Le rovine del tempio di Zeus Olimpio di Cizico e le imprese di Alcibiade: lungo il Mar di Marmara i luoghi, come le persone, sono a volte vittime di un tragico destino
Sembrerà strano, ma in un angolo del Mar di Marmara possiamo ancora visitare i resti di una delle Sette Meraviglie del mondo.
Oggi non è che un esaltante ammasso di rovine in marmo: ma così ben lavorate e scolpite, da giustificare senz’altro l’inserimento di quello che fu il tempio di Zeus Olimpio a Cizico nel celebre catalogo dell’antichità. Il diffuso fulgore lapideo di centinaia di virtuosismi artistici esposti nudi al sole risalta bruscamente sulla campagna verde pallido e riarsa di mezza estate, in una semiperiferia di casette sparse, di modesti minareti. Un grande basamento in pietra sopraelevato segnala le dimensioni del sacro edificio; a terra, giacciono rocchi di colonne (due persone non le cingerebbero con le braccia), eterei capitelli, smilzi acroteri, volute mollemente attorcigliate; da una parte, un’infinità di gocciolatoi, di tegole, di travi, di triglifi, tutti in marmo, sono accatastati in un ordinato tumulo. Il tramonto già li arrossa, quando vi arrivo. Più vicino a me, incrocio lo sguardo con una protome leonina rimasta capovolta per secoli a fauci spalancate, come sbigottita per tutte quelle meraviglie crollate al suolo.
A venire fin qui dall’Italia, a descrivere per primo questo luogo a noi occidentali, fu un viaggiatore-umanista che è considerato il padre dell’archeologia, prima ancora che questa disciplina avesse un nome. Ciriaco di Ancona - così si chiamava - arrivò a Cizico nella prima metà del ’400, e contò qui ben 31 colonne ancora in piedi, alte oltre 20 metri.
Se non abbiamo mai sentito citare questo Olympieion di Cizico assieme alle Piramidi, al Mausoleo di Alicarnasso e al Colosso di Rodi, è solo perché le Sette Meraviglie in realtà erano più di sette: le opere candidate all’Oscar antico della bellezza venivano aggiunte o tolte a seconda di chi ogni volta l’elenco lo stilava, e comunque man mano che venivano realizzate, in una competizione dove nuovi architetti e mecenati sgomitavano coi vecchi, per far largo ai propri capolavori. Fu così che, quando il tempio fu eretto (sotto Adriano, nel II sec. a.C.) alcuni vollero aggiungerlo all’elenco delle Meraviglie, al posto di qualche altro monumento che finiva retrocesso.
Sempre in competizione, sempre in disaccordo tra loro, questi greci: persino sulla bellezza. E fin dai tempi di Agamennone e Achille. Anche a rischio di perdere le guerre.
È forse per questo che sul sito ormai in rovina, così come in altri angoli del piccolo mare, pare sentir volteggiare a tratti, ancora insaziato ed irrequieto, lo spirito di Alcibiade. Del resto, lo abbiamo preannunziato: il Mar di Marmara è un mare di fremiti... Alcibiade, amato, esaltato e allo stesso tempo odiato dal popolo ateniese; traditore ed esule, poi riammesso, dalla propria città; troppo valente e ambizioso per accontentarsi di una Atene che pur era all’apice della sua potenza: era sostenitore della guerra ad oltranza contro Sparta, e arrivò quasi a riacciuffare per la coda una vittoria che agli ateniesi stava sfuggendo. Qui, nelle acque di Cizico e attorno al suo duplice porto, affrontò e vinse la flotta nemica nel 410 a.C., aprendo speranze ormai insperate ad una patria che già presentiva la sconfitta.
Ma i popoli sono spesso volubili ed ingrati. Così, pochissimi anni dopo, un errore commesso da un suo ufficiale costò ad Alcibiade un rinnovato esilio: dal quale non rientrerà più.
