Incontro con un cooperante atipico, Giuseppe Terrasi, assistente presso l'Università Cattolica di Milano, da due anni rappresenta l'unica presenza internazionale stabile a Srebrenica. La vita quotidiana nella cittadina simbolo della tragedia bosniaca
Vivi a Srebrenica da due anni, ormai. Qual è il motivo di questa scelta?
Mi occupo di Balcani e viaggio nei Balcani da anni. Ad un certo punto ho deciso di legare la mia storia alle storie che ho conosciuto da queste parti. Ho deciso di dirigere verso i Balcani la mia attività professionale, cioè quella di assistente presso la cattedra di Scienze della cooperazione per lo sviluppo e la pace dell'Università Cattolica di Milano. Ho così cominciato a proporre ai miei studenti, anziché di fare lezione in aula sui temi della guerra e della pace, di provare a seguirmi in alcuni dei viaggi che facevo regolarmente, tentando di dare dignità di strumento didattico e scientifico alle cose che di solito in università non hanno. Cioè memoria e testimonianza.
Con quali modalità lavorate su questi temi?
Invito i miei studenti a venire in visita per alcuni giorni con il desiderio di accostarsi a questo contesto, quindi incontrando vari attori locali, cioè tutti coloro che a diverso titolo sono coinvolti in quello che possiamo chiamare "sforzo di ricostruzione di una situazione di convivenza" o di pace, qui sul territorio. Attori come esponenti dell'associazionismo locale, dell'autorità politica, di quella religiosa, andando in visita ai luoghi di culto, ai luoghi della memoria come il memoriale di Potocari. Per ascoltare cosa essi intendono realizzare, cosa organizzano, cosa riescono a fare su questo territorio, quindi parlare con loro e farsi raccontare.
Questa attività come viene recepita dai vostri interlocutori?
La decisione di trasferirmi stabilmente qui nel 2004, facendo assumere una dimensione locale alle attività, si è basata anche sulla risposta straordinaria che abbiamo raccolto dall'intera comunità, relazionandoci con l'intero territorio. Tutt'oggi è una risposta straordinaria, di grande benevolenza nei nostri confronti, nei confronti delle cose, anche piccole, che con grande semplicità e artigianalità riusciamo a fare. Credo che le ragioni siano molteplici.
Innanzitutto ricordiamo che Srebrenica è un posto assolutamente isolato, anche geograficamente, non è un luogo di passaggio come Tuzla o Mostar. Chi viene a Srebrenica è perchè lo vuole proprio fare. Va poi considerato che a Srebrenica non ci sono altre presenze stabili internazionali.
La presenza di circa dieci persone al mese, studenti che si fermano per 4/5 giorni e che poi ritornano in seguito perchè hanno creato dei legami con il luogo e le persone che l'abitano, rappresenta un'occasione concreta di rottura, proprio grazie alla nostra presenza fisica, dell'isolamento al quale la città sembra essere condannata.
Quindi la vicinanza quotidiana, la condivisione dell'isolamento è una carta fondamentale per costruire canali di comunicazione?
Credo che soltanto la presenza fisica sia in grado di rompere questo stato di isolamento, perchè tutti gli altri strumenti che noi siamo abituati ad utilizzare nel comunicare, parlo ad esempio di internet, non ci sono o non c'erano fino a poco tempo fa. La rete internet è appena arrivata, perchè fino a pochi mesi fa le linee telefoniche non erano in grado di supportare le connessioni. L'internet point più vicino è a due ore e mezza di strada. Quindi a distanza è veramente difficile restare in contatto. Il rapporto continuativo con la realtà, attraverso la mia presenza "ponte", che gli studenti italiani alimentano quando vengono, avvia dei meccanismi positivi di relazione con la nostra principale interlocutrice, la comunità giovanile locale. Con essa collaboriamo, sediamo agli stessi tavoli, co-organizziamo eventi e attività.
Attività di che tipo e con quale percorso progettuale?
Ci muoviamo in base alle richieste che arrivano dalla comunità locale. Ad esempio è stata richiesta l'organizzazione e la gestione del corso di lingua e letteratura italiana. Nato su richiesta dei ragazzi del posto spinti dal desiderio di comunicare anche verbalmente con i ragazzi che venivano dall'Italia, l'abbiamo tenuto per un anno intero con 49 iscritti e, visto il successo, contiamo di attivare una seconda classe a settembre. Il corso è stato occasione per organizzare mille altre iniziative, dai concerti di folk locale o italiana ad altre iniziative culturali. Per fare solo un esempio, due settimane fa abbiamo inaugurato la manifestazione culturale "italijanske veceri na Guberu" (Serate italiane al Guber).
Il Guber è un posto molto bello, immerso nel bosco ed era l'antica attrazione turistica di Srebrenica. E' una sorgente di acqua curativa, ricchezza del territorio che non viene per nulla sfruttata. Prima della guerra c'erano anche un ristorante e un albergo, ora è tutto raso al suolo. Stiamo cercando di riattivarlo e di legarlo appunto ad un'iniziativa culturale, organizzata assieme all'Ambasciata italiana e alla municipalità di Srebrenica, oltre a tutti i ragazzi locali con i quali collaboriamo. Serate fatte di musica, per stare insieme attorno al fuoco, cose davvero molto semplici, ma simbolicamente importanti.
