E' da poco uscito "Na Begu" (In fuga) il libro del giornalista Boštjan Videmšek. Božidar Stanišić ne parla proponendoci una lettera, un'intervista e una selezione di frammenti del libro. Una riflessione su migranti e media
Per i tipi della casa editrice lubianese UMco è recentemente uscito il libro del giornalista Boštjan Videmšek Na begu – Moderni eksodus /2005-2016/: z begunci in migranti na poti proti obljubljenim deželam (In fuga – Esodo moderno /2005-2016/: in viaggio con i migranti verso le terre promesse)
Lettera
Stimato Boštjan,
a margine dell’ultima pagina del suo libro In fuga ho scritto: “Non credo che questo libro verrà accolto bene...”. Perché dovrei crederlo? Per quale motivo il cosiddetto “europeo medio” dovrebbe credere nell’oggettività di quanto da lei scritto durante questo viaggio lungo undici anni: da Melilla e Lampedusa a Subotica e Mórahalom, dal confine turco-siriano, Patrasso e Atene fino al fiume Sutla e l’altopiano carsico? Lei è uno di quei rari, purtroppo sempre più rari giornalisti che non si sono incollati alla sedia e alla scrivania della redazione, dove si finisce anche per copiare comodamente le notizie altrui. Oggigiorno la gente “comune” non crede alle persone come lei, né sono disposti a farlo molti di coloro che si credono appartenenti a varie caste elitarie, in primis quella politica, ma non bisogna dimenticare nemmeno quella “culturale”. Se fosse altrimenti, non ci sarebbe stato questo libro, nemmeno ci sarebbero state le fotografie del suo collega Jure Eržen, né la postfazione a firma di Ervin Hladnik. No, non ci sarebbero nemmeno le guerre, né la povertà che affligge i due terzi della popolazione mondiale, né l’arricchirsi assurdo dei più forti a spese dei più deboli, né il dilagare della manipolazione mediatica, infine non ci sarebbero neanche queste migrazioni che, non mi fraintenda, nelle loro radici sono un fenomeno tremendamente ingiusto. Dico questo perché credo di conoscere almeno un po’ il dramma del “distacco” dalla terra natia, ossia cosa significa andarsene per sempre.
Eppure, il nostro cittadino “medio”, e quelli che gli somigliano per indifferenza, preferiscono credere, per citare le sue parole, agli esecutori disciplinati della politica bellica globale, ai quali io aggiungo i loro servitori mediatici, piuttosto che a lei e a tutti coloro la cui empatia è una viva prova che siamo ancora esseri umani, e non solo semplici bipedi.
In questo libro, lei ha dato voce agli ultimi in modo che possano dire cosa ne pensano di questa che non è solo la loro tragedia. Semplicemente, è anche una nostra tragedia. Non è tragico (seppur in un certo senso anche comico) il fatto che gli europei del XXI secolo, che hanno a disposizione tutti i possibili mezzi informatici, rifiutino di vedere la tragedia altrui? Da questa parte del mondo, alla quale è in realtà destinato questo libro, siamo diventati sordi alle questioni che riguardano petrolio, acqua, terra fertile – tutto ciò che rientra negli interessi corporativi che, così, apparentemente en passant, calpestano i più elementari principi di umanità.
Tuttavia, spero profondamente non solo che il suo libro In fuga venga letto da molti giovani in Slovenia, ma anche che, essendo un atto di accusa che merita di essere tradotto in molte lingue europee, diventi oggetto di un ampio dibattito.
Intervista
Ho vissuto il suo libro In fuga anche come una sconvolgente testimonianza dalla quale semplicemente “scaturiscono“ domande. Una di quelle che mi hanno accompagnato durante la lettura è semplice ma dolorosa nella sua concretezza: l'Europa ha davvero dimenticato così facilmente il proprio passato e le grandi emigrazioni dei suoi cittadini che segnarono il Novecento?
L'Europa non solo ha dimenticato, ma ha anche approfittato dell'attuale crisi dei rifugiati per misurarsi con la propria falsa identità che per anni viveva nascosta dietro il paravento della correttezza politica. Ora la nostra verità sta emergendo in superficie. Razzismo. Xenofobia. Divisioni artificiali. Radicalismo della “zona di comfort“. Neofascismo. Dal Baltico all'Adriatico, come dice Florence Hartmann. Il passato è qui. Hic et nunc.
