Dal 14 al 16 dicembre scorso si è tenuta a Roma l'edizione 2007 di Medlink: "Oltre la crisi di civiltà. Cultura, politica e religioni per costruire alternative nel Mediterraneo". Questo l'intervento presentato da Osservatorio sui Balcani
Prologo
Ho pensato di proporvi tre immagini, un contributo che mi viene da uno specifico punto di osservazione, ovvero una delle sponde - forse fra le più inquiete - del Mediterraneo. Una sponda - quella balcanica - che è presa in considerazione solo quando scorre il sangue per poi tornare nell'oblio, dimenticandoci così di un piccolo particolare: che il Novecento nasce e muore a Sarajevo. Non credo sia affatto casuale, ma - al contrario - l'esito di una dislocazione geografica che ne ha condizionato e ancora ne condiziona le vicende politiche e culturali, ovvero il rappresentare la grande faglia fra oriente ed occidente nel cuore dell'Europa. Quell'Europa che si fa o si disfa proprio qui, in uno scontro aperto - senza esclusione di colpi - fra progetto politico europeo e disegno euroatlantico.
Parlarvi in pochi minuti dei terremoti che questa faglia produce non è possibile. Allora mi sono rifugiato, come vi dicevo, in tre immagini che vi vorrei proporre:
1.L'editto di Blagaj
2.La balkanska krčma
3.La principessa Europa
1. L'editto di Blagaj
La prima di queste immagini è l'Editto di Blagaj. Blagaj è un piccolo villaggio a pochi chilometri a sud di Mostar, in Bosnia Erzegovina. Lì, da una roccia accanto all'antica tekija, la casa dei dervisci risalente al XVI secolo, esce la più grande sorgente europea per quantità d'acqua alla fonte, il fiume Buna. La tekija è un luogo di straordinaria spiritualità e raffinatezza, con i suoi soffitti in legno intagliati da mani esperte del tempo e con un avveniristico sistema di riscaldamento dell'acqua inserito nel pavimento.
Ma la cosa più importante di questo luogo fu l'emanazione dell'editto chiamato appunto "di Blagaj", del quale la tekija conserva una copia (la versione originale è in un monastero francescano nei pressi dei Fojnica).
L'editto fu emesso dal Sultano Mehmet II el Faith al fine di garantire i diritti fondamentali delle genti bosniache all'atto della conquista turca della Bosnia, nel 1463.
Esso rappresenta una straordinaria testimonianza dell'intreccio di culture che hanno attraversato e costituito l'elemento fondativo dell'Europa, quello stesso intreccio che nei giorni nostri - sotto i colpi dello scontro di civiltà e delle paure - si vorrebbe negare. Forse inconsapevoli che con questa operazione si negherebbe l'idea stessa di Europa.
«Editto del sultano Mehmet II El Fatih Mehmet, figlio di Murat-Khan, sempre vittorioso!
La volontà dell'onorabile, segno sublime del Sultano, sigillo splendente del conquistatore del mondo è la seguente:
Io, Sultano Mehmet-Kahn, informo il mondo intero che coloro i quali possiedono questo editto imperiale, i francescani bosniaci, sono nei miei favori per cui io dispongo:
- fate che nessuno infastidisca o disturbi né loro, né le loro chiese;
- permettete loro di vivere in pace nel mio Impero;
- lasciate stare al sicuro coloro che presso di loro sono rifugiati;
- permettete loro di tornare e di sistemare i loro monasteri senza timore in ogni Paese del mio Impero.
Né la mia Altezza Reale, né i miei Visir, né il personale alle mie dipendenze, né la mia servitù e nessuno dei cittadini del mio Impero potrà insultarli o infastidirli.
Non permettete a nessuno di attaccarli, insultarli, né di attentare alle loro vite, proprietà o chiese.
Se loro ospiteranno qualcuno proveniente da fuori e lo introdurrà nel mio Paese ne hanno la mia autorizzazione.
Poiché ho così disposto, ho graziosamente emesso questo editto imperiale e ufficialmente assumo l'impegno.
Nel nome del creatore della terra e del cielo, colui che nutre tutte le creature, nel nome dei sette Musafs e del nostro grande Profeta e nel nome della spada che io impugno che nessuno si comporti diversamente da ciò che ho scritto fin tanto che mi saranno fedeli e obbedienti alla mia volontà.
