Addette alle pulizie, badanti, baby sitter: 9 su 10 sono donne e sfruttate. L'europarlamentare Konstantina Kuneva, in passato vittima di gravi violenze per il suo impegno da attivista, si batte ora per i diritti delle lavoratrici europee
Konstantina Kuneva, 52 anni, europarlamentare eletta nel partito greco Syriza, ha vissuto sulla propria pelle la condizione di migrante sfruttata, malmenata per avere lottato per i diritti suoi e delle sue compagne di schiavitù in una ditta di pulizie a cui lo stato ellenico subappaltava l’igiene delle stazioni della metropolitana Kifissià-Pireo, la più antica di Atene.
E quando diciamo sulla propria pelle lo intendiamo in senso letterale: il 23 dicembre 2008 un gruppo di sconosciuti l'ha aspettata sotto casa, nel sobborgo popolare di Petralona, e le ha gettato vetriolo sul viso e sulle spalle, costringendola persino a ingoiare dell'acido, per tapparle la bocca per sempre. Un’esecuzione in piena regola, per la donna che era diventata il vessillo dell’”Unione Panattica del personale di pulizia e domestico” (PECOP). Troppo pericolosa per le lobby che ad Atene come altrove sfruttano il lavoro nero di chi non ha nessun diritto.
Konstantina, arrivata nel 2001 in Grecia dalla Bulgaria con una laurea in storia buttata presto alle ortiche per impugnare scopa e mastello, però ce l’ha fatta. Devono essere state le preghiere del figlio con cui era approdata ad Atene quando lui aveva solo quattro anni con uno scompenso cardiaco, o quelle della madre ultrasessantenne, pure lei migrante. Oggi la signora Kuneva scruta il mondo dai seggi dell’Europarlamento con l’unico occhio verde mare che le è rimasto, il corpo e il viso pieno di cicatrici solo in parte guarite dopo anni passati a subire interventi chirurgici prima in Grecia poi in Francia, grazie a una colletta lanciata da un appello pubblicato via internet sul quotidiano Libération.
E appena ha potuto farlo, ha realizzato il giuramento fatto dopo quella terribile vigilia di Natale del 2008, lottare in ogni modo per i diritti delle addette ai lavori più umili: pulizie delle case e degli uffici, badanti, baby sitter tutto fare. Nell'aprile 2016 ha presentato infatti, come relatrice della Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere dell’Europarlamento, un duro rapporto sulla condizione delle “Collaboratrici domestiche e prestatrici di opere di cura nell’Ue”. Presentando possibili soluzioni per aiutarle: perché solo nell’Unione Europea due milioni e mezzo di persone lavorano in questo settore, di cui 9 su 10 donne e in buona parte migranti. Spesso pagate in nero, perché pochi stati riconoscono loro per legge contratti regolari monitorati dai dovuti controlli. E chi non “esiste” non è tutelato: spesso queste donne hanno incidenti sul lavoro, turni di notte che non risultano in nessuna busta paga, o addirittura sono molestate e ricattate, con minacce di ritorsione sulle loro famiglie se non sottostanno ad abusi sessuali. Eppure a loro, noi europei, affidiamo quello che abbiamo di più prezioso: i nostri vecchi e i nostri bambini.
Le soluzioni proposte da Konstantina, tutte mirate a fare emergere questo lavoro e conferirgli dignità e riconoscimento giuridico e sociale nei paesi Ue, sono state adottate dal Parlamento europeo il 28 aprile 2016 ma devono essere ancora approvate dalla Commissione europea, che poi potrà inviare raccomandazioni o direttive vincolanti ai singoli stati. Ma in attesa di regole, abbiamo posto alcune domande a Konstantina.
Dove vivono meglio - o dove vivono peggio - queste donne nel Vecchio Continente?
Sicuramente un paese modello, da questo punto di vista, è la Francia, dove se una famiglia assume una “nounou”, una baby sitter a tempo pieno o parziale, può avere una detrazione dalle tasse. Questo è un buon modo per fare emergere il lavoro nero. Non solo: significa fare accedere alle cure sanitarie, all’istruzione migliaia di “ex schiave”. Ma per arrivare a questo ci sono voluti 15-20 anni di educazione civica e psicologica ai francesi, perché capissero che la lotta allo sfruttamento conviene a tutti.
Dove queste lavoratrici vivono peggio? In tutti gli altri paesi Ue, dove non ci sono regole di questo tipo. Germania, Spagna e Italia comprese, nonostante abbiano fatto qualche tentativo in tal senso. L’Italia, ad esempio, finora è stata l’unico paese che ha mostrato interesse verso la nostra relazione sulle “Collaboratrici domestiche e prestatrici di opere di cura nell’Ue” dell’Europarlamento (è avvenuto durante il dibattito politico su come sostituire o cambiare i voucher per il lavoro occasionale ndr).
A proposito di Italia, pochi giorni fa il quotidiano inglese The Guardian ha pubblicato un’inchiesta sullo sfruttamento nei campi siciliani, precisamente nelle serre della provincia di Ragusa, di migliaia di lavoratrici stagionali rumene, non solo pagate in nero ma obbligate ad avere rapporti sessuali con i datori di lavoro sotto minaccia di essere licenziate. La “riduzione in schiavitù” riguarda quindi donne migranti anche in altri settori, oltre a quello di cura, per non parlare della tratta delle donne arrivate in Italia con la promessa di un posto da colf e poi buttate sul marciapiede da lobby criminali.
Questo è, se possibile, ancora più inquietante perché la Romania fa parte dell’Ue dal 2007, quindi queste donne sono cittadine europee a tutti gli effetti. Del resto anche quando sono stata aggredita io in Grecia, nel 2008, la Bulgaria era già membro Ue da un anno… L’unica ancora di salvezza, per ora, per queste migranti è riunirsi in un sindacato, o contattare quelli già esistenti sul posto. Certo, io l’ho fatto e ne ho pagato il prezzo. Ma ora il sindacato dove ho lottato in Grecia non solo esiste ancora, ma nonostante la crisi moltissime mie ex colleghe hanno ottenuto un regolare contratto!
Signora Kuneva, in Grecia il governo Tsipras, che l’ha fatta eleggere a Bruxelles, è in seria difficoltà: i sondaggi dicono che se si votasse oggi ad Atene il centro-destra di Nuova democrazia avrebbe un distacco vittorioso di circa il 15% sul centrosinistra di Syriza. Se non fosse più eletta parlamentare, quali sono i suoi progetti? Lei è nata e cresciuta in Bulgaria, poi è emigrata in Grecia, si è curata per anni in Francia, dove suo figlio sta finendo la scuola superiore. Dove vorrebbe “tornare”?
Probabilmente in Grecia. Anche mio figlio, che pure l’anno prossimo andrà a frequentare l’università in Inghilterra, dove è stato accettato in una facoltà di Biotecnologia: il suo sogno è aiutare chi, come me, ha perso l’uso di una parte del corpo, contribuendo a creare nuove protesi e apparecchi all’avanguardia. Ma di una cosa sono sicura: dovunque andrò, continuerò il mio lavoro per una società inclusiva e basata sulla solidarietà, per un’Europa dove non si parli solo di economia e finanza, ma di diritti umani. E i Balcani sono la regione dove c’è più bisogno di lottare.
Questa pubblicazione/traduzione è stata prodotta nell'ambito del progetto Il parlamento dei diritti, cofinanziato dall'Unione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea.
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