Stando all’ennesimo progetto architettonico del governo Rama, l’edificio che ospita il Teatro Nazionale rischia la demolizione. Ancora una volta a essere in pericolo sono la storia e la memoria del paese. Un commento
Nato nel 1938 come “circolo italo-albanese”, l’edificio che oggi ospita il Teatro Nazionale fu uno dei primi interventi architettonici degli italiani in Albania. L’obiettivo dei futuri occupatori – l’Italia invase il paese solamente nell’aprile del 1939, dopo diversi anni di penetrazione economica e culturale – era quello di monumentalizzare il centro della capitale, favorendo la propaganda fascista e più in generale i rapporti tra le due nazionalità.
Progettato dell’architetto Giulio Bertè a pochi passi da quella che anche oggi è Piazza Skanderbeg, l’edificio doveva essere un grande centro culturale e sportivo, contenente al suo interno cinema, piscina e vari ambienti di ristoro. È dal 1947 che quella struttura ospita il principale polo teatrale dell’Albania: una sala da 430 posti del Teatro Nazionale e altre più piccole del Teatro Sperimentale Kujtim Spahivogli, di cui l’ultima inaugurata solo lo scorso dicembre. Tutto questo sembra non bastare alle autorità albanesi, che ne hanno annunciato la demolizione.
Demoliamo!
Secondo una ricerca del Politecnico di Bari risalente al 2008, l’edificio in questione venne realizzato con materiale prefabbricato a Milano: un cemento sperimentale impastato con fibre di pioppo e alghe, da inquadrare in un più ampio contesto di esperienze del periodo tra le due guerre. Noto con il nome commerciale “populit”, e ampiamente usato fino agli anni ’70 del secolo scorso, la cui tecnica è finita oggi sotto accusa, lasciando un alone di improvviso pericolo intorno all’edificio.
Per le autorità albanesi, infatti, la costruzione – che purtroppo, negli anni, ha subito interventi di manutenzione parziali e inadeguati – sarebbe divenuta improvvisamente inagibile, mentre i tempi brevi di costruzione e il materiale utilizzato al tempo dimostrerebbero l’inutilità di qualsiasi tentativo di restauro. Se il dibattito imperversava da mesi, il premier socialista Edi Rama è intervenuto solo pochi giorni fa nella mischia, per affermare di avere seguito le polemiche “senza particolare attenzione”, e per decretare che l’edificio “non ha nemmeno gli standard di un teatro comunale” e che la demolizione non è negoziabile. "L’unico rammarico è di aver perso così tanto tempo", ha tagliato corto il primo ministro. Dello stesso avviso anche il sindaco socialista Erion Veliaj, secondo il quale non solo il teatro non ha alcun valore monumentale, ma la sua instabilità metterebbe in pericolo lo staff e gli spettatori. Non pago della benzina gettata sul fuoco, il primo cittadino di Tirana ha aggiunto che la struttura conterrebbe tracce di amianto, e che negli anni questo avrebbe causato gravi problemi di salute agli attori.
Mentre la brandivano come un martello, né il premier né il sindaco hanno voluto ricordare che la ricerca del Politecnico di Bari – peraltro svolta nel contesto di un laboratorio di laurea, uno studio non di carattere tecnico quindi, ma storico-critico – dopo aver analizzato i materiali sottolinea il notevole valore storico-documentario dell’edifico, dovuto alle ricerche sperimentali su questi materiali svolte nel periodo autarchico, ma anche al carattere architettonico e al ruolo urbano di grande interesse: una sorta di “isola”, estraniata dal suo contesto e resistita negli anni Novanta anche alla speculazione edilizia. Insomma, alla luce di queste caratteristiche, quello stesso studio che descrive i materiali incriminati, auspica il recupero di un frammento di memoria storica e la reinterpretazione della sua funzione urbana.
Dopotutto, come già ricordato dallo studioso albanese Romeo Kodra , che un esempio di architettura industriale e di razionalismo italiano del primo Novecento possa essere raso al suolo senza studi specifici, è una semplice assurdità. Alla pari del demolire per la presenza di amianto, invece che bonificare.
Nuovo progetto, vecchie conoscenze, nessuna gara
Inoltre, come spesso accade, la “sicurezza” è il pane gettato al popolo, ma le vere ragioni che rendono così tanto “indispensabile” la demolizione di un oggetto di valore risiedono altrove. Il progetto presentato dal governo albanese per l’intervento sull’intera area del Teatro Nazionale è firmato da Bjarke Ingels Group, studio di architettura d’avanguardia a Tirana già noto per aver vinto nel 2011 una gara per la realizzazione di un grande centro culturale; progetto poi accantonato a causa dell’interruzione dell’amministrazione Rama dopo le amministrative dello stesso anno. Da allora, nel paese “ridisegnato” dal pennarello del premier-artista, sono stati sistematicamente evitati alcuni strumenti di regolarità e trasparenza – certo in Albania spesso e volentieri puramente formali, ma non per questo inesistenti – quali i concorsi e le gare pubbliche, tanto che questa volta l’archistar danese è accorso a Tirana su “chiamata diretta”.
