In Turchia, con l'escalation di violenza degli ultimi mesi, la questione curda torna al centro dell'attenzione di Ankara. L'ombra del conflitto in Siria sul riacutizzarsi degli scontri. Le aperture del premier Recep Tayyip Erdoğan sembrano lasciare strada al ritorno alla soluzione militare, appoggiata anche dagli elementi oltranzisti del CHP, principale forza di opposizione. Ma il nodo resta politico
“Terör”, terrore. Il quotidiano Posta, per la sua prima pagina di mercoledì 26 settembre ha scelto una sola parola, sparata a caratteri cubitali. Sullo sfondo, un fotogramma estratto da un video che ritrae il cadavere di una donna, a terra, coperto da un telo azzurro. Fadime Acar è una delle vittime dell’attentato messo a segno il giorno prima dagli autonomisti del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) a Dersim, nel sud-est della Turchia, regione a maggioranza curda. Al passaggio di un minibus, con a bordo militari in borghese, i militanti curdi hanno fatto esplodere a distanza un ordigno. Insieme alla Acar, sei soldati hanno perso la vita.
Quello di martedì è solo l’ultimo di una lunga serie di attacchi degli autonomisti curdi contro l'esercito turco. Negli ultimi mesi nel sud-est del paese il decennale conflitto tra forze armate e PKK, che godrebbe, secondo Ankara, del sostegno del presidente siriano Bashar al-Assad in funzione anti-turca, ha raggiunto il più alto livello di violenza dal 1999, quando l’arresto di Abdullah Öcalan, leader indiscusso del movimento, aveva fatto pensare a molti che il conflitto fosse giunto al termine.
“Nell’ultimo periodo abbiamo registrato un lieve aumento delle attività terroristiche” ha dichiarato recentemente il primo ministro Recep Tayyip Erdoğan, un eufemismo smentito, tuttavia, dai dati resi pubblici dall’esercito. Solo nelle prime tre settimane di settembre 41 militari hanno perso la vita negli scontri con gli autonomisti del PKK. “Sono 110 dall’inizio dell’anno i martiri caduti nell’ambito della lotta anti-terrorista. Nello stesso periodo 427 terroristi sono stati uccisi, 54 catturati e 117 si sono costituiti”, ha dichiarato il Capo di stato maggiore dell’esercito turco Necdet Özel nel corso di un’intervista rilasciata al canale televisivo Haber Türk il 25 settembre.
Ritorno alla lotta armata
Ne è passata di acqua sotto i ponti dal 2009 quando Erdoğan disse: “Vogliamo pace, unità e fratellanza. Siamo tutti parte della stessa nazione. Non vogliamo che le madri piangano più i propri figli”. Fu il primo atto di quella che venne definita “apertura ai curdi”, un’iniziativa politica promossa dal governo per cercare una soluzione negoziale al decennale conflitto tra esercito e PKK. Da più di un anno il premier turco ha fatto marcia indietro, temendo che il crescente scetticismo dell’opinione pubblica turca verso l’iniziativa avrebbe penalizzato il suo partito in termini elettorali.
Secondo un sondaggio dell’istituto Metropoll, pubblicato lo scorso 26 settembre, sebbene per la maggior parte degli intervistati non sia possibile sconfiggere il PKK semplicemente attraverso operazioni militari, solo il 41% è favorevole a un nuovo round negoziale tra Governo e autonomisti curdi, il 67% trova giusto che venga messo fuori legge l’unico movimento curdo presente in parlamento, il Partito della democrazia e della pace (Bdp), mentre il 77% vuole che venga tolta l’immunità ad alcuni dei suoi parlamentari.
Il governo turco, quindi, è tornato a un approccio esclusivamente militare alla questione curda, una scelta appoggiata anche dal Partito di azione nazionalista e dai deputati più oltranzisti del Partito repubblicano del popolo (CHP), il principale movimento d’opposizione. “Continueremo a combattere fino quando l’organizzazione terrorista [il PKK, NdA] e le sue diramazioni saranno neutralizzate e avremo eliminato l’ultimo terrorista", ha dichiarato senza usare mezzi termini il ministro degli Interni İdris Naim Şahin .
