"Paese che non esiste", "paese fantasma" così spesso viene definita la Transnistria cerniera tra est e ovest e, soprattutto, da sempre un’enclave russa in una posizione geopolitica chiave. Reportage
Quando Nicolai Lilin scrisse “Educazione siberiana”, quasi nessuno conosceva la Transnistria, la sua terra. La raccontò in modo fantasioso, come un “Paese fantasma” dove non c’erano regole, imperavano contrabbando, mercato nero, malavita organizzata e corruzione. Dove una minoranza etnica della Siberia sarebbe stata deportata laggiù negli anni Trenta, quando era parte della Romania, prima di venire annessa all’Unione Sovietica nel 1940. E così, nella finzione di Lilin, i sovietici avrebbero popolato «l’impero romeno», come lui stesso lo chiama, di criminali russi sconfiggendo le cosche locali.
C’era poco di vero in quello che raccontava, se non la condizione fuori da ogni contesto e relazione politica di quella striscia di terra, da tutti chiamata “il paese che non esiste”, e che oggi è tornata ad essere una miccia pronta a dar fuoco a polveri mai spente.
La Transnistria, cioè la terra al di là del fiume Dnestr che la divide dalla Repubblica Moldova da cui si è dichiarata indipendente, ha infatti un ruolo di cerniera tra est e ovest e, soprattutto, è da sempre un’enclave russa in una posizione geopolitica chiave. Accuse reciproche di provocazioni si sono succedute in queste settimane tra la piccola repubblica autoproclamata indipendente e la Moldova: il timore è che rientri nei piani russi annettere quella striscia di terra alla confinante Crimea, usandola come testa di ponte per una penetrazione verso Occidente.
Eppure di tutto questo non sembra ci sia percezione a Tiraspol, la capitale che ad un primo impatto sembra ferma agli anni di Kruščev e Brežnev, che le diedero l’aspetto che ha tuttora: tanti palazzoni–alveare grigi in fila per dare una casa agli operai del grande “nuovo Stato” industriale che si stava edificando. L’ingresso nel “paese che non esiste” segue i riti ufficiali di un espatrio vero e proprio: il minibus che dalla non lontana Chișinău, capitale della Moldova, porta a quel confine da nessuno riconosciuto, fa scendere i suoi passeggeri per controlli rigorosi e meticolosi del passaporto, e il rilascio di un permesso della durata di un giorno, o superiore solo se motivato. Da lì, sembra di entrare in una recita a cui tutti prendono parte con la massima convinzione. La lingua è rigorosamente ed esclusivamente il russo, a differenza della Moldova di cui giuridicamente fa parte, dove si parla prevalentemente rumeno, e la moneta è un rublo locale, che non è valido in nessun ufficio di cambio oltreconfine. Una valuta fantasma come tutto il paese, che non esiste ufficialmente nemmeno sulle mappe geografiche.
Bender, la prima città che si incontra dopo la frontiera “fantasma”, è proprio quella dove Lilin è cresciuto, e si annuncia con cupi palazzi socialisti, boulevard spaziosi e ariosi ma semideserti e una fortezza dai mattoncini marroni a dominare l’ansa del fiume Dnestr. Alcuni edifici mostrano ancora i segni dei bombardamenti del 1992, quando l’esercito regolare della neonata Repubblica di Moldova attaccò la Transnistria autoproclamata indipendente.
Tiraspol è a una ventina di chilometri che si percorrono in quasi totale solitudine. Ma la capitale ha una sua vitalità economica e non di sussistenza, nonostante un embargo internazionale di fatto, l’esclusione dai circuiti delle carte di credito e delle transazioni finanziarie. Locali alla moda fanno la loro figura sul grandioso centrale boulevard da parate militari, tipico delle capitali della vecchia Unione Sovietica. In quel colossale viale c’è tutto: i grandi edifici del potere rimasti gli stessi dell’era precedente il crollo, con l’apparato iconografico della propaganda sovietica; la bandiera verde e rossa con la falce e martello; la gigantesca statua di Lenin di fronte al palazzo presidenziale, a sua volta imponente, il palazzo dei Soviet con un altro busto di Lenin, il muro che celebra le vittorie militari russe della Seconda guerra mondiale. C’è una polizia che pattuglia in tutta tranquillità, e che sembra molto lontana da quella di cui parla Nicolai Lilin nei suoi romanzi, che faceva da spalla alla gang criminali che avevano in pugno il “Paese fantasma” negli anni convulsi dopo il crollo dell’Unione Sovietica. I racconti sui tentativi di estorcere soldi ai pochissimi stranieri che si addentravano inventando trasgressioni pretestuose, sembrano oggi del tutto fantasiosi.