Qual è il livello di partecipazione della popolazione?
E' stupefacente. A Srebrenica c' è un grosso problema di coinvolgimento e di partecipazione della cittadinanza. Le nostre iniziative, proprio perchè sfuggono alla connotazione etnico-nazional-religiosa, sono iniziative incredibilmente frequentate. Esistono iniziative, come il centro giovanile situato in centro città, che non vengono frequentate. Al Guber, dove si deve camminare per 45 minuti a piedi, c'è stata una presenza di un centinaio di persone e per la comunità locale questi sono numeri importanti.
Perchè il centro giovanile non è frequentato?
Diciamo che alcune iniziative al centro giovani non sono frequentate. Il centro è nato grazie alla brillante idea della comunità locale. Ricavato dall'ex cinema-teatro della città, andato distrutto durante la guerra e poi ristrutturato con fondi di Paesi del nord Europa, gode di finanziamenti della stessa fonte ma viene gestito a livello locale. A volte realizza attività molto interessanti e con grandissima partecipazione, come ad esempio il concerto dei "Zabranjeno Pusenje" ndr: gruppo musicale fondato nel 1980 a Sarajevo Zabranjeno Pusenje di fine maggio.
Però credo che anche il centro giovani spesso non riesca a sfuggire alla "connotazione" delle attività. Non da parte degli organizzatori, che sono assolutamente bravi, ai quali però riesce a volte difficile sfuggire alla connotazione del tipo... E' un'attivtà serba è un'attività musulmana, ci vanno solo questi o solo quelli...
La vostra presenza, in quanto "terza persona", riesce a destrutturare queste divisioni?
In una certa misura sì. Sebbene sia molto difficile spiegare il fenomeno con una sola risposta, perché si tratta di una realtà molto complessa. Esiste un problema di connotazione che grava sulle attività, seppur intelligenti e organizzate su tutto il territorio. Ma esistono anche altri problemi. Per esempio alcuni non si avvicinano al centro giovanile perché purtroppo c'è un certo consumo di alcool, che è uno dei modi attraverso il quale qui sfocia uno dei disagi giovanili.
Quindi persone un po' più adulte o famigliole non si avvicinano volentieri ad alcuni luoghi anche per motivi del genere e non per la connotazione "etnica".
Le attività organizzate dalla nostra associazione, hanno il privilegio di poter beneficiare di un fatto. La mia posizione mi permette di poter dialogare con tutti, perché quella che è stata non è la mia guerra. Sono straniero, siciliano e consapevole nonché orgoglioso delle mie radici. Questo mi permette di stare qua con equilibrio ed essere in grado di dialogare. Che non significa essere imparziale rispetto alla storia di Srebrenica o di fronte alla "distribuzione delle responsabilità". Ho visto che questa è una cosa che noi stranieri adoriamo fare...abbiamo un'atteggiamento incredibilmente distributivo delle responsabilità, abbiamo bisogno di definire chi è colpevole e chi è innocente...
Parli di dialogo. Si può parlare di avviamento di un percorso di rielaborazione del conflitto?
Credo noi si sia ad uno stadio precedente, cioè di preparazione del terreno verso un percorso di rielaborazione. Siamo in grado di creare delle occasioni aperte, abbiamo un ruolo di facilitazione della ripresa del dialogo. Ma quando parliamo di rielaborazione del conflitto credo non si possa prescindere da una fase precedente: l'elaborazione del lutto.
E' importante ricordare che al memoriale di Potocari sono sepolte al momento circa 2000 salme e ne mancano all'appello circa 6.000. Nel centro di riconoscimento di Tuzla ci sono alcune migliaia di sacchi contenenti i resti dei corpi trovati finora ed in attesa di identificazione. Sono passati 11 anni e credo sia intuitivo capire che l'elaborazione del lutto di un familiare, che in situazione di normalità credo possa durare da sei mesi a due anni, qua si protrarre da oltre un decennio. Credo che questo sia fonte di uno squilibrio forte, che ha ripercussioni sulla comunità locale intera.
Quanto la comunità internazionale partecipa a questo percorso? Parlavi di assenza di presenze permanenti...
Sì. Non ci sono internazionali permanenti qui a Srebrenica e forse anche questo è il motivo della benevolenza verso di me che mi facilita il lavoro. Progetti in realtà ne vengono fatti, penso a Tuzlanska amika" assciazione di Tuzla ma anche altri, tutte persone spinte da buone intenzioni e buona volontà. Ma parlo di disponibilità a condividere la quotidianità. E di internazionali che lo fanno non ce n'è. Le ragioni di questa assenza sono molteplici.
