Questa volta le violenze della polizia croata nei confronti dei migranti sono ben documentate e inequivocabili, tanto che la stessa polizia è costretta ad ammetterne la veridicità. Il ministro dell'Interno fa però spallucce e non si sente responsabile. L'UE si dice preoccupata ma fa ben poco e rischia di essere complice
Nel 1951, quando il diritto d’asilo è stato messo nero su bianco nella Convenzione di Ginevra, la Seconda guerra mondiale era finita da pochi anni. In ogni angolo del pianeta il dramma di decine di milioni di morti, di città rase al suolo e di persone che avevano dovuto ricominciare da zero in un luogo a loro sconosciuto faceva parte della quotidianità. All’orrore dell’Olocausto e delle persecuzioni si rispondeva allora istituendo un sistema di diritti universalmente riconosciuti, che si sperava avrebbero impedito (o perlomeno limitato) il ripetersi di un’ecatombe come quella appena conclusa.
Tra le altre cose, gli stati si impegnavano a rispettare lo status di “rifugiato”, ovvero a proteggere chi fosse in fuga dal proprio paese perché perseguitato per questioni di razza, religione o ancora per le proprie opinioni politiche. Quel sistema, nato dalle ceneri della Seconda guerra mondiale, e di cui l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) è forse l’istituzione più importante, non ha impedito i tanti conflitti che sono scoppiati negli ultimi decenni, ma ha garantito a milioni di persone l’accesso ad un luogo sicuro dove ricominciare a vivere dopo aver lasciato alle spalle guerra ed oppressione.
Il diritto d’asilo muore ai confini della Croazia
Può sembrare un prologo che parte da molto lontano ma è necessario per capire la gravità di quello che è successo in Croazia la settimana scorsa. A 70 anni di distanza dalla Convenzione di Ginevra, uno stato membro dell’Unione europea ha ammesso che i suoi poliziotti hanno picchiato ed espulso delle persone che erano entrate sul territorio nazionale, negando loro il Diritto d’Asilo. “Si tratta di tre poliziotti membri delle forze di intervento”, ha dichiarato venerdì il capo della polizia Nikola Milina, dopo che il consorzio investigativo Lighthouse Reports aveva pubblicato un video in cui si vedono tre uomini armati colpire con dei manganelli un gruppo di migranti.
Per la prima volta, dopo cinque anni di accuse di pushbacks (respingimenti illegali) e di violenze ai confini esterni, Zagabria ammette la sua responsabilità in quelle azioni. Si tratta di un fatto senza precedenti, ma che non significa un cambio nella linea politica. Nel filmato pubblicato da Lighthouse Reports, gli uomini armati – benché coperti da un passamontagna e con delle uniformi prive di elementi distintivi – portano l’equipaggiamento tipico degli agenti croati, con tanto di manganello e pistola d’ordinanza. Impossibile insomma sostenere che si trattasse di persone estranee al corpo di polizia.
Stando alle dichiarazioni di Milina, tuttavia, i tre agenti in questione hanno agito “durante il loro orario di lavoro ma in modo autonomo”. In altri termini, si tratterebbe di un caso isolato e non di poliziotti che agivano rispondendo a degli ordini. Una versione che solleva molti dubbi: come avrebbero fatto gli agenti ad assentarsi dal proprio turno senza farsi notare per andare al confine a picchiare i migranti? E perché togliersi le uniformi? Per le organizzazioni non governative che si occupano di migrazioni e per gli stessi autori del reportage, la polizia mente. “Non abbiamo filmato tre mele marce – ha commentato Lighthouse Reports su Twitter – La violenza al confine croato-bosniaco è sistematica”.
Cinque anni di violenze
La storia recente delle migrazioni nell'Europa sud-orientale è in effetti costellata da episodi di violenza. E da quando la “rotta dei Balcani” è stata chiusa nel 2016, un numero incalcolabile di attacchi e respingimenti illegali è stato registrato alle frontiere meridionali della Croazia. Non c’è ONG o istituzione che negli ultimi cinque anni non sia intervenuta su questo tema. OBCT ha riepilogato i principali episodi in questo articolo, che racconta il crescendo di violenza negli anni. Si passa dalla morte di Madina Hussiny nel 2017, una bambina di sei anni investita da un treno mentre tornava con la sua famiglia in Serbia dopo essere stata respinta dalla polizia croata, fino ai casi di tortura denunciati da Amnesty International nel 2020.
Ma non è tutto. Dal 2018, la Ombudswoman croata lamenta di non avere più accesso ai video registrati dai poliziotti ogni qualvolta i loro interventi coinvolgono i migranti. Ad ogni richiesta di accedere ai materiali video, l'Ombudswoman si sente dire che i filmati in questione sono stati cancellati per errore o inavvertitamente non registrati. Nel 2019 c’è stato poi il caso della lettera anonima mandata da alcuni poliziotti proprio alla difenditrice dei diritti, in cui questi ultimi chiedevano protezione contro degli ordini contrari alla legge: quando si tratta di organizzare dei pushbacks – dicevano gli agenti - viene chiesto di comunicare solo su via Whatsapp e Viber, di spegnere il GPS e di non fare rapporto.
La Commissione europea “preoccupata” o complice?
Denunce, rapporti e inchieste non hanno finora prodotto alcuna conseguenza politica in Croazia o a Bruxelles. Anche davanti al video di Lighthouse Reports, il ministro dell’Interno Davor Božinović ha assicurato che non darà le dimissioni perché non vede come lo si possa giudicare “personalmente responsabile” di quello che è stato ripreso dai giornalisti. La Commissaria europea agli Affari Interni Ylva Johansson ha parlato di immagini “scioccanti” e ha chiesto a Zagabria un’inchiesta, dicendosi “molto preoccupata”. Ma un anno fa, dopo la pubblicazione di un rapporto del Danish Refugee Council sulle violenze al confine croato-bosniaco, Johansson aveva usato praticamente le stesse parole , assicurando che avrebbe preso “molto sul serio” le accuse dell’ONG. Ma non è successo nulla.
Secondo il Centro per gli studi sulla pace (CMS) di Zagabria, che negli anni ha presentato tre denunce contro la polizia, “la Repubblica di Croazia, con il sostegno dell'Unione Europea, che finanzia queste pratiche illegali, ha deciso di voltare le spalle alle persone che cercano sicurezza e di esporle a più violenza". La Commissione europea, più che preoccupata, sarebbe insomma complice di Zagabria. Il CMS se la prende in particolare con il budget da 6,8 milioni di euro assegnato nel 2018 alla Croazia per l'ispezione delle sue frontiere, all’interno del quale era previsto anche un importo più piccolo (300mila euro) per la creazione di un meccanismo di controllo indipendente sul lavoro della polizia di frontiera.
“Ironicamente, è stato il ministero degli Interni a decidere come si sarebbe svolto il controllo e chi lo avrebbe attuato”, continua il Centro studi per la pace in un recente comunicato. Ogni ispezione alla frontiera bosniaco-croata deve essere annunciata in anticipo e finora non è stata registrata nessuna violazione della legge. Un risultato che soddisfa l'esecutivo di Andrej Plenković, che spera di portare la Croazia nell'area Schengen entro la fine del prossimo anno, ma che rappresenta una pietra tombale su un percorso iniziato 70 anni fa per garantire protezione a chi scappa da guerre e persecuzioni. Ai confini della Croazia e dunque dell’Unione europea, lo stato di diritto è sospeso e per Zagabria e Bruxelles va bene così.
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