Attacchi, sarcasmo e velate minacce durante apparizioni in tv e sui social media. Catapultato al centro di una campagna denigratoria da parte del presidente serbo Vučić e dei suoi collaboratori, il professor Florian Bieber racconta cosa questo ci dice sui circoli oggi al potere a Belgrado
(Originariamente pubblicato da Balkan Insight , il 22 ottobre 2020)
“Barone Bieberhausen”. “Un dinosauro, relitto di un’era passata”. “Frutto candito”. Sono solo alcuni dei termini spiritosi che il Presidente della Serbia, Aleksander Vučić, ha usato per descrivermi in conferenze stampa, tweets e apparizioni televisive nell’ultimo anno. Alcuni tra i meno piacevoli comprendono “odiatore della Serbia in servizio attivo”, “spezia velenosa”, “propagandista” e “professore di odio e propaganda”.
Tutto è cominciato in televisione, quando Vučić ha usato le sue abituali apparizioni nei talk show per attaccarmi, spesso tra la sorpresa degli intervistatori. Ha affermato di “stimarmi”, ma si è detto tormentato dal mio “dogmatismo ideologico di sinistra” mentre sfidava la conduttrice a dirgli chi io fossi - “niente e nessuno”, ovviamente.
Da quel momento, anche il dirigente del suo partito, Marko Djurić ha preso parte a questa campagna, iniziando a criticarmi quotidianamente.
La causa? Le mie critiche sulla gestione da parte del governo serbo della crisi sanitaria e le elezioni parlamentari avvenute a giugno nonostante il boicottaggio delle opposizioni e a seguito di un irresponsabile allentamento delle restrizioni legate alla pandemia per dare agli elettori un illusorio senso di normalità.
Nel corso delle settimane seguenti, il trentasettenne Djurić, allora a capo dell’Ufficio del governo serbo per il Kosovo, vicepresidente del Partito Progressista Serbo (SNS) nonché futuro ambasciatore di Serbia negli Stati Uniti, ha speso la maggior parte del proprio tempo su Twitter a condividere mie interviste e commenti con le sole finalità di attaccarle, criticarle e rigettarle.
Tutto ciò prosegue ormai da più di tre mesi, facendo trasparire l’impressione che gestire l’ufficio del governo per il Kosovo conceda molto tempo libero per inveire contro un accademico a Graz.
La campagna ha spesso preso una piega comica, come ad esempio quando Djurić ha tradito la propria ignoranza in materia di letteratura russa condividendo la copertina de “L’idiota” di Fyodor Dostoevsky per suggerire che io fossi, per l’appunto, un idiota. “L’idiota” del classico di Dostoevsky era però, ovviamente, ben lontano dall’essere lo sciocco che il termine sembra implicare, e rappresentava piuttosto un personaggio di estrema intelligenza, empatia e coscienza.
Essere chiamato Barone Bieberhausen, in riferimento all’immaginario gentiluomo tedesco Barone di Munchhausen è stato particolarmente divertente. Ma quando, durante l’estate, Djurić ha suggerito che io fossi dichiarato “persona non grata” nei Balcani, ha varcato la sottile linea tra una battuta di cattivo gusto e una sinistra minaccia.
Al di là del divertimento, comunque, i nomignoli e le accuse hanno rivelato molto sul partito attualmente al governo della Serbia.
Finti fans su Twitter
In primo luogo, ci ha permesso di intravedere l’illusoria immagine di supporto che il SNS si sforza di creare.
All'inizio, i post e le osservazioni di Djurić causavano solo una lieve agitazione oltre i pochi “mi piace”. Poi improvvisamente, ore o addirittura giorni dopo, raccoglievano una raffica di centinaia di “mi piace” e condivisioni in una breve finestra di tempo, solitamente in orari di lavoro. Lo schema era impressionante. Il processo finiva rapidamente come era iniziato. I bot avevano svolto il proprio compito ed erano passati oltre.
I seguaci di Djurić erano notevolmente simili - la maggior parte di questi avevano aperto solo recentemente il proprio account Twitter, pochi avevano effettivamente postato propri tweets e tutto ciò che sembrava interessare loro erano solamente i tweets del SNS e dei suoi dirigenti. Non è una sorpresa, considerando che quest’anno Twitter aveva già bloccato circa 9000 profili che promuovevano Vučić e il suo partito.
Inoltre gli attacchi su Twitter, in televisione e tramite comunicati stampa, hanno rivelato la vera natura del regime serbo, mettendolo sullo stesso piano di quello ungherese di Viktor Orbán, che da anni attacca accademici e giornalisti dissidenti, e di quello in Turchia dove il Presidente Recep Tayyip Erdoğan fa ricorso regolarmente all’arresto di accademici critici. Anche Donald Trump sembra mostrare poca pazienza per chi la pensa diversamente da lui.
Tutti i politici citati condividono una visione della politica fondamentalmente antidemocratica in cui ogni critica è allontanata e rifiutata in quanto illegittima.
Per anni, il governo serbo ha fatto proprie queste tendenze globali, attingendo contemporaneamente all’eredità di Slobodan Milošević.
L’ho discusso in un mio recente libro, “The Rise of Authoritarianism in the Western Balkans”: i commenti di Vučić, Djurić e gli altri dirigenti del SNS contro di me racchiudevano temi classici di una visione autoritaria del mondo.
Principalmente, ogni critica nei confronti del regime è un attacco allo stato e alla nazione.
Chiamarmi “odiatore della Serbia in servizio” suggerisce che criticare un governo equivale ad attaccare la nazione. Milošević seguiva una tattica simile.
Poco prima della sua cacciata, nell’ottobre 2000, il quotidiano dell’establishment Politika propose un titolo in cui si suggeriva che gli oppositori di Milošević erano contro di lui perché erano contro la Serbia. Il leader si fonde con la nazione, un attacco contro il primo diventa contemporaneamente un attacco nei confronti della seconda.
Inoltre, la strategia è quella di affermare che i critici sono mossi da tangenti e interessi economici (senza presentare alcuna evidenza).
E così Djurić, nella sua risposta tutt’altro che creativa al mio articolo del 2015 sulle 10 raccomandazioni ad un “principe balcanico”, ha presentato le sue 11 proposte per un Reale Lussemburghese nelle quali suggerisce che attaccare la Serbia “paga” e che parte della retribuzione arriverà da Pristina, mentre la parte rimanente da altri “amici” in Serbia.
E così, le critiche non sono motivate da un giudizio professionale, ma rappresentano banale propaganda retribuita. Associandole poi a nemici esterni, descritti ironicamente come “amici”, le critiche vengono ulteriormente screditate.
Infine, chi critica viene liquidato come marginale o ignorante.
Vučić ha speso tempo per chiamarmi “niente e nessuno” durante un’apparizione televisiva in giugno, con l’obiettivo di screditare la rilevanza di qualsiasi critica io possa fare.
Ovviamente, il fatto di far uscire il mio nome solo per affermare che io sia irrilevante, smentendo così di fatto proprio il punto che stava cercando di fare, sembra essere una piccola e auto-inflitta sconfitta per il Presidente della Serbia.
Florian Bieber è professore di storia e politica dell'Europa sudorientale presso l'Università di Graz. È il coordinatore del Balkans in Europe Policy Advisory Group (BiEPAG) e detiene una cattedra Jean Monnet. Il suo recente libro The Rise of Authoritarianism in the Western Balkans è disponibile in inglese e serbo.
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