La recente emanazione dello stato di emergenza in Bosnia Erzegovina a causa della pandemia da coronavirus, rende ancora più difficile la situazione per migranti, rifugiati e richiedenti asilo. Intervista a Silvia Maraone, project manager di Ipsia che lavora a Bihać
A fine febbraio il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato l'apertura delle frontiere e le autorità greche hanno respinto migliaia di rifugiati e migranti. Ma in realtà il flusso non si è mai fermato...
È dall’estate del 2019 che chi lavora lungo la rotta balcanica sta assistendo a un fenomeno preoccupante e cioè quello dell’aumento del numero di persone lungo la rotta. Transiti che in realtà si erano mostrati in aumento già lungo il 2018, ma il 2019 è l’anno che ha mostrato chiaramente che qualcosa di importante sta cambiando a livello di politiche di contenimento dei migranti sui confini turchi.
Parliamo di confini che teoricamente sono sigillati, secondo l’accordo Ue-Turchia del marzo 2016 , ma che di fatto sono porosi, dove è impossibile controllare in maniera capillare stretti di mare e percorsi di terra, senza contare il traffico organizzato attraverso l’uso delle quattro ruote come camion, auto e furgoni che passano le frontiere regolari con il pagamento di mazzette tra un passaggio e l’altro.
Dalla scorsa estate i numeri sono aumentati: e la minaccia di Erdoğan, cioè che avrebbe aperto i confini, che non sarebbe stato in grado di mantenere l’ordine nella gestione dei profughi – che ricordiamo sono quasi 4 milioni in Turchia – usata a fine febbraio è sempre stata ventilata, fin da quando ha firmato quell’accordo con l’Ue.
Una minaccia ma mai messa in atto prima di ora, o sbaglio?
La minaccia è diventata realtà già l’estate scorsa e noi che lavoriamo sul campo ce ne siamo accorti. A partire da settembre in particolare i numeri sono lievitati in maniera sensibile. Tant’è che gli sbarchi in Grecia sono stati simili a quelli che avevamo visto anche nel 2015, l'anno dell’esodo di migliaia di rifugiati verso i paesi del nord Europa. Basta guardare i numeri (fonte UNHCR ): tra gennaio e dicembre 2019, con un picco nel mese di settembre di 10.500, sono arrivate in Grecia 74.600 persone, di cui 59.700 via mare. Nel 2018 erano stati in tutto 50.500.
Ritieni che ciò che è accaduto al confine greco-turco, dove migliaia di persone sono rimaste bloccate e respinte con violenza ma un certo numero è comunque passato, si sentirà più a nord dove operi tu?
È come la teoria dei vasi comunicanti: come era successo nel 2014-2015, con l’innalzarsi del conflitto in Siria, aumenta la pressione delle persone in fuga ai confini turchi.
Però rispetto al 2015 la situazione in Grecia è ben diversa...
La Grecia ha oggi un governo di destra che appena insediatosi ha messo in chiaro subito che non intende farsi carico dei richiedenti asilo che arrivano nel paese in maniera irregolare. E a partire dal marzo 2016 chiunque arrivi in Grecia irregolarmente è considerato illegale e dovrebbe essere rimpatriato o nel suo paese di origine o in Turchia, secondo l’accordo 1 a 1 [l'accordo ha introdotto, tra le altre cose, uno schema di scambio 1:1 secondo il quale per ogni siriano rimandato in Turchia, un altro viene ricollocato in uno stato membro Ue, ndr] firmato a marzo 2016 tra Turchia e Ue.
La vittoria a luglio 2019 del partito Nuova Democrazia dell’attuale primo ministro, Kyriakos Mitsotakis, ha mostrato già i primi effetti?
Dall’autunno dell’anno scorso si è vista chiaramente la politica repressiva del governo Mitsotakis. Ad Atene, ad esempio, sono stati evacuati numerosi squat, nel quartiere centrale di Exarchia già normalmente monitorato giorno e notte perché quartiere “anarchico” e abitato da molti rifugiati. Qui sono aumentati i controlli della polizia e delle forze speciali e le azioni repressive nei confronti dei profughi che non stanno dentro i campi profughi regolari.
Ciò che sta accadendo di grave a Lesbo, cioè l’isola dell’Egeo dove avviene il numero maggiore di sbarchi e dove le condizioni di vita dei profughi nel campo di Moria sono le peggiori di tutto il paese, è però che la popolazione già da inizio febbraio ha cominciato a manifestare, in maniera sempre più violenta, contro la presenza dei rifugiati. Ma anche contro la presenza di giornalisti , attivisti e membri delle Ong che operano sul territorio.
Queste manifestazioni sono strettamente collegate all’aumento degli sbarchi?
La correlazione l’abbiamo vista. Appena è aumentato il numero, sono stati organizzati dei veri raid da parte della popolazione, per colpire i volontari - non solo stranieri, ma anche locali - che aiutano i migranti e per spingere i giornalisti a spegnere i riflettori su ciò che accade.
Dalle zone di sbarco dei gommoni e delle barche abbiamo visto le immagini di mura umane create dalla popolazione per respingerne lo sbarco e urlando ai migranti di tornare da dove erano venuti. Scene completamente diverse da quelle che abbiamo visto negli anni scorsi. Una situazione che per forza di cose andrà degenerando.
Il governo turco ha dichiarato che con “l’apertura” dei giorni scorsi ben 80mila persone sono riuscite a passare il confine greco. Sono numeri plausibili, secondo te?
Non penso sia così alto. Si stima che siano circa 10mila le persone che ci si aspetta in arrivo in Serbia come in Bosnia Erzegovina.
