La costituzione della Bosnia Erzegovina non è più complessa di altre, i suoi problemi politici - scrive Jospeph Marko - non risiedono tanto in essa quanto nel suo essere "un sistema politico etnocratico, ostaggio dei partiti etno-nazionali"
Volendo parafrasare uno slogan della campagna elettorale di Bill Clinton, sembra che quasi tutti siano d’accordo con l’affermazione: “È la costituzione, stupido!” che spiegherebbe il motivo per cui la Bosnia Erzegovina, dopo venticinque anni di implementazione dell’Accordo di pace di Dayton, è ancora uno stato disfunzionale dal punto di vista politico. Anche molti giuristi e politici, non solo in Bosnia Erzegovina, vi diranno che l’Accordo di Dayton è un sistema costituzionale “unico” e/o “complesso” e che proprio per questo motivo non può contribuire al bene comune del popolo (al singolare!).
Tuttavia, anche tra gli stati membri dell’Unione europea ci sono alcuni paesi suddivisi al loro interno su base etnica, come ad esempio il Belgio oppure, nel caso dell’Italia, la Regione autonoma Trentino-Alto Adige/Südtirol, le cui istituzioni e i meccanismi, che affondano le loro radici nella costituzione, prevedono alcuni strumenti concepiti in chiave etnica per la rappresentanza e la partecipazione dei gruppi etnici al processo decisionale.
Quindi, il sistema costituzionale di Dayton non è né più straordinario né più complesso di alcune costituzioni di altre società etnicamente divise in Europa e oltre. Qui non si tratta del sistema costituzionale in quanto tale. La Bosnia Erzegovina, nella sua realtà empirica, non deve essere percepita come un sistema politico democratico, bensì come un sistema politico etnocratico, ostaggio dei partiti etno-nazionali. Questi partiti hanno formato un cartello che governa la Bosnia Erzegovina non attraverso un sistema di condivisione del potere basato su un compromesso e una cooperazione interetnica, bensì attraverso un consenso “negativo” tra le élite basato sul motto “dividi e comanda”.
Fiducia, solidarietà, compromesso
Le campagne elettorali, costantemente condotte ai vari livelli territoriali (stato, entità, cantoni, municipalità), hanno permesso ai leader dei partiti monoetnici – che sostengono di rappresentare i popoli costituenti, ossia i bosgnacchi, i croati e i serbi – di mobilitare l’elettorato lungo le linee etniche, presentandosi come fermi difensori dei cosiddetti “interessi nazionali vitali” contro i diktat della cosiddetta comunità internazionale.
Paradossalmente, questi leader politici vengono di continuo “democraticamente” legittimati dai risultati elettorali che però non li obbligano a cercare di raggiungere compromessi politici – l”’essenza” della democrazia – attraverso processi decisionali in ambito legislativo e amministrativo, come dimostra il fatto che nel periodo tra il 1997 e il 2007 il cosiddetto “entitetski veto” [secondo la Costituzione della Bosnia Erzegovina, i due terzi dei delegati, di ciascuna entità, della Camera dei rappresentanti dell’Assemblea parlamentare della BiH hanno il diritto di porre un veto assoluto alle decisioni della Camera] è stato utilizzato circa 400 volte. Tutt’altro. Le istanze etno-nazionaliste e massimaliste vengono continuamente premiate dagli elettori, ma anche dalle istituzioni europee. Lo conferma, ad esempio, il caso della riforma della polizia: nel 2007 una proposta della riforma della polizia fallì, o meglio fu respinta, nonostante la sua approvazione fosse una precondizione necessaria per l’avanzamento della Bosnia Erzegovina verso l’integrazione europea. Eppure [l’anno successivo] fu firmato l’Accordo di stabilizzazione e associazione tra Bosnia Erzegovina e UE.