Blagaj, 28 maggio 1463»
Siamo a metà del XV secolo. In quel tempo si cacciano gli ebrei dalla Spagna e la conquista delle Americhe avviene all'insegna della distruzione delle civiltà e delle culture autoctone. Dall'impero ottomano - dipinto come oscurantista ed oppressivo - viene in questo caso una pagina di civiltà, forse la più antica dichiarazione dei diritti umani conosciuta nella storia. Precede di 326 anni la rivoluzione francese del 1789, di 485 anni la dichiarazione universale dei diritti umani del 1948.
L'Editto di Blagaj indica un'altra storia, il preludio alla nascita di un sincretismo culturale che fa dei Balcani il cuore stesso dell'Europa. Proprio perché non corrisponde ad una lettura manichea delle vicende che hanno opposto cristianità e islam, è un cuore che tendiamo a rimuovere, quasi rappresentasse un'insidia alle radici cristiane dell'Europa.
Come abbiamo rimosso e non elaborato ciò che è avvenuto nel cuore dell'Europa negli anni '90 del secolo scorso, con il riapparire dei primi campi di concentramento dopo l'Olocausto, con l'assedio di tre anni e mezzo di Sarajevo, la Gerusalemme dei Balcani. Una guerra che qualcuno ha definito urbicidio, a prescindere che le vittime fossero di questa o quella nazionalità. Il simbolo di questa tragedia è stata non a caso la biblioteca nazionale di Sarajevo con milioni di volumi andati in fumo. Gli obiettivi militari delle nuove guerre non sono le postazioni nemiche ma la cultura.
Una guerra, quella degli anni '90, che non rientrava nel nostro immaginario e dunque non riconducibile al bisogno di schierarci secondo lo schema amico-nemico. Che si è definita etnica, quando in realtà si trattava del manifestarsi della post modernità, la guerra come terreno di estrema deregolazione, dove prosperano gli affari e si nutre la finanziarizzazione dell'economia. Il mito dei nazionalismi balcanici - infatti - non è la patria, ma gli stati offshore; non è il sangue e il suolo ma più prosaicamente la Hummer dagli accessori dorati che viene presentata nei Luxury Show che si svolgono nelle capitali europee che furono comuniste, i traffici del plutonio, dei rifiuti tossici e degli esseri umani.
Una postmodernità che abita i luoghi che le sono più congeniali, dove non ci sono regole se non quelle neo-feudali, dislocati in forma a-geografica rispetto alle tradizionali divisioni del mondo. Facendo così piazza pulita di categorie come sviluppo e sottosviluppo, ormai inservibili a descrivere le forme moderne dell'inclusione e dell'esclusione. Che riduce a merce ogni aspetto della nostra esistenza. Che disprezza ogni forma di mediazione e compromesso sociale, che cavalca le forme dell'antipolitica e che ben si adatta ai meccanismi della democrazia plebiscitaria. Che prega prima di ordinare la morte, che brucia i libri e che uccide i giornalisti che fanno bene il loro mestiere. Che non ama la cultura e le città. Che si alimenta di miti e di paure.
E' in questo ingorgo che lo scontro di civiltà sembra auto-avverarsi.
2. La balkanska krčma (la locanda balcanica)
La seconda immagine è la locanda balcanica. Rada Ivekovic la definisce un «luogo di scambio e di formazione dell'"opinione pubblica" (o di ciò che ne prende il posto: i rumori)» (v. Rada Ivekovic, Autopsia dei Balcani, Raffaello Cortina editore).
La krčma è un ambiente chiuso, in tutti i sensi, dove non gira l'aria. Dislocato nelle periferie è il regno della palanka (il villaggio), del fango e della grossolanità. E della terevenka, la sbornia senza memoria. Dove si disprezzano gli intellettuali, il pensiero e la letteratura. Dove gli abitanti delle città, simbolo di cosmopolitismo, sono considerati depravati e parassiti.
Nella locanda la fanno da padroni il pettegolezzo e la denigrazione, l'invidia e il rancore. E' il luogo dei fantasmi maschili, dove si generano violenza e pornografia. Ma è soprattutto il luogo dove gli umori diventano rancore... e il rancore diviene progetto politico.
