I camminatori di Repubblica Nomade sono partiti da Trieste il 5 giugno alla volta di Sarajevo: 800 km in un mese, per portare messaggi di pace. Un resconto
Fonte: Associazione Repubblica Nomade
Abbiamo appena portato a termine il nostro nuovo cammino da Trieste a Sarajevo, di quasi 800 chilometri, della durata di un mese. Un cammino folto, con tappe da trenta fino a cinquanta camminatori, che ha comportato uno sforzo organizzativo e logistico eccezionale e a prima vista impossibile e insuperabile, capacità di adattamento in condizioni talvolta estreme, coraggio, pazienza e una grande, silenziosa potenza. E’, credo, il più grande e trascendente cammino mai realizzato su questa rotta.
Riporto qui alcuni pensieri che mi ero annotato su un quadernetto durante la sosta a Sarajevo, quando, finito lo sforzo fisico, emozione e stanchezza ti piombano improvvisamente addosso.
Siamo da poco entrati in questa città martirizzata più di vent’anni fa, di cui avevamo visto le immagini televisive dentro le nostre case durante il lungo e feroce assedio cui è stata sottoposta e che ci avevano sconvolto e commosso. Abbiamo camminato ammutoliti, per chilometri e chilometri, nelle vie dei cecchini, tra ali di palazzi e condomini ancora crivellati dai fori di mitragliatrici e cannoni, vicino ai quali sorgono adesso nuovi e orgogliosi grattacieli.
Ora diversi di noi, in un abbraccio finale, cammineranno ancora per alcuni giorni con migliaia di altre persone, fino a Srebrenica, dove verrà commemorata la strage avvenuta in quella città durante la guerra degli anni Novanta.
Difficile riassumere in breve le emozioni profonde suscitate da questo cammino. Quando ci si sposta così, a piedi, dentro una simile ferita ancora non rimarginata, si è come intontiti per l’enormità di quanto ci circonda e per la commozione.
Abbiamo camminato attraverso Slovenia, Croazia, Bosnia Erzegovina e Serbia. Abbiamo camminato tra colline disabitate ricoperte di boschi, condomini ancora crivellati e fatiscenti, con davanti cataste di legna per il riscaldamento.
Abbiamo costeggiato continuamente piccoli cimiteri islamici, ortodossi e cattolici disseminati su tutto il territorio, vicino alle case e nei prati, a perdita d’occhio. Abbiamo visto foibe dove sono state gettate centinaia di persone vive e legate, su cui sono poi state scagliate delle bombe a mano e che sono morte ammassate e smembrate attraverso chissà quali inimmaginabili agonie, e poi i piccoli cimiteri dove è stato ricomposto ciò che è rimasto dei loro corpi.
Abbiamo ascoltato racconti terribili, di famiglie con un unico superstite in fuga per mesi attraverso i boschi, di scuole sconvolte dalla pulizia etnica, dove insegnanti e studenti hanno catturato e ucciso altri insegnati e studenti con cui fino a poco prima condividevano gli stessi banchi e le stesse cattedre.
Abbiamo ascoltato dalla viva voce di uno dei sopravvissuti la rivelazione che il principale responsabile di uno dei tanti orrori vive ora tranquillamente nella casa di fronte alla sua. Cosa successa in molti paesi e città e convivenza muta e atroce diffusa in questi territori.
Abbiamo visto i segni della dura povertà in paesaggi meravigliosi e incontaminati, tra grandi boschi costeggiati da cartelli che segnalano la presenza della gran quantità di mine ancora presenti e non ancora rimosse e disinnescate.
Abbiamo incontrato continue manifestazioni di solidarietà da parte degli abitanti delle zone attraversate, che ci hanno offerto acqua, pane, rakija, formaggio fatto da loro stessi e lamponi, staccandoli dai filari delle coltivazioni, una delle principali risorse dei territori che abbiamo attraversato, i cui coltivatori stanno ora lottando contro i prezzi capestro che si vorrebbero imporre.
Siamo stati ospitati quasi sempre gratuitamente in scuole e palestre, dove abbiamo disteso i nostri sacchi a pelo e dormito sui pavimenti. Ed è capitato spesso che, nonostante la povertà delle zone attraversate, ci siano state offerte altrettanto gratuitamente cene e colazioni da parte dei nostri ospiti.
Impossibile nominare tutte le persone che hanno reso possibile questo forte e impressionante cammino, le cui motivazioni sono state espresse nel breve documento che abbiamo pubblicato prima del suo inizio, che abbiamo letto e distribuito in diverse traduzioni nelle lingue locali durante il nostro passaggio e che riporto anche qui.
Quello che è avvenuto è una specie di miracolo, reso possibile dalle persone che, al nostro interno, con generosità, abnegazione, capacità organizzative fuori dal comune e talento, hanno contribuito a mettere al mondo questa salutare follia. Ma anche da tutte le persone delle nazioni attraversate che ci hanno aiutato a contattare le figure motivate e giuste.