I partiti etno-nazionali continuano ad approfittare di una struttura istituzionale basata su delimitazioni territoriali concepite in chiave etnica e dell’omogeneizzazione etno-nazionale delle istituzioni statali. Questo atteggiamento va di pari passo con la tendenza dei partiti etno-nazionali a tenere in ostaggio tutte le istituzioni statali per soddisfare interessi privati dei loro accoliti – una tendenza facilitata dall’assenza di uno strumento giuridico efficace di contrasto alla corruzione (anche all’interno della magistratura) – e con le costanti violazioni dei diritti umani che si concretizzano, tra l’altro, attraverso la mancata attuazione di alcune sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, a partire dal famoso caso Sejdić-Finci contro la Bosnia Erzegovina del 2009. Queste tendenze, a cui si aggiungono i media e i sistemi di istruzione pubblica segregati su base etnica (non mi riferisco solo alle cosiddette “due scuole sotto lo stesso tetto”), portano, in ultima analisi, ad un continuo acuirsi della divisione – creata tra il 1992 e il 1995 attraverso l’aggressione militare e le atrocità di massa – della società bosniaco-erzegovese lungo le linee etno-nazionali, in spregio di tutti gli standard europei di tutela dei diritti umani e delle minoranze! Quindi, finché il cartello al potere, basato sul consenso negativo intorno all’obiettivo “dividi e comanda”, sarà in grado di controllare la divisione etnica della società, non avrà alcun incentivo legale e istituzione a dar luogo ad una competizione interetnica, per non parlare della cooperazione.
C’è una via d’uscita da questo dilemma politico-giuridico? Esiste qualche alternativa?
In questi giorni in molti, soprattutto nel mondo anglosassone, hanno proposto semplicemente di sostituire “la costituzione” di Dayton con una costituzione liberale e “civile” – qualunque cosa questo significhi sul versante delle istituzioni e degli strumenti legali – sperando evidentemente che la Bosnia Erzegovina, da un giorno all’altro, possa diventare uno stato, ossia una società politicamente stabile, economicamente prospera e culturalmente coesa.
È senz’altro vero che i meccanismi istituzionali etno-nazionali previsti dall’Annesso IV [dell’Accordo di Dayton] – ossia gli strumenti etnici ed esclusivisti di cui dispongono i popoli costituenti all’interno della Presidenza e della Camera dei popoli, ma anche il potere di veto assoluto sancito dal cosiddetto “entitetski veto” – sono la principale causa del malfunzionamento degli organismi del potere legislativo e di quello esecutivo a livello centrale. Viene però da chiedersi come una costituzione rigorosamente civile e liberale – basata sulla presunta “neutralità” etnica delle istituzioni, sul principio di maggioranza, sulla tutela dei diritti individuali e sulle leggi formali contro la discriminazione – possa contribuire a rafforzare la fiducia (verticale) nelle istituzioni e la solidarietà (orizzontale) all’interno del popolo (al singolare!), intese come presupposti necessari per raggiungere un compromesso democratico e per rilanciare un paese funzionale fondato sullo stato di diritto.
Le vaghe proposte di sistemi di società e di diritto civile e liberale ignorano le lezioni imparate dai paesi come Irlanda del Nord, Belgio e Cipro, per citarne solo alcuni, rimanendo ancorate ad una concezione dicotomica della stessa ideologia nazionalista che identifica il pensiero civile-nazionale e repubblicano con un modello “occidentale, razionale e liberale”, ponendolo in contrapposizione con un modo di governare “orientale, irrazionale e dispotico”, quindi un “buon governo” contro un “malgoverno”. Per di più, se questi modelli costituzionali dovessero essere semplicemente “mescolati” tra loro, si finirebbe per creare un nuovo sistema costituzionale “ibrido” dalle conseguenze imprevedibili, seppur non intenzionali.
