L'attentato a Charlie Hebdo ha avuto forti ripercussioni in Turchia, paese dove le questioni legate a identità religiosa, laicità, censura e libertà di stampa sono da tempo sotto i riflettori. Un approfondimento
L’attentato al settimanale satirico Charlie Hebdo e le discussioni su Islam e libertà di espressione stanno toccando molto da vicino la Turchia. Gli omicidi sono stati condannati, ma con tanti “se” e tanti “ma” pronunciati con disinvoltura alla televisione da politici e opinionisti.
Ne sanno qualcosa al quotidiano Cumhuriyet, una delle due testate straniere autorizzate – assieme a Il Fatto quotidiano in Italia – a tradurre e pubblicare il numero speciale del periodico francese realizzato dopo l'attentato. “Sarà la pubblicazione più importante”, aveva detto il neo direttore della rivista Gerard Biard, “La Turchia sta attraversando un periodo difficile e lì la laicità si trova sotto attacco”.
Charlie e Cumhuriyet
Gli editori di Cumhuriyet, giornale di tradizione kemalista e ritenuto uno dei capisaldi della tradizione laica turca, hanno selezionato quattro pagine da mandare in stampa, decidendo però di omettere la copertina della rivista (l’illustrazione del profeta Maometto in lacrime che espone la frase-simbolo degli ultimi giorni “Je suis Charlie” con la sovrascritta “Siete tutti perdonati”) per evitare di “offendere la sensibilità” di alcuni settori della società.
Nonostante la precauzione, all’alba del 14 gennaio la polizia ha effettuato una retata alla stamperia bloccando i furgoni pronti per la distribuzione delle copie del giornale. Il via libera è arrivato un’ora più tardi, dopo che gli agenti hanno comunicato alla procura che la pagina in questione non c’era. Il blocco della distribuzione di un giornale (attuato dalla polizia senza l’ordine del tribunale) rappresenta una novità nel penoso curriculum sulla libertà di stampa turca, ma il ministro dell’Interno Efkan Ala si è limitato a dire solamente che “i furgoni e il giornale sono stati controllati sulla base di un’operazione dell’intelligence”.
Due opinionisti avevano tuttavia apposto la vignetta del profeta sul proprio pezzo. Una probabile svista degli inquirenti che ha accentuato le accuse contro il giornale, scatenando minacce (anche di morte) ai giornalisti Ceyda Karan e Hikmet Çetinkaya tramite i social media. Il 14 gennaio su Twitter l’hashtag #ÜlkemdeCharlieHebdoDağıtılamaz (in turco, Charlie Hebdo nel mio paese non può essere distribuito) risultava tra le prime 10 etichette più diffuse nel mondo.
In serata un nutrito gruppo di uomini armati di bastoni e sassi si è radunato davanti alla sede di Cumhuriyet invocando il nome di Allah. La polizia più tardi ha bloccato i manifestanti e tre persone sono state fermate.
Contro gli attacchi, provenienti anche dagli editoriali dei quotidiani pro-governativi, si sono schierati altri media indipendenti. Il portale T24, ad esempio, ha tradotto e pubblicato integralmente il numero di Charlie Hebdo , che è finora rimasto online nonostante i ricorsi presentati in tribunale per sospenderne la pubblicazione. Anche le tre principali riviste satiriche, Leman, Penguen e Uykusuz, uscite in edizione straordinaria nello stesso giorno di Charlie Hebdo con una copertina nera in segno di lutto, hanno avuto la loro parte nelle frasi cariche d’odio circolate nelle piattaforme su Internet.
Charlie ed Erdoğan
Mentre alcuni gruppi di cittadini, giornalisti e membri di ong continuano ad esprimere la loro solidarietà ai giornali presi tutt’ora di mira, le affermazioni delle autorità politiche non aiutano affatto a distendere l’atmosfera di violenza. Il premier Ahmet Davutoğlu, che si trovava insieme ad altri leader in prima fila nella marcia tenuta a Parigi lo scorso 11 gennaio, di fronte agli attacchi rivolti ai giornali ha affermato che “il governo non può accostare la libertà di stampa con l’atteggiamento vile di chi distribuisce offese”.
