Otto giorni intensi, lungo il cordone ombelicale d'Europa. Questo diario ci accompagna in un viaggio imperdibile
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Per la colazione dobbiamo spostarci presso un’altra famiglia, i Popović. La strada non è molta, ma visto che non la conosciamo e sembra non sia semplice da spiegare, ci vengono a prendere.
Qui siamo un po’ più su, rispetto alla nostra casa. La tavolata è preparata su una bella terrazza in mezzo al verde, con vista sul fiume. Nel giardino c’è una casetta colorata per i giochi dei bambini. Con noi ci sono anche i compagni di viaggio che dormono in altre case, oltre a quelli che alloggiano qui, tra cui Alessia e Nello.
La colazione che ci offre Slavica, la signora Popović, non è male, anche se qualcuno lamenta che sia un po’ troppo “salata” per i nostri gusti, a base di formaggi, prosciutto e burek (sfoglie ripiene) anch’essi salati. C’è un tè alle erbe, che è praticamente una specie di tisana, ma sentiamo un po’ la mancanza del caffè, alla quale suppliremo più tardi in un bar nel centro del paese.
Per la mattinata ci dividiamo in due gruppi, perché la barca che deve portarci alle Porte di Ferro non è abbastanza grande per tutti. Un gruppo andrà subito in barca e poi al Centro Visitatori del Parco Nazionale di Djerdap, l’altro, del quale faccio parte anch’io, farà il contrario.
Iniziamo quindi con la visita al piccolo museo del Parco, con alcuni animali imbalsamati tra cui spicca il pesce siluro, ormai una delle icone di questo viaggio. Poi l’incontro con la direttrice, che ci fa un po’ di storia del parco e ce ne spiega le principali caratteristiche, anche con l’aiuto di un video. Sul filmato c’è una piccola nota polemica da parte di Mirjana, che sia pure col sorriso ci fa sapere che da mesi ha chiesto alla direzione del Parco di avere il filmato per poterlo tradurre e sottotitolare in italiano, ma non ha ancora avuto risposta. Per il momento, quindi, il video è sottotitolato solo in inglese.
Il parco nazionale di Djerdap, fondato nel 1974, è il più grande di tutta la Serbia. Abbraccia 63.608 ettari e corre lungo i cento chilometri della riva destra del Danubio: per questa ragione è spesso chiamato il “parco nazionale del fiume”. Il sito più importante è la maestosa gola di Djerdap, la più profonda gola fluviale d’Europa. E’ composta da tre valli e quattro canyon; quello di Veliki Kaza si erge a trecento metri di altezza sopra il Danubio. La gola di Djerdap è anche il punto dove il Danubio è più profondo (90 metri). In questo stesso tratto si trovano il punto più stretto (140 metri) e quello più ampio (7 chilometri) del fiume.
La centrale idroelettrica di Djerdap, costruita tra gli anni settanta e ottanta e conosciuta anche come “Porte di ferro“, formata da due dighe di diverse dimensioni, è la diga più grande di tutto il corso danubiano nonché una delle centrali idroelettriche più importanti d’Europa
Il Parco Nazionale è il più grande habitat naturale per la lince, specie molto rara in Europa, come pure per il lupo, lo sciacallo, il gatto selvatico, la lontra, lo scoiattolo, la volpe, la martora, il tasso, il camoscio e altri mammiferi (in totale circa cinquanta). Il Parco è anche una Important Bird Area (IBA), con le sue duecento specie di uccelli registrate, delle quali centotrenta nidificano in queste zone.
Dopo questa “introduzione”, siamo pronti per l’ultima navigazione di questo viaggio, che ci porta all’interno di questa zona davvero spettacolare dal punto di vista paesaggistico. È piuttosto evidente che la riva serba è ancora abbastanza ben preservata, mentre su quella rumena si notano parecchie aree costruite in maniera disordinata ed esteticamente discutibile. Notiamo anche che quasi tutte le imbarcazioni che navigano sul fiume sono rumene; pare proprio che da quella parte abbiano già scoperto e deciso di valorizzare le potenzialità turistiche di questo tratto di Danubio, forse addirittura un po’ troppo.
Tra l’altro, in un punto è scolpita nella roccia una colossale scultura alta 40 m che rappresenta il faccione di Decebalo, re dei Daci del I secolo d.C., fatta realizzare da un imprenditore rumeno piuttosto megalomane di nome Iosef Constantin Dragan. E infatti, l’iscrizione alla base dice: “DECEBALUS REX – DRAGAN FECIT”.
Sul lato serbo, invece, decisamente più discreta, c’è la Tavola Traiana. Di forma rettangolare, fu incisa nella roccia nel 101 d.C. ed è parte di un complesso di monumenti posti lungo la via romana che attraversava Djerdap. Fu innalzata per commemorare il completamento dei lavori per il difficile ultimo tratto di strada, e la costruzione di un canale vicino all’attuale diga di Djerdap, entrambi finalizzati alla guerra contro i Daci. Un’iscrizione scolpita in lingua latina è dedicata all’imperatore Traiano. La via romana fu sommersa dalle acque del Danubio durante la costruzione della centrale idroelettrica (1963-1972). La Tavola Traiana fu estratta dalla roccia, innalzata di cinquanta metri ed è ora visibile dal fiume.