Se volessimo sintetizzare il contenuto dell'articolo 1 della Convenzione sullo status dei rifugiati, potremmo dire che nel 1951, di fronte a una grave emergenza umanitaria conseguente al massiccio flusso dei rifugiati durante la Seconda guerra mondiale, la gran parte degli stati del mondo decisero di adottare norme universali, internazionali che regolassero lo status di persone che, trovatesi fuori dello stato di cui possiedono la cittadinanza, non possono ritornarvi per il giustificato timore di essere perseguitate per la loro razza, religione, nazionalità, opinione politica o appartenenza a un determinato gruppo sociale. Secondo lei, le norme stabilite da questa Convenzione vengono ancora rispettate?
Solo sulla carta, nella prassi assolutamente no. L'Europa ha “permesso“ che dal 2000 ad oggi 26mila persone scomparissero nel Mediterraneo, solo quest'anno già oltre 3mila. È un crimine contro l'umanità, il nostro crimine.
Nel suo libro lei sostiene che i rifugiati sono visti some “scorie nucleari, ebrei del XXI secolo“. Quindi, gli estranei che minacciano la “salute“ degli europei e che semplicemente continuano a ripresentarsi come “disturbo“. Secondo lei, che è un peculiare testimone della nostra epoca, qual è il reale stato di salute – in termini politici, sociali e innanzitutto culturali – del vecchio continente?
Il vecchio continente sta morendo di vecchiaia. Oggi l'Europa è una nozione geografica piuttosto che politica o sociale (figuriamoci culturale). L'Europa sta nuovamente diventando il luogo della dittatura dei grandi nazionalismi, che hanno sopravvissuto a tutte le ideologie, e questo è tremendamente pericoloso. L'etnocentrismo europeo non si differenzia affatto dall'egocentrismo individuale – ci si sente liberi dalla vergogna, dall'empatia e dal senso di colpa, che costituiscono le fondamenta dell'etica. Il patto sociale è andato in pezzi.
Nell'Europa di una volta, quella senza Internet e social network, gli eccessi di razzismo e di nazi-sciovinismo sembravano essere circoscritti alla piazza, al bar e al volantinaggio militante. Se leggiamo quello che al giorno d'oggi scrivono sui social network razzisti, etnocentristi e sciovinisti, secondo i quali i rifugiati devono essere buttati in mare, oltre ad essere sottoposti a chissà quali altre cose, è ben evidente dove siamo arrivati. Lei cosa ne pensa, come uomo e giornalista, di questa “libertà“ di espressione sui social network?
Come uomo, penso che tutto ciò sia ripugnante, ma anche logico: viviamo in un tempo in cui la curva dell'attenzione è assurdamente breve, in cui ognuno ha una propria opinione su tutto. Quello che manca è sapere, esperienza, competenza, contatto umano. Il mondo digitale è un mondo privo di restrizioni, che generosamente premia i personaggi deficitari. Come giornalista, sono preoccupato. Nel 2015 negli Stati Uniti il 70% di tutti i contenuti mediatici è stato consumato tramite social network. Questo è un dato inaudito. La nostra professione verrà sempre più banalizzata – gli standard sono già paurosamente ridotti. Basta saper scrivere e possedere un cellulare con fotocamera per illudersi di essere giornalisti nati.
In che misura siamo consapevoli dell'eventuale prezzo da pagare per il nazionalismo e l'ortodossia ideologica, il cui scagliarsi contro i rifugiati è solo un pretesto dietro al quale si celano ben altri motivi?
Non ne siamo affatto consapevoli. Srebrenica è stata a lungo soppressa dalla memoria storica, mentre Auschwitz non è più nemmeno una metafora nel dibattito pubblico odierno. Per cui non dovremmo sorprenderci se dovessero accadere nuove Srebrenica e nuovi Auschwitz.
Frammenti
Quando sui confini sloveni comparvero i primi rifugiati, il paese si trovò in preda all'emergenza. Si accesero tutti gli allarmi possibili. Era evidente che i rappresentanti del potere erano smarriti, addirittura scioccati. Nelle loro parole, nei loro gesti e nel loro agire si avvertivano l'incompetenza, l'ignoranza della problematica, il deficit di empatia e una quantità quasi incredibile di opportunismo politico, sicché – invece di intraprendere azioni effettive – lasciarono che l'opinione pubblica plasmasse l'agenda politica.