La Serbia su questa questione continua a mantenere un profilo basso. E' un paese che ha risposto a quanto richiesto dall’Unione europea, con l’apertura dunque di 18 centri di accoglienza fin dal 2016. La popolazione locale si sta però irrigidendo, si sono verificate manifestazioni contro i migranti e gli attivisti al confine nord, nella zona di Šid, ma anche a Subotica. Tra queste l’attacco da parte di gruppi locali ai volontari di No Name Kitchen, ong spagnola con un presidio sul confine a Šid.
E in Bosnia Erzegovina?
Anche qui in Bosnia Erzegovina si è vista aumentare l’insofferenza - quantomeno negli attivissimi gruppi Facebook – verso i migranti, che usano la stessa narrazione retorica che sentiamo in Grecia e in Serbia per seminare panico nella popolazione, annunciando l’arrivo di “4 milioni di persone, terroristi, invasori”…
Dopodiché, in effetti, i numeri sono aumentati. Ad esempio a Tuzla, dove non esistono campi di accoglienza o di transito e tutta l’assistenza è in mano a pochi volontari locali, si è visto un flusso notevole proveniente dalla Serbia soprattutto perché l’inverno è stato mite e quindi non vi è stata alcuna interruzione come di solito accade nei mesi più freddi. Con la primavera e vista la situazione generale di tensione, sarà ancora più pesante, senza ombra di dubbio.
E a Sarajevo, che è comunque uno dei luoghi di transito, com’è la situazione?
I volontari ci aggiornano e ci dicono che i campi sono pieni. Anche perché le persone portate via da Tuzla sono state portate a Blažuj, l’ultimo dei campi allestiti nel paese a dicembre 2019. Ma il movimento di queste persone è continuo. In città ci sono molte persone che stanno per strada, perché lo preferiscono piuttosto che stare nei campi o in edifici abbandonati o, se riescono, in appartamenti in affitto. Chi regolarmente, perché in possesso di documento di identità e della richiesta d’asilo, chi affidandosi a cittadini che senza scrupoli affittano a prezzi esorbitanti.
Da Tuzla e da Sarajevo prosegue poi il flusso su Bihać e dintorni...
Sì, non vogliono restare lì. Tentano comunque di portarsi sul confine nord-occidentale, qui a Bihać e nella zona di Velika Kladuša, dove tutti i giorni decine di persone provano il “game” con i relativi push back della polizia sia croata che slovena.
Ed ora anche nella penisola balcanica stanno emergendo i primi casi di coronavirus e misure d’emergenza...
Con la pandemia da coronavirus e le misure adottate il 17 marzo in Bosnia Erzegovina la situazione è diventata ancora più complessa e delicata, a tratti scoraggiante. Anche perché la Bosnia Erzegovina ha un sistema sanitario particolarmente debole. Con l’emanazione dello “stato di emergenza” a livello nazionale, sono stati chiusi i locali pubblici, ristoranti e bar, biblioteche, farmacie, scuole, centri sportivi e tutte le attività sportive, è stato decretato il coprifuoco e sono state date indicazioni su come comportarsi nei luoghi pubblici.
Nel campo Bira di Bihać dove voi di Ipsia operate, cosa sta accadendo?
Già da sabato 14 marzo gli uomini e i minori maschi non accompagnati dovevano stare chiusi dentro al campo, con polizia e cordone di operatori che mantiene il controllo degli ingressi. Ci era stato comunicato che si trattava di misure preventive della durata di 14 giorni, entrate in vigore al Bira e al campo Miral a Velika Kladuša, ma non al Borići e all’Hotel Sedra vicino a Cazin, i campi per famiglie. Da allora abbiamo ridotto le attività di gruppo e aggregative e abbiamo solo distribuito il tè la mattina, con gli operatori che restano dentro al chiosco muniti di guanti e mascherina.
I migranti non hanno reagito violentemente a queste decisioni, ma si lamentano di non poter uscire dal campo perché per loro è una necessità, anche solo mentale. Come IPSIA abbiamo deciso di ridurre i contatti tra i migranti, anche se trattandosi di un campo chiuso, in questo momento con un po’ meno di duemila persone… la situazione è paradossale. Così com’è ora se una persona si ammalasse, l’epidemia si spargerebbe in pochissimo, sebbene siano stati preparati dei container esterni per la quarantena. Ma il campo, di fatto, è totalmente impreparato all’espandersi di questa malattia.
Rispetto a coloro che non sono accolti nei campi regolari, accanto alle misure decretate a livello nazionale il Kržni stab (Consiglio di crisi) costituito in seno al Cantone Una-Sana il 18 marzo ha preso una serie di altre decisioni tra le quali l’allestimento di un campo di tende in località Lipa , tra Bihać e Bosanski Petrovac.
Un altro problema grave riguarda il fatto che le persone che tentano il “game”, se rientrano dopo il termine di 48 ore probabilmente non potrebbero essere riammesse nei campi, soprattutto se vengono da Slovenia e Croazia, ma questo vorrebbe dire ancora più gente in giro per strada. Quindi anche su questo punto, in questo momento c’è un po’ di confusione e i campi non sono attrezzati per isolamento e quarantena.
Al momento le organizzazioni continuano a lavorare nei campi, chi con attività ridotte, chi con rotazione di personale, e tutte le attività che coinvolgono più di dieci persone contemporaneamente sono scoraggiate. Per ora rispettiamo tutte le misure che ci sono state date e stiamo lavorando tutti insieme per fare in modo che sia per il personale come per i migranti accolti si riducano le potenziali situazioni di crisi.
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