Irene Spagnul è studentessa universitaria all'ultimo anno di Cooperazione Internazionale allo Sviluppo presso l'Université Libre de Bruxelles (Belgio). Sta effettuando uno stage all'Organizzazione Internazionale per le Migrazioni di Tbilisi. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
3 settembre 2008
Il mio primo giorno di lavoro è il contrario di quello che mi aspetto: attivo e partecipativo!
Per inciso, lascio l'albergo dove ho vissuto per i miei primi due giorni a Tbilisi, perché Gigi, mio giovane collega, ha trovato un appartamento molto carino e spazioso proprio di fronte al nostro ufficio dove potrò vivere per i prossimi 4 mesi. Faccio amicizia con la receptionist dell'hotel che rimane sbalordita quando le dico che rimarrò qui fino alla fine di dicembre, mi dà anche il suo numero di telefono dicendomi di chiamarla se mi serve qualcosa o mi va di uscire. Si chiama Tea.
In ufficio, mi reclutano dalle prime ore della mattina: ci mettiamo in un grande stanzone a disimballare prodotti non alimentari di prima necessità, a distribuirli in sacchetti blu e sistemarli in modo che siano pronti per essere caricati sul camion e distribuiti in un centro di sfollati a Tbilisi. Per il momento non so altro, così mi limito ad eseguire gli ordini.
Pranzo con Marc, Vladimir e altre due colleghe, mangiamo in piedi, velocemente, del khachapuri (focaccia georgiana), ripieno di formaggio e carne mentre Vladimir ci illumina con un monologo di storia caucasica, con l'ausilio di una cartina. E' evidentemente indignato per come la Georgia è stata bistrattata negli ultimi secoli e cerca di trasmetterci la sua rabbia.
Nel pomeriggio mi viene proposto di accompagnare due squadre a distribuire gli aiuti (kit da cucina) in un centro collettivo alla periferia di Tbilisi. Secondo le stime sono 1.694. Io accetto con entusiasmo, mi infilo la maglietta dell'Organizzazione e parto con loro. Appena arriviamo, un gruppo di gente ci viene incontro, i miei colleghi georgiani iniziano a spiegare chi siamo e cosa stiamo per fare e nel giro di pochi minuti si forma intorno a noi un'immensa folla di curiosi. Donne, anziani, bambini, ognuno vuole ascoltare da vicino. Sono evidentemente disperati: sono sporchi, qualcuno sta male (intravedo ad un certo punto una donna con la casacca di Medicins Sans Frontières che corre con una valigetta in mano) e il nervosismo è palpabile. Ci sono anche dei giornalisti e Kristin, la nostra responsabile, rilascia un paio interviste.
Non so cosa fare perché la distribuzione non è iniziata e i miei colleghi stanno ancora discutendo con la gente. Così me ne sto in disparte, osservando la situazione generale. L'edificio è immenso, almeno 8 piani, stile sovietico. Se non ci fossero state tante testoline riconoscibili alle finestre, avrebbe potuto essere scambiato per un posto disabitato. Finestre rotte, muri cadenti, calcinacci ovunque. Vedo due bambini che giocano alla guerra con una pistola giocattolo e mi dico che la follia non ha mai fine. Poi mi volto e scorgo due giapponesi, anche loro in disparte, che fissano il logo sulla mia maglietta. Così mi avvicino e scambio due chiacchiere informali. Sono due giornalisti, perfettamente equipaggiati ma senza alcuno slancio professionale: si limitano ad osservare. Parlano poco ma sono simpatici e ridacchiano a ogni mia frase.
Li lascio dopo poco perché vedo che la situazione con gli sfollati si sta scaldando. Più tardi mi viene detto il perché: ci sono all'incirca 2.000 persone, 300 in più del previsto. Nessuno vuole rinunciare alla propria parte così non riusciamo a metterci d'accordo per le modalità di distribuzione. Noi vorremmo scaricare le scatole davanti all'edificio lasciando a loro l'incombenza di dividersele invece secondo loro è meglio mettere i kit direttamente nelle loro mani. I deboli hanno paura di non farcela ad avere la meglio. E hanno ragione perché c'è più di qualcuno che sembra avere più potere e più voce in capitolo. Più di qualcuno alza la voce, diventa aggressivo e dobbiamo minacciare di partire per calmare la situazione. Finalmente decidiamo di scaricare le scatole a tranche, dobbiamo mettere i nostri corpi a barriera per lasciare gli scaricatori fare il proprio lavoro e per evitare che la gente glielo impedisca. Sono tutti molto scontrosi, sospettosi perché non capiscono da dove arrivino gli aiuti e continuano a protestare.
La sera stessa vado con Marc e Vladimir in un ristorantino ungherese del centro. Mangiamo gulash, beviamo vino georgiano e parliamo del loro lavoro. Sono entrambi a Tbilisi eccezionalmente, in missione per sostenere la squadra locale in questo periodo di emergenza. Lavorano insieme da molti anni per l'Organizzazione ma cambiano periodicamente campo base: sono stati in Kosovo, Macedonia, Pakistan, Angola, Iran e Iraq. Ora lavorano in Giordania. Mi raccontano esperienza di vita e professionali, ricordano con nostalgia particolari di vita vissuta. Sono persone fatte di pezzi di mondo. Io li ascolto a bocca aperta e non posso trattenermi dal dire che mi sento una bambina di fronte a loro. Grasse risate in risposta! Mi assicurano però che l'esperienza che sto facendo mi servirà molto: essere sul campo in periodo di emergenza è sempre molto apprezzato. Mi rincuoro.
Torniamo a casa su un taxi scassato, rumoroso, con il parabrezza scheggiato e senza tassametro. Paghiamo 5 lari (2.50€) e il tassista vuole anche darci il resto ma non lo lasciamo fare e scendiamo. Arrivo nella mia nuova casa. Rusiko, la signora cinquantanovenne con cui la divido, mi sta aspettando davanti alla tv. Appena mi vede le si accende il volto, mi scorta in cucina e mi mette davanti una padella piena di verdure cotte, del pane, un tè, della dolcissima marmellata di mirtilli e dei dolcetti. Io cerco di dirle che ho già mangiato e che proprio non ho fame ma lei non capisce l'inglese, sembra volermi nutrire a tutti i costi e così mangio qualcosa per non offenderla. E' una donna molto vitale e allegra e mi ci sto già affezionando. Però prima di dormire cerco sul dizionario come si dice: "Non ho fame, ma grazie lo stesso".
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