I media, o almeno gran parte di essi, si fecero complici dell'escalation (oltre che della genesi) di quel populismo estremo che è l'ideologia dominante della nostra epoca e società. I giornalisti sloveni domandavano ai rifugiati siriani, in fuga verso l'Europa ormai da settimane, o persino da mesi, perché non se n'erano rimasti a casa, dove potevano, ad esempio, imbracciare le armi per combattere contro gli jihadisti dello Stato islamico. Ci si chiedeva perché se ne fuggivano tutti, come se non fossero consapevoli del fatto che nemmeno “da noi“ la vita era un paradiso.
Nessuno di quei giornalisti era mai stato in Siria né in qualsiasi altra zona di guerra. Nessuno di loro né tantomeno nessuno dei politici e degli analisti dell'opinione pubblica aveva mai sperimentato gli orrori della guerra sulla propria pelle privilegiata. Quando il 13 novembre del 2015 i terroristi attaccarono Parigi, furono quegli stessi media e politici a sostenere, nel tentativo di demonizzare e deumanizzare i rifugiati, che “siamo in guerra“, senza avere la più pallida idea di che cosa fosse la guerra. La parola è arma e mezzo della guerra.
(...)
Durante la grande “azione di pulizia“, le principali città furono ripulite dai migranti e rifugiati. Quelli che erano riusciti ad evitare il carcere, l'internamento nei centri di detenzione e la deportazione si erano ritirati verso le periferie o nei luoghi dai quali era possibile, almeno teoricamente, tentare la fuga dal paese. Come ad esempio Patrasso, città portuale che stava diventando la capitale dei migranti in quella parte d'Europa, mentre nel Novecento fu testimone del massiccio esodo di greci in fuga dal proprio paese. A causa di povertà, fascismo, giunta militare, guerra civile...
“Sono ormai sette mesi che vivo in una fabbrica abbandonata, di fronte al nuovo porto. Lì non vi è nulla. Ci laviamo nel mare. Quando piove, sotto la pioggia. Mangiamo una sola volta al giorno, tutti insieme. Il cibo lo cerchiamo nella spazzatura. Ogni tanto riceviamo qualche aiuto umanitario. Siamo in molti. Abbiamo tutti lo stesso obiettivo e le stesse difficoltà. Vogliamo raggiungere l'Italia con un traghetto o una nave, e poi proseguire verso l'Europa del nord. L'unica possibilità che abbiamo è quella di nascondersi in un camion, o sotto di esso. Questo è molto pericoloso. Di solito ci scoprono facilmente. Poi ci arrestano e portano ad Atene. Lì ci lasciano sulla strada. A me è successo già due volte. La prima volta sono tornato a Patrasso a piedi. Sette giorni di cammino. Dormivo all'aperto. La seconda volta si è fermata una macchina. A volte succede che uno su cinque di noi riesca a salire su una nave. Allora i poliziotti fanno finta di niente – a loro conviene liberarsi di noi. Da quando le autorità italiane, sulla base del Trattato di Dublino, hanno cominciato a rispedire indietro quasi tutti i migranti provenienti dalla Grecia e da quando l'Europa minaccia di escludere la Grecia dallo spazio Schengen, tutto è diventato più difficile. Stiamo qui e aspettiamo un miracolo“. Sono le parole di Mustafa Bakr, un ragazzo afghano di ventisette anni incontrato in un parco di Patrasso dove, lottando con un vento alquanto forte, cercava di montare una canna da pesca improvvisata. Dopo aver pagato ai trafficanti duemila euro a testa per portarli da Teheran fino al confine greco-turco, Mustafa e i suoi compagni hanno intrapreso un lungo viaggio con la speranza di raggiungere l'Europa. È giunto in Grecia attraversando il fiume Evros e, come molti altri migranti, ha lasciato i suoi documenti di identità in Turchia, consegnandosi, come gli è stato consigliato, alla polizia di frontiera greca.
(Frammenti tratti dal libro Na Begu di Boštjan Videmšek, tradotti dallo sloveno al serbo-croato da B. Stanišić, tradotti succesivamente in italiano da I. Draganić)
Questa pubblicazione è stata prodotta nell'ambito del progetto European Centre for Press and Media Freedom, cofinanziato dalla Commissione europea. La responsabilità sui contenuti di questa pubblicazione è di Osservatorio Balcani e Caucaso e non riflette in alcun modo l'opinione dell'Unione Europea. Vai alla pagina del progetto
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