In realtà, della nuova sede del Teatro Nazionale è stato presentato solo qualche accattivante rendering: la maggior parte degli elementi non sono ancora noti al pubblico. Si sa già che il nuovo teatro avrà una sala principale da 620 posti e altre 3 sale più piccole. Da una delle slide appare però chiaro che tre nuovi edifici andranno ad affiancare il nuovo Teatro, affacciandosi su una delle poche vie pedonali della città, già soffocata da imponenti alberghi e centri commerciali. "Naturalmente la società non viene a costruire il teatro per andare in bancarotta", è stato l’unico commento del premier in merito.
Le 3P del governo socialista
Anche per il progetto del Teatro Nazionale il governo albanese ha attivato la formula del Partenariato pubblico-privato, uno strumento che mira a finanziare la realizzazione di grandi opere pubbliche con investimenti privati, cedendo alle società contraenti terreno o altre risorse pubbliche.
Nel mese di marzo, il Fondo Monetario Internazionale ha chiesto al governo albanese di sospendere la realizzazione di opere attraverso una formula il cui quadro istituzionale viene ritenuto troppo improvvisato e frammentario. Secondo l’FMI – che, lo ricordiamo, non è esattamente un covo di artisti con il pallino della memoria storica – "tutte le concessioni, incluse quelle dei grandi progetti approvati di recente, sono il risultato di un processo non propriamente formale" e richiederebbero quindi una più attenta analisi dei costi e dei profitti così come una maggiore attenzione al debito pubblico.
Tale mancanza di trasparenza sui contratti concessionari e l’assenza di una strategia sugli investimenti ha alimentato molte critiche anche all’interno dell’Albania. La sensazione che si ha vivendo a Tirana, è che da quando il governo e l’amministrazione comunale sono entrambe controllate dai socialisti, il cemento è tornato a scorrere, e con una facilità mai vista prima. Secondo i dati dell’Istituto di Statistiche albanese (INSTAT), con il tandem Rama-Veliaj nel solo 2017 sono stati rilasciati a Tirana 231 permessi di costruire, con un incremento del 118% rispetto all’anno precedente: il tutto in barba alle promesse elettorali di moratorie e di “zero nuove costruzioni” del sindaco di Tirana.
La trasformazione della capitale e la capitolazione delle istituzioni
La demolizione del Teatro nazionale non sarebbe il primo intervento che stravolge l’impianto urbanistico della “Tirana italiana”. Nel 2016, sempre per garantire “dignità” e “condizioni migliori di lavoro” – quella volta alla Federazione Calcio e alla nazionale albanese – il governo Rama decise l’abbattimento dello stadio “Qemal Stafa”, parte finale di quello che fu il monumentale “Viale dell’impero”, il boulevard che anche oggi attraversa il centro della città. Demolito nonostante le numerose voci contrarie, al suo posto è in corso di costruzione uno stadio nuovo: ma anche un edificio che conta 24 piani oltre ai 7 di base dello stadio, spazio chiaramente ad uso commerciale della società privata che finanzierà buona parte dei lavori, realizzati sempre all’insegna delle 3P.
È significativo che un governo che da quando è al potere cavalca l’onda della legalità con lo slogan “facciamo lo stato”, imponendo il rispetto delle regole e delle leggi notoriamente evase tanto dai cittadini che dalle istituzioni, sia così disinvolto nella cancellazione di teatri e stadi dalla lista dei monumenti tutelati come beni culturali, evidentemente al solo scopo di spianare la strada alla loro demolizione. Una danza di revoche di tutele e di concessione di permessi edilizi che rivela come leggi e regolamentazioni rispondano innanzitutto ad interessi politici ed economici, e che pone seri dubbi sulla maniera in cui vengono gestiti il patrimonio architettonico e i beni comuni del paese, oggi più che mai alla mercé degli interessi di pochi.
Fare chiarezza
La sovrapposizione di sentimenti ed argomentazioni intorno a un caso particolarmente complesso e sensibile genera inevitabilmente molta confusione. C’è chi chiede spazi dignitosi per il Teatro nazionale e propone azzardati progetti alternativi, chi fa appello di conservare il patrimonio e la memoria del luogo e di fermare la speculazione edilizia, chi protesta contro l’appropriazione degli spazi pubblici del centro storico della capitale. In questo contesto bisognerebbe mettere in discussione gli argomenti presentati per giustificare la demolizione a tutti costi dell’edifico, bisognerebbe mettere in discussione le posizioni aprioristiche favorevoli a qualsiasi conservazione, bisognerebbe discutere la formula attraverso cui si intende finanziare i lavori, e rifiutare l’arbitrarietà con cui il progetto è stato pensato e imposto alla cittadinanza tanto quanto l’emotività legata alla memoria di un luogo che comunque è perduto se non si trasforma.
Occorrerebbe quindi comunicazione e trasparenza o, in altre parole, un dibattito e una classe dirigente responsabile ed europea.
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