Abbiamo toccato con mano lo spopolamento dei territori, da dove molti se ne sono andati per trovare lavoro nel resto dell’Europa, ma anche il coraggio di quelli che sono rimasti o che sono tornati per dare una nuova chance ai propri Paesi, in campo professionale, sociale, artistico, sempre in bilico tra il dovere di ricordare e testimoniare quanto è successo e quello di dimenticare per poter ripartire.
Abbiamo camminato in zone desolate, tra moschee sfavillanti costruite con fondi di Arabia Saudita e Turchia, chiese ortodosse dalle cupole dorate e chiese cattoliche costruite sulle colline, circondate da bandiere e stendardi, in un’ansia identitaria continuamente esibita. Abbiamo sentito il canto dei muezzin scaturire dagli altoparlanti posti sulle sommità dei minareti, e visto di sera e di notte il passaggio di fiumi di persone, di ragazze e di donne di abbagliante bellezza, con i vestiti ricamati lunghi fino ai piedi e grandi e sapienti veli di vari colori, e di altre ragazze dai capelli raccolti all’indietro, portamento eretto e abiti succinti, che si incrociavano silenziosamente nelle vie durante gli ultimi giorni del ramadan.
“Fino a quando riuscirà a non spezzarsi ancora una volta questa crosta sottile che tiene insieme tutte queste diversità, che può sempre lacerarsi all’improvviso per ragioni interne e per cinici calcoli esterni?” mi veniva da pensare camminando attraverso questo fiume di vite e di corpi “Ora che nell’Europa si stanno formando nuove crepe inquietanti e che il nostro continente, preda dei suoi egoismi, inimicizie e paure, fomentati ad arte da apprendisti stregoni di ogni genere e tipo, si sta mettendo su un piano inclinato e ha ripreso a partorire i suoi fantasmi e i suoi demoni. Mentre solo smazzando le carte, solo attraverso un’invenzione politica e una nuova e spiazzante visione, solo attraverso una prefigurazione e una trascendenza più grandi, continentali e sperimentali, tutta questa compressione si potrebbe disincagliare e dinamizzare.”
Ci siamo incontrati con associazioni e gruppi che ci hanno raccontato quanto è successo in questo punto cruciale dell’Europa e che hanno trasformato questo cammino in un cammino anche di conoscenza. Perché il vero cuore dell’Europa non è nelle sue grandi capitali economiche e finanziarie, nelle grandi metropoli dove hanno sede i suoi parlamenti asserviti, le sue holding, le sue borse piene di uomini forsennati e in preda a questo planetario suicidio di specie o nelle modernissime e arcaiche cerchie deliranti e fanatizzate annidate nelle sue pieghe e che stanno giocando all’Apocalisse, ma là dove ci sono le sue più profonde ferite e dove può esserci passaggio.
Ci sono state chieste dichiarazioni e interviste da diversi mezzi di comunicazione e dalle televisioni, da Al Jazzera alla Cnn.
La nostra piccola repubblica nomade si trova sempre in una fase costituente. La nostra stessa natura è costituente, noi siamo sempre in bilico, siamo sempre sul punto di inciampare e cadere. Per questo riusciamo a spostarci sempre in avanti, sbilanciati e inventati, sempre in bilico tra la più dura e cruda realtà e il sogno. Per questo riusciamo a compiere, in forme di radicale volontariato, cose così esagerate e che a prima vista sembrerebbero impossibili e inconcepibili. Perché è proprio dell’impossibile che c’è bisogno oggi, perché abbiamo visto dove ci ha portato il possibile, quello che ci viene detto essere il solo possibile.
Io non so dove andremo. Perché ci sembra ogni volta di essere arrivati al culmine e invece poi riculminiamo e inventiamo ancora.
Ecco, così bisognerebbe vivere, in ogni campo: stare nell’impossibile e renderlo possibile, sfondare lo specchio, essere a nostra volta ferita, creare contaminazione, contagio, arrivare da un’altra parte e parlare un altro linguaggio, rompere le gabbie dove siamo imprigionati e dove è imprigionato il mondo, il linguaggio e la struttura concettuale del mondo, vedere quello che abbiamo sotto gli occhi come non lo abbiamo mai visto, abbassarci, sporcarci, per innalzarci e pulirci, non avere paura dell’invenzione, della poesia, della trasfigurazione e del sogno.
Viviamo in tempi torbidi, in una follia identitaria e di specie e, contemporaneamente, in uno spossessamento economico che paiono arrivati al capolinea, viviamo nel più pericoloso periodo dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, non sappiamo cosa potrà succedere non dico tra molti anni ma di qui a pochi anni. Il minimo che possiamo fare è il massimo che si possa fare ed è ancora più in là di ciò che è possibile e impossibile fare.
Grazie a tutte le persone meravigliose che hanno creduto in noi e che ci hanno aiutato, in questa parte del mondo così vicina eppure così ignorata e lontana. Grazie a tutte le camminatrici e i camminatori che hanno reso possibile questa piccola grande impresa e arrivederci per nuovi cammini continentali.
*Antonio Moresco, Associazione Repubblica Nomade
Per ulteriori informazioni:
Associazione Repubblica Nomade
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