prossimi anni potrebbero sorgere ben dieci nuove centrali.

È il tratto più integro del fiume in Slovenia, sede di ambienti diversi come rapide, gole, spiagge, e ospita specie protette come il salmone del Danubio, uno dei simboli della biodiversità dei fiumi balcanici.

Nonostante parte di questo tratto rientri in aree protette, nel 2020 è stato firmato l’accordo per un sistema di dieci nuove dighe. A realizzarle sarà la HSE, società a controllo statale.

Gli impianti della bassa Sava e del tratto centrale sono dighe di dimensioni medio-grandi, con una potenza che si aggira tra i 20 e i 40 MW. Altre due, nel tratto alpino della Sava, avranno potenza inferiore ai 10 MW.

Complessivamente, le nuove dighe dovrebbero produrre 1,7 Terawattora di elettricità all’anno. La Slovenia produce un terzo della sua elettricità da fonti rinnovabili, ma tra queste figura praticamente solo l’idroelettrico, mentre altre fonti meno impattanti come solare ed eolico sono state fino a pochissimi anni fa praticamente ignorate. Negli ultimi due anni c’è stato un boom del fotovoltaico, che però si attesta ancora su un misero 1,8% del totale.

Mokrice e due dighe della media Sava centrale sarebbero finanziate con i fondi straordinari per la ripresa dal Covid-19.

Da sempre risorsa fondamentale per sloveni, croati, serbi e bosniaci, la Sava è sfruttata per produrre energia elettrica sin dagli anni ’50. Tutti i paesi attraversati hanno in progetto di costruire qualche nuova centrale, ma il paese più attivo su questo fronte è decisamente la Slovenia.

Il gigante ferito

Dalle Alpi Giulie al cuore di Belgrado, dove confluisce nel Danubio, la Sava ospita una una grande quantità di ambienti: golene, aree umide e foreste allagate, meandri abbandonati, rapide e gole. Nonostante scorra per centinaia di chilometri tra pianure industrializzate e capitali, molti tratti della Sava hanno uno stato ecologico eccezionale riconosciuto a livello internazionale.

Il corso sloveno è il più ricco di infrastrutture, ma anche qui è straordinariamente vario e sono in molti a frequentare, pescare o fare sport sulle rive del fiume. Tra Brežice e Mokrice è ancora necessario sbracciarsi per attirare l’attenzione del traghettatore sulla sua chiatta. È facile immaginare che quando tutti i tratti saranno regimati gran parte di tutto questo sparirà.

Con i tratti a monte delle dighe trasformati in bacini dall’acqua quasi ferma e quelli a valle privati dei sedimenti, molte specie perderanno il proprio habitat.

“Dove le dighe sono state già realizzate si è visto che le specie più sensibili scompaiono in 1 o 2 anni”, spiega la biologa Brina Sotenšek, attiva nella difesa dei corsi d’acqua sloveni, “compreso il salmone del Danubio, che è comunque rarissimo in questo tratto, il temulo, il gobione del Kessler e la suffia, protetti dalla direttiva Habitat”.

Per le specie che hanno bisogno di risalire il corso d’acqua la legge prevede degli scivoli laterali per superare le dighe. Eppure, spiega la biologa, le centrali più vecchie ne sono prive, mentre dove esistono a volte sono stati progettati prima che nuove dighe alterassero il livello dell’acqua, rendendoli inutilizzabili per lunghi periodi. Alla vicina diga di Krško, dove è presente l’unica centrale nucleare del paese, va ancora peggio: per la manutenzione della centrale bisogna periodicamente abbassare il livello del fiume mettendo gli scivoli completamente in secca.

Uno degli argomenti di solito citati a favore delle dighe è la protezione dalle alluvioni, una piaga costante in tutto il bacino della Sava. Ma questo, sostengono le organizzazioni contrarie alle nuove dighe, non vale per le piene più grandi, i cui effetti possono essere amplificati dalla sequenza di dighe.

Uno degli effetti più gravi delle nuove dighe, paradossalmente, è usato come argomentazione a favore proprio dai loro promotori. Gli sbarramenti trattengono i sedimenti... con la conseguenza però che a valle il fiume tende a erodere il terreno. Anche il livello della falda si abbassa. Le conseguenze sono già visibili a Zagabria, distante appena cinquanta chilometri da Brežice, dove l’abbassamento delle acque sotterranee sta già rendendo più difficile e costoso l’approvvigionamento idrico.

La soluzione? Gli investitori non hanno dubbi: costruire nuove dighe, in un effetto a catena che dopo la Slovenia potrebbe spostarsi in Croazia. Come un’ondata di piena.


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