Per ritrovare il suo fantasma dobbiamo spingere lo sguardo, sempre lungo questo mare, sulla slanciata e sottile penisola che pare contenerlo da nord quando fluisce nell’Egeo. Gallipoli (Gelibolu, in turco), vista dall’aereo pare un collo di cigno proteso in volo, che spinga lo sguardo fino a scrutare l’altro mare. È tanto ricca di memorie, di bellezze e di storie che da sola merita - lo vedremo - un viaggio a sé: ad onta del fatto che questo sia un ‘piccolo’ mare.
Ma per ora di Gallipoli ci interessa solo ricordare che accolse, sdegnato, un Alcibiade giunto al termine della carriera. Ritiratosi in alcuni possedimenti che aveva nella penisola, li curava perlustrandoli giornalmente a cavallo.
E qui avvenne l’ultimo colpo di scena, l’atto finale di un’autentica tragedia greca. Anzi, di due: perché è in qualche modo paragonabile a quella che sempre su queste sponde si concluse con la catastrofe del fatale anno 1922. Infatti, se sostituiamo all’esule Alcibiade l’altrettanto esule Venitzelos, lo statista che dopo aver realizzato l’impresa di impossessarsi di Smirne e dell’Anatolia occidentale fu cacciato alle prime elezioni utili dai suoi stessi concittadini e dagli avversari politici che non condividevano e temevano i rischi di quell’avventura; e se sostituiamo agli spartani i turchi, altrettanto lenti nel reagire, ma tenaci ed inesorabili nella ripresa: ecco che due drammi nazionali si intrecciano e si fondono qui a distanza di 2400 anni.
Anche i luoghi, come le persone, sono a volte vittime di un tragico destino. Su questa spiaggia sabbiosa di Gallipoli, semideserta di bagnanti per le forti correnti marine e lungo cui procedo in auto pronto ad arrestarmi sul luogo che cerco, avvenne l’atto finale dell’Atene classica: parallelo a quello in cui fu sepolta, da Smirne al Mar di Marmara, appunto, la Megali Idea, la ‘grande visione’ novecentesca di restituire alla Grecia moderna le glorie di Bisanzio o addirittura quelle di un Alessandro.
E in effetti vani furono i tentativi di Venitzelos - che le fasi decisive del conflitto seguiva con ansia da Londra o da Parigi - di evitare il prevedibile collasso delle troppo estese ed allungate linee di combattimento del fronte greco-turco. E così pure Alcibiade, che scorgeva dai propri possedimenti l’intera flotta ateniese tirata in secco e inerte sulla riva - gli equipaggi sventatamente sparsi tra le campagne in cerca di viveri -, tentò di metterla in guardia dagli spartani in agguato poco lontano, smaniosi di vendicare lo smacco subito a Cizico assieme a tanti altri precedenti. Alcibiade si precipitò a parlare con gli ammiragli ateniesi, li ammonì del rischio incombente. Ma invano. Quelli gli intimarono:‘… di allontanarsi, ché a loro toccava comandare’.
Ma eccomi finalmente al piccolo cartello stradale che avverte che sono arrivato al fiume che cerco, il Cumalı Çay. Un tempo si chiamava Egospotami: qui, attorno alla sua modesta foce, Atene precipitò nella catastrofe del 405 a.C., per interne discordie e per folle sventatezza dei suoi generali. E fu la definitiva sconfitta con Sparta, che colse di sorpresa e distrusse la flotta nemica, prima ancora che riuscisse a prendere il largo.
Canneti coprono d’ombra il letto placido del fiume. Uccelli marini veleggiano a spirale cadendo sulla preda che fa capolino incauta tra le acque. Fastose libellule saltellano qua e là in una loro insaziabile ricerca, segnando d’un fremito la superficie. Tanto destino e una tragedia epocale scorrono dimenticati, sotto il ponticello da cui mi affaccio sul Cumalı Çay.
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