Dunque, la Bosnia Erzegovina ha bisogno di una strategia politica e giuridica attentamente elaborata, capace di de-etnicizzare le istituzioni dello stato e la società in modo da ribaltare la percezione secondo cui la riconciliazione attraverso l’integrazione sociale e la condivisone del potere sarebbero due approcci che si escludono a vicenda. Nella motivazione delle quattro sentenze parziali emesse nel 2000 nel caso U-5/98, la Corte costituzionale della Bosnia Erzegovina aveva chiaramente ribadito, fornendo dati statistici al riguardo, che la divisione etnica della società e l’omogeneizzazione etno-nazionale delle istituzioni delle due entità non sono fatti socio-politici prestabiliti, bensì conseguenza della pulizia etnica e del genocidio, concludendo quindi che la delimitazione territoriale e le quote etniche nelle istituzioni non devono essere usate come una scusa per l’assimilazione o per la segregazione istituzionale, ancor meno per una divisione territoriale basata su pretese secessioniste. Inoltre, la Corte costituzionale ha sancito un attento equilibrio tra tutela dei diritti individuali di tutti i cittadini – a prescindere dalla loro appartenenza ad una determinata categoria giuridica, orientamento sessuale, appartenenza etnica, lingua, religione, appartenenza ad una minoranza nazionale, etc. – e tutela dei diritti di gruppo, compresi i diritti da riconoscere a certi gruppi, quindi non si parla solo dei diritti dei popoli costituenti, ma anche dei diritti delle diciassette minoranze nazionali legalmente riconosciute che oggi sono completamente marginalizzate in Bosnia Erzegovina!
Con le sentenze emesse nel caso U-5/98 del 2000 furono definiti non solo alcuni specifici principi e norme costituzionali finalizzati a regolare i rapporti tra popoli costituenti, minoranze nazionali e cittadini, ma anche lo status giuridico delle tre lingue ufficiali, la disciplina del diritto di proprietà, nonché le regole per la creazione di un mercato interno della Bosnia Erzegovina in linea con quelle del mercato interno dell’UE.
Nel caso U-4/05 lo statuto della città di Sarajevo fu dichiarato incostituzionale perché, a differenza di quanto previsto per i bosgnacchi e i croati, non aveva garantito ai serbi la rappresentanza minima nel consiglio comunale. Poi nel caso U-8/04 la Corte costituzionale ritenne incostituzionale l’invocazione dell’interesse nazionale vitale da parte dei rappresentanti croati contro un proposta di legge quadro sull’istruzione universitaria, affermando che il perseguimento di interessi nazionali vitali non deve portare all’esclusione linguistica e che tutte e tre le lingue ufficiali devono essere utilizzate come lingue di insegnamento nelle università. Un simile caso, U-5/06, ha riguardato la legge sulla radiotelevisione pubblica della Bosnia Erzegovina.
Tuttavia, una strategia giuridico-costituzionale come quella applicata dalla Corte costituzionale della Bosnia Erzegovina nei casi di cui sopra deve essere accompagnata da sforzi concreti per raggiungere una riconciliazione basata su un programma di disgregazione dell’intero sistema scolastico e dei media.
Tenendo conto della riluttanza del cartello di partiti etno-nazionali al potere ad appoggiare un simile programma di pluralizzazione delle istituzioni monoetniche, viene da chiedersi come sia possibile giungere dal punto A (l’attuale status quo dettato dalla leadership al potere) al punto B (una democrazia funzionale, liberale e consociativa fondata sullo stato di diritto)?
Un dibattito pubblico e inclusivo
Ovviamente, ci sono molti contributi scientifici nell’ambito del diritto costituzionale comparato e della sociologia della gestione dei conflitti etnici da cui trarre ispirazione per sviluppare una strategia politica come quella sopra accennata. Tuttavia, tale strategia non può essere elaborata a porte chiuse. Serve un ampio dibattito pubblico e inclusivo sulla necessità di una riforma politica e costituzionale, così da mettere i partiti etno-nazionali sotto pressione da tutte le parti:
• dal basso – le iniziative della società civile, comprese varie forme di protesta pacifica;
• di lato – attraverso le azioni di quei partiti di orientamento multiculturale e civico che mirano a superare la rigida divisione etno-nazionale della società; chiedendo di istituire una commissione per la Costituzione in seno e/o al di fuori del parlamento che includa i rappresentanti di tutti i gruppi sociali. In questo senso, la Convenzione costituzionale della Repubblica di Irlanda, svoltasi tra il 2012 e il 2014, potrebbe fungere da modello. Contava cento membri: un presidente, 29 membri del parlamento, 4 membri dei partiti politici dell’Irlanda del Nord e 66 cittadini irlandesi scelti a caso.
