Lungo la Neretva sino al famoso ponte di Mostar, immortalato da selfie con cellulari e ipad. La decima puntata di un viaggio in bici da Trieste a Sarajevo, in vista del Centenario dell'inizio della Prima guerra mondiale
Le bici si risvegliano a bordo lago e noi con loro, aiutati dalla portentosa colazione della konoba: palacinke, marmellate fatte in casa, salumi di ogni tipo. Resistiamo alla tentazione di rubare l'“Abbecedario della vita” dallo scaffale della cameretta che il nostro cameriere – tuttofare preadolescente - ci ha ceduto per una notte. Paghiamo il conto intestato ai “biciklisti”, scritto a mano su un'agenda a righe, e saliamo in sella dopo qualche foto ricordo sotto le bandiere.
Le bici sfilano accanto al monastero francescano, con le sue statue di marmo e bronzo. Noi con loro, salutando con la mano gli uomini intenti a issare tendoni e sistemare tavoli per la festa del paese. Un ponticello dalla ringhiera gialla ci porta via da quella che ora è un'isoletta al centro del lago Rama. Una piccola collina, prima che nascesse il bacino artificiale.
Si parte in salita - come quasi tutti i giorni - tra alberi carichi di prugne mature e uomini che preparano riserve di legna. Le donne sono in casa a officiare il rito dell'ajvar, tra pentoloni accesi e sacchi di peperoni rossi e bianchi, che diventeranno deliziosa salsa per l'inverno, ogni famiglia la sua ricetta segreta, bisbigli e consulti tra le vicine di casa senza svelarla mai fino in fondo.
La strada è fresca, spesso ombreggiata, in salita pedaliamo lisci e felici, per le strade di Prozor Andrea accelera per farsi notare dalle ragazze che passeggiano in shorts. Su molti muri i fori di proiettile non ancora coperti dall'intonaco, accanto alla chiesa un murale del volto di Cristo con la corona di spine. Sopra la strada, tesi tra le case, gli striscioni verdi che celebrano il bajram, fine del ramadan. A noi sembra di essere in giro da una vita, ma la festa è appena trascorsa, le bandierine non sono ancora sbiadite.
Continuiamo tra i boschi e le dighe, dietro un cartello stradale qualcuno ha scritto con lo spray “Sinn Fein”, chissà se un indipendentista di Belfast in ferie d'agosto o un simpatizzante locale. A Jablanica un gelato sotto gli ombrelloni di un bar, ma la vera attrazione è il ponte ferroviario sulla Neretva, tre volte distrutto e due risorto dalle sue ceneri.
La prima volta, si narra, furono i partigiani a danneggiarlo, per ingannare i nazisti e guadagnare tempo per la controffensiva. Lo riparano alla svelta ma è di nuovo distrutto, stavolta sul serio, sotto le bombe sganciate dalla Luftwaffe. Ricostruito dopo la guerra, la sua terza e definitiva morte arriva nel 1969, quando il regista di un film che commemora le imprese partigiane decide che va fatto saltare di nuovo, per girare come si deve. È così che rimane oggi, due monconi di piloni di ferro binari e traversine che si tuffano nell'acqua, ripidi come montagne russe.
Lo ammiriamo dal nuovo ponticello che gli sorge accanto, passiamo al lato sinistro del fiume alla ricerca di una stradina senza traffico che per qualche chilometro ci fa evitare la statale. Superiamo i trattori dei boscaioli e un pensionato in calzoni corti, che pedala flemmatico con la stuoia legata perpendicolare sul portapacchi della bicicletta. Un nuovo ponticello ci riporta a destra, a due passi da una trattoria, specialità capretti arrosto.
A far girare lo spiedo alla velocità giusta ci pensa un ingegnoso sistema di mulini ad acqua, e alla nutrita squadra di chef in magliette bianche, avvolti da una coltre di fumo, non resta che spennellare le carni per non lasciarle seccare. Ci saziamo con la vista, riempiamo le borracce e proseguiamo in discesa, la Neretva a sinistra, a destra boschi, pubblicità di ristoranti e i primi cartelli marroni che annunciano il ponte per eccellenza, l'arco di pietre tra una torre rotonda e una quadrata, nel centro della Stari grad di Mostar.