Voglio dire che sarebbe un errore pensarla come qualcosa di arcaico, anche se nelle sue forme più tradizionali la krčma tende a scomparire.
La locanda è infatti un concetto filosofico, viene dai Balcani ma lo possiamo ritrovare in ogni altra latitudine. A ben guardare ha a che fare con lo spaesamento delle nostre comunità di fronte alle dinamiche della globalizzazione. L'incerta identità che questo passaggio di secolo e la crisi delle ideologie otto-novecentesche ci ha lasciato in eredità. Quel bisogno di radici di fronte all'omologazione, che tende a farci chiudere anziché ad aprirci alla consapevolezza dell'interdipendenza, alla ricerca di nuove identità e di nuovi pensieri. Con l'effetto di pensarsi non parte di un comune destino ma in sottrazione, ovvero ad affermare la nostra identità nella negazione dell'altro. Un bisogno di radici che tuttavia appare l'unica risposta culturale e politica accessibile a comunità disorientate, prive di riconoscibili spazi di confronto pubblico, che offrano loro spazio di rappresentanza ed espressione reali, e non apparenti. Un bisogno di radici che tuttavia - come l'inselvatichirsi degli animali domestici abbandonati, lasciati a se stessi in ambienti a loro ostili perché troppo artificiali e complessi per essere abitati grazie al solo istinto di sopravvivenza - può sfociare nella barbarie dell'aggressività che guadagna suolo e spazio vitale con il sangue. E può essere brillantemente strumentalizzata da centri di manipolazione del potere che di arcaico, a loro volta, non hanno nulla.
Questo è quel che fermenta tra i fantasmi della "locanda balcanica", i luoghi sotto casa della moderna barbarie. Che spesso noi non sappiamo cogliere, ma che l'antipolitica sa ben interpretare.
E' la paura. Che mette insieme l'incertezza sociale ed il rancore verso l'ingiustizia che non trova più gli strumenti dell'emancipazione e della liberazione, spuntati nei loro esiti tragici. Che non va sottovalutata, perché - come in ogni conflitto - la paura dell'altro rappresenta l'anticamera della guerra. Ma la paura è un fatto reale, non può essere esorcizzata. Va affrontata, invece, elaborata, fatta evolvere in positivo.
Non è affatto casuale che investa le aree sociali più esposte e prive di strumenti di elaborazione, spesso incapaci di ascoltare le narrazioni altrui, sempre che ci siano perché questi stessi processi di paura e di aggressività sono spesso reciproci. Non è facile mettersi in comunicazione, bisogna averne gli strumenti e occorre un passaggio ineludibile: il riconoscimento del dolore degli altri.
Ma quanto abbiamo saputo nella nostra Europa riconoscere il dolore degli altri? Siamo pieni di memorie divise, ciascuno a coltivarsi il proprio di dolore, in attesa che prima o poi la storia faccia giustizia. Ma senza elaborazione collettiva la memoria diventa incubo, e il tempo non è affatto galantuomo.
Che cos'è la riconciliazione - di cui continuiamo a parlare spesso a vanvera - se non una forma di elaborazione del conflitto?
3. La principessa Europa
Siamo così alla terza immagine. Zygmunt Bauman, in un suo recente lavoro, ci racconta di quando la principessa Europa venne rapita da Zeus e di quando suo padre, Agenore - re di Tiro in Fenicia - mandò i suoi figli a cercarla. Uno di essi, Cadmo, facendo vela verso Rodi, sbarcò in Tracia vagando per le terre che poi avrebbero preso il nome della sua sventurata sorella. Giunto a Delfi chiese all'oracolo dove si trovasse Europa. In risposta ricevette un consiglio pratico «Non la troverai. - gli disse - Prendi invece una vacca: la seguirai pungolandola, ma non lasciarla mai riposare. Nel punto in cui cadrà a terra sfinita, costruisci una città» (v. Zygmunt Bauman, L'Europa è un'avventura, Edizioni Laterza). E' la storia dell'origine mitica di Tebe.