Srebrenica è conosciuta come il luogo con la precentuale di fallimenti progettuali più alta di tutta la Bosnia Erzegovina. In passato le organizzazioni sono venute, il progetto è fallito e l'organizzazione non è più tornata e difficimente propaga un'esperienza positiva rispetto al territorio. Credo che una parte sia legata a questa "fama" che Srebrenica si porta dietro.
Poi c'è la questione della fase di ideazione dei progetti. Manca una cosa banale quanto essenziale: l'analisi del territorio. Se io avessi un milione di Euro e dovessi investirlo sull'economia di un paese, analizzarei le schede paese, calcolerei il "rischio paese", cose che fior di società finanziarie a livello internazionale fanno. Un economista non metterebbe mai a disposizione il proprio patrimonio se non dietro una severa analisi del rischio di quel territorio.
Dici che il mondo della cooperazione agisce spesso senza cognizione di causa?
In generale il mondo legato alla cooperazione, quella istituzionale, decentrata, non istituzionale dandogli una definizione ampia, ha a disposizione un patrimonio incredibile in termini di buona volontà e spesso importanti strumenti economici, ma ha capacità vaghe di analisi del territorio. Credo che i progetti qui falliscano perchè non si conosce affatto il contesto.
La complessità del territorio richiede che i progetti, per riuscire, debbano radicarsi con alcune modalità, delle attenzioni che non credo ci siano. Complessità date dal fatto che a Srebrenica, contrariamente ad altre città come Sarajevo, la conflittualità tra le comunità che vivono in città non è latente, non è mascherata, esiste. Essa va osservata, analizzata e gli interventi devono sapersi proporre, utilizzare alcune chiavi di accesso che mancano alla comunità internazionale in generale. Intendo che la comunità internazionale dovrebbe muoversi spinta da un interesse non solo proprio, ma di reale cooperazione...cioè che da un progetto fatto a Srebrenica se ne avvantaggi la popolazione intera e non solo chi lo propone e lo realizza.
Poi ci sono motivi anche banali. Sono a Srebrenica e ci sto con positività perchè ho una chiave di accesso sobria, siamo un'associazione artigianale e povera. Questo ci rende automaticamente vicini alle persone, spesso si attivano addirittura dei meccanismi di aiuto verso di noi, meccanismi che legano moltissimo i diversi elementi della comunità locale tra loro. Intervengono inoltre anche altri fattori. Io vivo al sesto piano senza ascensore, molti giorni all'anno non c'è l'acqua e spesso manca la corrente elettrica. La comunità internazionale di solito si muove con standar diversi. Le torri gemelle a Sarajevo sono edifici incredibilmente belli, ma non sono restituti ai bosniaci, sono sede di banche e di istituzioni internazionali. Alcune considerazioni sugli squilibiri dell'intervento della comunità internazionali debbano essere fatte.
Come vedi Srebrenica in questi giorni?
Questi giorni li definisco i giorni della memoria. Dal 7 al 12 luglio le diverse comunità realizzano dei programmi, manifestazioni culturali, presentazione di libri, cerimonie religiose, con i quali cercano di "fare memoria" rispetto ai lutti delle proprie comunità di appartenenza. L'11 luglio è la data culmine per la comunità bosniaco-musulmana, il 12 per quella serbo-bosniaco-ortodossa. Il dato che salta agli occhi è che in questi giorni la città è incredibilmente sotto i riflettori internazionali, vediamo macchinoni e autorità che non abbiamo mai visto ma si tratta di presenze spot. Il 13 luglio non rimarranno manifestazioni culturali, la città ritornerà a vivere come prima, sebbene con qualche elemento positivo. Un esempio: il 29 luglio si terrà la seconda edizione delle "Italijanske veceri na Guberu", da noi organizzata assieme alla comunità locale.
Purtroppo, ciò che succederà in questi giorni è che salirà il livello della tensione, anche politica, tra le due comunità. Perchè sullo scontro tra le due comunità si basano molti poteri che poi rimangono assenti da Srebrenica. La loro presenza esagiterà anche i cittadini locali, quelli che vivono qui 365 giorni all'anno. Le mercedes nere blindate, parcheggiate davanti al comune, resteranno due giorni e non di più. Non torneranno a vivere al sesto piano senza ascensore o a vivere con 103 marchi di pensione al mese.
Ciò che avverto è che le persone semplici che vivono in città assorbono le tensioni che vengono importate per alcuni giorni, rendendo difficile l'accostarsi a questi eventi di memoria con serenità e semplice vicinanza umana. E' come se si vedessero i vari personaggi della città, anche le autorità, esproriati per alcuni giorni del proprio ruolo. Persone che ogni giorno dell'anno fanno un grande sforzo nella direzione della convivenza, associazioni locali, noi, per quanto possono anche le autorità locali, tutti più o meno onestamente. Per tre giorni l'anno sembra che tutti si dimetichino di questo lavoro quotidiano.Purtroppo il rischio che si corre è quello di trasformare l'esperienza della memoria da strumento per la rielaborazione del conflitto, dunque di ricostruzione della convivenza, a strumento di radicalizzazione dello scontro.
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