Il cambio di linea nell’azione del governo, sommato alla spettacolarizzazione mediatica dei funerali dei “martiri”, il termine con cui i media e i politici nazionalisti definiscono i soldati morti in scontri con il PKK, e la retorica esasperata utilizzata, con poche eccezioni, dai media turchi per raccontare il conflitto nel Sud est del paese stanno spingendo l’opinione pubblica turca su posizioni sempre più radicali.
Dal canto suo il PKK sta alzando sempre di più il livello dello scontro, colpendo oltre ai militari, anche politici e giudici. Il 19 settembre scorso il Pubblico ministero Mehmet Uzun è stato ucciso a colpi di pistola a Dersim, un attentato rivendicato dal gruppo autonomista con un comunicato in cui si accusa il giudice di avere avuto un ruolo attivo nei processi contro gli attivisti curdi. Meno tragica, ma comunque preoccupante, la vicenda del parlamentare del Partito repubblicano del popolo Hüseyin Aygün rapito a Dersim il 12 agosto per poi essere liberato il giorno dopo.
Il ruolo della Siria e l'irrisolto nodo politico
Secondo le autorità turche la principale causa della recente escalation di violenza di questi mesi sarebbe il sostegno che il regime siriano sta fornendo al PKK. “Il PKK lavora in stretta collaborazione con i servizi segreti di Damasco, Assad vede la Turchia come un nemico e di conseguenza il PKK come un amico”, ha dichiarato il 20 agosto Huseyin Çelik il portavoce del Partito della giustizia e dello sviluppo (AKP) del premier Erdoğan, nel corso di un’intervista trasmessa dall’emittente turca Ntv.
Intanto la sentenza del Tribunale di Istanbul, che ha condannato Sabahat Tuncel, parlamentare di Istanbul del Partito della democrazia e della pace, a 8 anni e 9 mesi come “membro di un’organizzazione terroristica” ha incrinato ancor di più il già teso rapporto tra governo e attivisti curdi. “Gli attacchi del Primo ministro Erdoğan contro i curdi spianano loro la strada per Kandil [la catena montuosa dove il PKK ha le sue basi NdA], rendendo impossibile il confronto democratico” ha dichiarato Tuncel dopo la sentenza, “e la mia condanna è un primo passo verso l’abolizione dell’immunità parlamentare per i deputati del BDP auspicata da Erdoğan.”
Se negli scorsi anni sono stati accordati alla comunità curda maggiori diritti linguistici e culturali, come ad esempio l’abrogazione del divieto di trasmettere programmi e canzoni in lingue diverse dal turco o l’istituzione a partire da questo anno scolastico di corsi facoltativi di lingua curda nelle scuole, dal punto di vista politico-giudiziario la situazione rimane critica.
Nell’ambito dei vari filoni del maxi-processo “KCK”, il coordinamento di cui fanno parte tutte le organizzazioni autonomiste curde tra cui il Pkk, sono state arrestate dal 2009 più di 8mila persone tra cui amministratori locali, giornalisti, professori universitari e attivisti curdi. Molti di loro, hanno più volte denunciato organizzazioni internazionali per la difesa dei diritti umani come Amnesty international e Human rights watch, sono in carcere per reati di opinione.
La soluzione al violento conflitto in corso, sostiene però Cüneyit Özdemir editorialista del quotidiano Radikal, deve tuttavia essere innanzitutto politica. “Svelerò un segreto di cui già tutti siamo al corrente. La più potente arma del PKK è costituita dai suoi numerosi militanti”, scrive il giornalista. “Se esiste un motivo per cui il PKK non è ancora stato sconfitto dopo trent’anni di conflitto contro il potente esercito turco, questo si nasconde nella condizione sociale delle persone che hanno scelto la via della montagna [per combattere, NdA]. Fino a quando non saranno rimosse le cause che stanno dietro la scelta di intraprendere la lotta armata, il PKK non deporrà mai le armi.”
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