• infine, dall’alto – L’Unione europea deve comprendere, e far comprendere alle élite politiche bosniache, che non può più accondiscendere al volere dei leader dei partiti etno-nazionali (come ha fatto durante l’iter della riforma della polizia nel 2007, durante i negoziati su una riforma costituzionale tenutisi a Butmir nel 2009, e in tante altre occasioni) e che l’approccio “procediamo come al solito” nelle relazioni con i paesi candidati all’adesione, imperniato sullo slogan “prendi o lascia”, diventato ormai un punto fermo del processo di allargamento ad Est, non funziona con i cosiddetti rimasugli dei Balcani occidentali. Per raggiungere un progresso sostanziale nel processo di integrazione europea è necessario elaborare un approccio regionale integrato, mettendo in chiaro che l’UE non è una nuova vecchia Jugoslavia che stabilisce identità, regole e politiche, con un governo centralizzato guidato dall’alto da un “cartello del potere”, come sempre è accaduto e accade tuttora nei sistemi monopartitici. La promessa di una prospettiva europea [per la Bosnia Erzegovina] deve rendere tangibile e credibile l’idea che tutti i cittadini, le società e gli stati membri dell’Unione europea possono effettivamente partecipare a tutti i processi decisionali, formali e informali, avviati nell’UE sulla basi del principio di uguaglianza tra tutti gli individui e gruppi sociali, quindi rispettando, proteggendo e favorendo la diversità culturale.
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Joseph Marko è professore emerito di diritto pubblico e scienze politiche presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Graz (Austria). Dal 1997 al 2002 è stato uno dei tre giudici internazionali della Corte costituzionale della Bosnia Erzegovina, nominato dal presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo. Nel periodo tra il 1998 e il 2002 e poi di nuovo tra il 2006 e il 2007 è stato membro del Comitato consultivo del Consiglio d’Europa sulla Convenzione quadro per la protezione delle minoranze nazionali. Nel 2007-2008, su proposta del governo austriaco, è stato consulente politico-legale per la riforma costituzionale dell’allora Alto rappresentante per la Bosnia Erzegovina Christian Schwarz-Schilling. Dal 1998 al 2020 è stato direttore scientifico dell’Istituto sui diritti delle minoranze presso l’Accademia europea (EURAC) di Bolzano. Tra il 2011 e il 2016 ha ricoperto l’incarico di preside della Facoltà di Giurisprudenza di Graz. Da luglio 2016 a gennaio 2018 ha lavorato come consulente legale del rappresentante speciale dell’Onu Espen Eide per i negoziati sulla riunificazione di Cipro. La sua attività di ricerca è focalizzata sul diritto costituzionale comparato e sulla politica, in particolare sulla condivisione del potere nelle società etnicamente divise e sul ruolo delle corti costituzionali, nonché sul nazionalismo, la tutela delle minoranze e i conflitti etnici. Ha pubblicato una quindicina di libri e oltre cento articoli scientifici in tedesco e in inglese. Il suo ultimo libro “Human and Minority Rights Protection by Multiple Diversity Governance. History, Law, Ideology and Politics in European Perspective” (Routledge 2019) gli è valso il Premio di ricerca della provincia di Stiria 2020.
Questo materiale è pubblicato nel contesto del progetto "Bosnia Erzegovina, la costituzione e l'integrazione europea. Una piattaforma accademica per discutere le opzioni” sostenuto dalla Central European Initiative (CEI). La CEI non è in alcun modo responsabile delle informazioni o dei punti di vista espressi nel quadro del progetto. La responsabilità sui contenuti è unicamente di OBC Transeuropa. Vai alla pagina dedicata al progetto
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