Altre storie, altri racconti, ci parlano di un'Europa che non si scopre, ma di una missione, qualcosa da costruire, un lavoro che non finisce mai, che trae origine nella civiltà mediterranea. Ci raccontano di un'Europa che nasce fuori di sé. Degli europei che, a dispetto dei popoli stanziali, erano nomadi. Di un'identità europea che interiorizza la differenza, allergica alle frontiere, ad ogni fissità e finitezza.
Ora, se questa immagine non corrisponde all'Europa dei giorni nostri, forse varrebbe la pena di chiederci che cos'è accaduto.
Non posso qui ripercorrere mezzo millennio di storia, ma qualche domanda la vorrei porre. Quante cacciate degli ebrei o dei mori dalla Spagna siamo disposti a tollerare? Quante conquiste e distruzioni di civiltà altre siamo disposti ad accettare per rivendicare l'autosufficienza del "monoteismo occidentale"? Quanti pogrom dobbiamo ancora vedere dopo quel che è accaduto nel Novecento?
Forse la risposta sta nel fatto che quel che accadde nel Mediterraneo del XV secolo, nonostante Fernand Braudel, non lo abbiamo saputo elaborare. Così come il secolo dell'Olocausto e dei Gulag, nel quale siamo ancora immersi, incapaci di far i conti con la nostra storia, quella più lontana come quella più recente.
Allo stesso modo non abbiamo compreso - nonostante Predrag Matvejevic - quel che le sponde del Mediterraneo hanno portato nei nostri linguaggi, nei costumi, nell'arte, nei mercati, sulle nostre stesse tavole.
Forse la risposta sta nel fatto che non ci conosciamo, che non abbiamo coscienza di noi stessi. Del nostro stesso essere popolo di migranti.
«Eppure lo sapevamo anche noi
l'odore delle stive
l'amaro del partire
Lo sapevamo anche noi
e una lingua da disimparare
e un'altra da imparare in fretta
prima della bicicletta
Lo sapevamo anche noi
e la nebbia di fiato alla vetrine
e il tiepido del pane
e l'onta del rifiuto
lo sapevamo anche noi
questo guardare muto
E sapevamo la pazienza
di chi non si può fermare
e la santa carità
del santo regalare
lo sapevamo anche noi
il colore dell'offesa
e un abitare magro e magro
che non diventa casa
e la nebbia di fiato alla vetrine
e il tiepido del pane
e l'onta del rifiuto
lo sapevamo anche noi
questo guardare muto»
(Gianmaria Testa, Ritals, dall'album "Da questa parte del mare")
Le parole di Gianmaria Testa ci raccontano di un cortocircuito che ci ha resi incapaci di elaborazione della nostra storia. Quello stesso cortocircuito della memoria nel quale si è rinchiusa l'Europa, incupita dai propri fantasmi, dove l'uomo-topo (per usare la dura immagine di Adriano Sofri) colpisce di più il nostro immaginario del traffico di esseri umani.
Paghiamo le conseguenze dell'autismo nel quale siamo caduti negli anni '90 e gli effetti collaterali delle "guerre infinite" che hanno materializzato uno scontro di civiltà tanto evocato. Uno di questi è rappresentato dall'arretramento del processo di costruzione dell'Europa politica, divisa fra approccio euroatlantico ed euromediterraneo, facendo emergere due diverse concezioni delle istituzioni comunitarie, l'Europa degli Stati in opposizione all'Unione Europea intesa come soggetto politico unitario e federato, come forma di governo al di là degli stati nazionali che «potrebbe fare scuola nella costellazione postnazionale» (v. Europa, identità perduta, di Jacques Derrida e Jürgen Habermas, la Repubblica 4 giugno 2003).
Invece - per tornare a Braudel - continuiamo ad affrontare i grandi temi che oggi investono l'area mediterranea con gli strumenti interpretativi del tempo precedente. Un approccio - quello post nazionale - che dovrebbe guidarci nella crisi del Kosovo come in quella israelo-palestinese.
Il Mediterraneo quale spazio politico post nazionale, pensato non per omologare, ma al contrario per preservare e aprire le culture.
E l'Europa in questo mare, come soggetto in dialogo con quel che le è accanto, capace di vivere con l'altro, imparando a vivere insieme all'altro.
Forse così riusciremo a riportare il sorriso sul volto della principessa Europa.
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