Anche le affermazioni del presidente Tayyip Erdoğan non sono state molto differenti. Riferendosi all’attentato di Parigi, il capo dello stato ha detto che “Nessuno ha il diritto di addossare ai musulmani un atto terroristico approfittando della nostra religione (…), anche il Papa condanna questa rivista famosa per le sue pubblicazioni provocatorie. Questa non è libertà, è sconfinare nella sfera della libertà degli altri per creare un’atmosfera di terrorismo (…)”. Rivolgendosi poi a Cumhuriyet il presidente ha detto che “questo paese è musulmano al 99%, lo sai. Tu non puoi offendere le figure sacre di nessuno, che sia musulmano o altro. Sei tu a creare terreno per la provocazione. La sensibilità dei musulmani riguardo al loro profeta è più che evidente, andarci contro con insistenza non ha niente a che vedere con la libertà di pensiero”.
Nessun commento tuttavia è stato fatto dal governo riguardo ad un gruppo che si dichiara vicino ad al-Qaida e che venerdì scorso, presso la moschea di Fatih a Istanbul, ha svolto una preghiera funebre per i fratelli Cherif e Said Kouachi, esecutori dell’atacco a Charlie Hebdo, le cui foto, assieme a quella di Osama bin Laden decoravano uno striscione con su scritto: “Se la vostra libertà d’espressione non ha limiti preparatevi alla nostra infinita libertà di agire”, firmato Piattaforma di fratellanza di Ansar.
Charlie e Hrant Dink
Secondo un sondaggio realizzato lo scorso settembre l’uso della violenza in nome dell’Islam è condannato dall’88,2% della popolazione turca. Tuttavia sembra mancare nel paese una corrente di pensiero che riesca a riflettere sulla storia e i processi dell’Islam da una prospettiva oggettiva e lontana da intenti di manipolazione politica. Alcuni osservatori negli ultimi giorni hanno cercato di spiegare al pubblico quanto serva una riflessione di questo tipo all’Islam, come Mehveş Evin del quotidiano Milliyet il cui articolo, però, è stato escluso dalla versione cartacea del giornale. “Per la stragrande maggioranza dei musulmani praticanti Charlie Hebdo è solo ‘la rivista che insulta il profeta’”, scrive la giornalista, “anzi secondo alcuni nell’ultimo numero si burla ancora una volta di ciò che è sacro per loro. Comprendo l’intento delle persone religiose di volere salvaguardare ciò che rietengono sacro, fa parte della mentalità conservatrice. Ma questo intento e questa reattività possono essere interpretati anche quale ‘fragilità” e ‘manifestazione di autoristarismo’. La questione infatti non inizia, nè finisce con Charlie”.
Un’altra figura che ritiene la necessità di una autorcritica per l’Islam è İhsan Eliaçık, teologo e leader del movimento dei Musulmani anticapitalisti. “I governanti del mondo islamico danno sempre la colpa all’Occidente per fare in modo di non essere messi in questione. I governanti occidentali, invece, per nascondere i loro delitti danno sempre la colpa al terrorismo degli altri paesi”, dice Eliaçık. “È necessario che le persone che pensano e gli scrittori si svincolino dalla giostra dei politici per scendere alla radice della questione”.
Fino a pochi anni fa non era “l’offesa della sensibilità religiosa”, bensì quella dell’ “identità turca” a mietere maggiori vittime tra i giornalisti e pensatori liberi in Turchia. Anche Hrant Dink, giornalista turco-armeno ucciso il 19 gennaio di 8 anni fa era stato accusato di questo “reato”. Oggi lo si ricorderà ancora una volta davanti alla sede del suo settimanale, Agos. Il parallellismo con i colleghi di Parigi sarà inevitabile.
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