Qui, nel parco di Djerdap, il Danubio è anche blu. Sicuramente più di quanto abbiamo visto finora. Il colore prevalente, fin qui, a causa del tipo di fondali, era più tendente al verdegrigio.
Su questa zona c’è un’altra storia che, secondo Eugenio, vale la pena di essere raccontata. È quella dell’isola di Ada Kale, un’isola che ora non c’è più. Fu sommersa nel 1970 durante la costruzione della diga di Djerdap. Aveva 600 abitanti, quasi tutti di origine turca. La storia è stata raccontata anche da Zograf, (la potete trovare qui)
Pranziamo all’aperto, in un belvedere detto “del Capitano Miša”, con una splendida vista sul Danubio e delle gentili signore in costume tipico che ci servono, a buffet, un’infinità di specialità valacche. I valacchi sono i discendenti delle popolazioni di lingua tracica che furono romanizzate tra il primo e il sesto secolo nei Balcani e nel bacino del basso Danubio. Oggi vivono soprattutto in Romania, ma anche in queste zone confinanti della Serbia.
Qui c’è anche il laboratorio di Žika, uno scultore in legno che conosciamo grazie a Mirjana e che ha fatto, da sempre, la scelta di vivere a piedi nudi (in effetti i suoi piedi sono un po’… provati da questa scelta) per mantenere il più possibile vivo il contatto con la sua terra, che gli dà ispirazione e di cui deve costantemente “sentire” il respiro anche con i piedi.
Dopo il pranzo, anche questo luculliano, niente di meglio di una passeggiata nel bosco di Kovilovo fino a un altro belvedere. Purtroppo comincia a minacciare pioggia e dobbiamo tornare abbastanza di fretta.
Dopo un riposino nelle nostre casette (siamo riusciti ad arrivare appena prima che iniziasse a piovere), il programma prevede la visita al sito archeologico di Lepenski Vir, che si trova nella gola di Djerdap, sui terrazzamenti che scendono verso il Danubio. Anche qui, come a Vinča, ci troviamo nel centro di una delle più importanti culture preistoriche.
A Lepenski Vir le abitazioni avevano forma circolare, con un tetto a punta. Nel centro dell’abitato si trovava una piazza spaziosa, che era il luogo dedicato alle attività rurali. In base alla forma e alle proporzioni delle abitazioni, si suppone che i costruttori di Lepenski Vir avessero alcune nozioni di matematica. Intorno al focolare venivano collocate grandi sculture di pietra rotonde, che raffiguravano la forma della testa umana. Più tardi, le sculture hanno preso la forma della figura umana intera, per diventare dei veri e propri idoli.
Il museo che visitiamo è all’interno di una struttura megagalattica, che fa pensare che almeno qui un po’ di fondi siano arrivati. Ma, forse per l’ora forse per il tempo, siamo i soli visitatori. Ci fanno vedere uno stupendo film jugoslavo degli anni ’60 che racconta la scoperta del sito e che da solo varrebbe il prezzo del biglietto. Scopriamo che questa è stata la prima civiltà stanziale in Europa, e non è poco. Qui la vita media era di 45-50 anni, in certi casi fino a 70, quando nel resto d’Europa era intorno ai 35. Gli abitanti, poi, erano molto più alti della media europea. Il più alto scheletro trovato è di un uomo alto addirittura 2,03. Insomma, pare che anche qui a quell’epoca si vivesse davvero bene.
Praticamente annesso al sito archeologico, c’è il ristorante dove passeremo la nostra ultima serata serba.
Anche qui il buffet è ricco: capretto alla brace, polenta bianca di mais, formaggio grigliato e… tanta, tanta rakija per affogare le prime tristezze di fine viaggio. Qui, evidentemente, Eugenio non ha dato indicazioni di razionarci il… carburante, forse perché è l’ultima sera, e quindi, a parte l’immancabile “aperitivo”, dopo cena continuano a girare vassoi colmi di bicchierini pieni fino all’orlo.
Nel frattempo, un ensemble di musica valacca sta già suonando e noi, chi più chi meno, ci lanciamo nelle danze. Anche qui, nel piazzale davanti al locale, il kolo impazza. Una delle cameriere tenta, con tutta la buona volontà possibile, di spiegarci i passi: in teoria sembra semplice ma, almeno per quelli completamente negati come me, il passaggio dalla teoria alla pratica non è affatto banale, a maggior ragione quando l’alcol in corpo è già parecchio… come sempre vado un po’ a caso, più che altro mi lascio trasportare.
Nelle pause della danza, comincia una gara di “shottini”. Facciamo amicizia con un serbo che vive da tanti anni a Vicenza e ha un incredibile accento veneto, e questo non può che peggiorare la situazione. Ovviamente, non farò nomi né… numeri, non posso tradire i miei compagni (e le mie compagne) di bevute. Riusciamo comunque a finire la serata mantenendo un certo contegno, che è pur sempre qualcosa.
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