Anche i timori all’inizio della stagione fredda di problemi nella fornitura di energia e di un inverno al gelo si sono rivelati infondati nella vicina Moldova, che dipende dalla Transnistria dove si trova la grande centrale che fornisce la gran parte dell’energia di provenienza russa al paese confinante da cui si è separata.
A Chișinău negozi e posti al chiuso sono sempre stati riscaldati nonostante le temperature rigide e la luce non è mancata. Questa terra è da sempre un luogo di secolari contaminazioni. Qui sono passati russi, romeni, ucraini, ebrei. C’è ancora una piccola sinagoga e ci sono chiese ortodosse, la più grande costruita in anni recenti nei vivaci colori verde e bianco, proprio a due passi dalla grande piazza vicino al palazzo presidenziale: la domina l’imponente statua a cavallo del leggendario generale Alexander Suvorov, che al servizio di Caterina di Russia “vinse sessanta battaglie e non ne perse nemmeno una”.
Un centro vero e proprio non c’è. Com’era comune nelle grandi piante urbane sovietiche infatti, c’è una sorta di spianata a metà del grande boulevard, con dei giardini, qualche attrezzatura che potrebbe sembrare un parco giochi, e che probabilmente ospita giostre o circhi nella bella stagione. Ma la statua dell’eroe nazionale non manca mai, come nella vicina capitale moldava Chișinău con il padre fondatore della patria, il principe Stefano il Grande.
Sono molto nazionalisti qui, sulle due rive del fiume Dnestr, ma in senso contrapposto: fieramente moldavi ed europei a ovest e ostinatamente russofili a est. Quando cadde l’Unione Sovietica, in quella remota striscia si scatenò la rivolta: quel fiume aveva segnato il confine tra due mondi, Est e Ovest, e in Transnistria non avevano nessuna intenzione di passare dall’altra parte.
Qualche giovane a Tiraspol che parla inglese spiega che nessuno accetta valuta diversa dal rublo locale e men che meno i Lei moldavi, facendo intendere che c’è un forte senso di appartenenza nazionale che spinge i giovani come loro a restare, nonostante la vita in un “limbo” internazionale.
Sembra una generazione diversa da quella raccontata da Lilin, che si tatuava sulla pelle in segno di opposizione “2 giugno 1962” giorno simbolo della resistenza al regime per la rivolta alla fabbrica di locomotive di Novočerkassk, sul Mar d’Azov, repressa nel sangue. Ora invece il senso di appartenenza e continuità col passato viene instillato fin da bambini, a partire dalla lingua.
Quando negli anni '90 furono abolite le leggi sovietiche sulle scuole pubbliche, nella nuova Repubblica di Moldova fu introdotto un sistema educativo su modello occidentale: il rumeno fu adottato come lingua ufficiale poiché gran parte di quella che era stata la Repubblica socialista sovietica moldava apparteneva alla Romania prima della guerra. Ma questi cambiamenti non piacquero per niente alla separatista Transnistria.
Nel 1994, l'autoproclamato governo di Tiraspol vietò l'uso dell'alfabeto latino nelle scuole e impose ai bambini di usare il cirillico, anche quando scrivevano in romeno. È facile prendere per vero quanto viene riportato da fonti giornalistiche, secondo le quali più del 90 per cento delle scuole oggi impartiscono l’insegnamento esclusivamente in russo, anche se secondo dati non ufficiali un terzo del mezzo milione di abitanti della “repubblica fantasma” proviene da famiglie che parlano romeno e quasi un altro terzo da famiglie di lingua ucraina. Ma lo sforzo delle autorità per distinguersi in tutti i modi dalla Moldova è poco efficace, visto che i titoli di studio rilasciati lì, proprio come il loro rublo e le targhe delle loro auto, una volta fuori non hanno alcun valore.
Un’autonomia di cartapesta ma pagata a carissimo prezzo, come testimonia il grandioso Memorial of Glory di fronte al palazzo presidenziale in omaggio dei morti del breve ma duro conflitto separatista, un elenco scolpito su una grande stele, un nome per moltissime famiglie della Transnistria. Una repubblica che non esiste per il diritto, ma profondamente reale nei fatti: un monito che non va ignorato da nessuno.
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