Il penultimo ponte lo annuncia una lapide che ricorda Bogdan Bogdanović, politico, architetto e supponiamo progettista. Il caleidoscopio di verdi della Neretva e dei boschi non basta ad alleviare il dramma del traffico. Camper e camion ci passano accanto a pochi centimetri, e dietro una curva un odore acre annuncia con metri di anticipo il cadavere di un enorme cane nero, denti bianchi e occhi ancora aperti, pelo riccio e pieno di grumi, il muso terrificante da lupo delle fiabe.
I chioschi sul fiume vendono pesce alla griglia, io ardo dal caldo e dalla voglia di un bagno, ma Andrea non sente il richiamo dell'acqua e decidiamo di proseguire, dopo uno spuntino di frutta secca in piedi in uno slargo fetido, di terra battuta e ghiaia. Zivela Titova Jugoslavija, lunga vita alla Jugoslavia di Tito, inneggia una scritta scolpita, assieme a una stella idealmente rossa, sul muro di cemento del terrapieno che costeggia la strada.
Ci accoglie a Mostar un'infilata di murales. Il primo dice “Antifa”, scritto a grandi lettere e sormontato da una stella, rossa per davvero. Il sole filtra tra gli alberi e contraddice in parte il mio ricordo desolato, di una mattina di settembre di quasi dieci anni fa. Sarà il candore bianco e scivoloso del ponte ricostruito e affollato di turisti a smentirlo quasi del tutto, e gli scheletri dei palazzi tra il Bulevard e strada Mostarski Bataljon a restituirne un po' del sapore.
Allora, camminavamo lenti e stupefatti sul ponte provvisorio sorretto dai cavi, ripensando alle parole di Dejan, ambientalista e amante del drum and bass, a quel tempo mio coinquilino a Panćevo, vicino Belgrado. “A Mostar l'esercito serbo non combatteva, stava a guardare le distruzioni prodotte dalla propria artiglieria, quella che era federale, e ora si affittava. Una sera agli uni e una sera agli altri”. Perché lo facevano?, mi era sfuggito ingenuamente. Un'alzata di palla per l'immancabile humor nero. “For money. And for training. And for fun”, aveva risposto Dejan senza scomporsi.
Ora, sulla spalletta di pietra restituita al passeggio, preceduta e seguita da decine di negozi di souvenir e paccottiglia, un ragazzino in costume aspetta di raccogliere abbastanza denaro per concedersi alla folla in un tuffo spettacolare. Qualcosa arriva, ma la maggior parte dei presenti sembrano più presi dai propri selfie con ipad e cellulari. Il ragazzo se ne va deluso. Noi decidiamo di muoverci a cercare una stanza, non prima di avere adempiuto a nostra volta alla liturgia della foto ricordo. La parte più spettacolare dello scatto è quella fuori campo, quando il motociclista veronese al quale abbiamo chiesto di immortalarci non esita a buttarsi schiena a terra sulla pietra candida, per essere certo di inquadrare tutta la torre.
Neven, il nostro affittacamere, ha le braccia piene di tatuaggi, l'andatura polleggiata e i modi gentili da cinquantenne che ne ha viste tante, ma sa ancora godersi la vita. É originario di Sarajevo, e subito associo il suo nome a quello del fixer del fumetto omonimo disegnato da Joe Sacco. Davanti agli occhi ho le grandi tavole disegnate, l'hotel Holiday Inn, Sarajevo assediata, il baraccone della stampa di tutto il mondo. E gli interrogativi del giornalista a fumetti sul dietro le quinte, e su chi sia veramente l'uomo da cui ha scelto di farsi aiutare a raccontare la guerra.
Usciamo per strada al tramonto, dopo un sonno ristoratore, passeggiamo tra le moschee e gli scorci del fiume, tra le spillette souvenir per jugonostalgici e il grande cartello rosso che invita a non dimenticare il 1993, quel 9 novembre in cui il ponte si schiantò nelle acque del fiume, colpito dalle granate. Ragazze con lunghe vesti nere e veli variopinti chiacchierano allegre, dalle vetrine dei fotografi sorridono immagini pacchiane, sposi in camicia a maniche corte accanto a donne meringa, tra nuvole di petali di rosa. Sul muro di un palazzo appena intonacato, qualcuno ha scritto in blu una rivendicazione nazionalistico-televisiva: “Vogliamo un canale in lingua bosniaca”. Sopra la parola canale, una mano successiva ha aggiunto le cinque lettere della parola “porno”.
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