Unione europea

Sarajevo e l'instabilità della Bosnia Erzegovina

03/11/2001 -  Anonymous User

Relazione di Muhidin Hamamdzic, sindaco di Sarajevo - Padova 5 maggio 2001

Ex Jugoslavia. Dopo 10 anni una pace ancora da costruire

03/11/2001 -  Anonymous User

27 GIUGNO 1991. Primi scontri lungo il confine tra Trieste e Gorizia tra la difesa territoriale slovena e l'armata jugoslava. Preludio, più o meno artefatto, della disgregazione della Jugoslavia.

Introduzione alla ricerca "I Paesi balcanici e l'Unione Europea, a che punto l'int

03/11/2001 -  Claudio Bazzocchi

Claudio Bazzocchi esamina le ragioni alla base di questa ricerca e ne presenta i contenuti.

Di-Segnare l'Europa. Per un'integrazione certa, rapida, sostenibile e dal basso

02/11/2001 -  Anonymous User

Documento redatto durante il World Social Forum di Padova

Inaugurata ''Scienze della comunicazione'' a Sarajevo

26/10/2001 -  Anonymous User

Il nuovo corso di laurea è stato inaugurato alla presenza di esperti provenienti da tutta l'area balcanica. Lo scopo è infatti quello di favorire i contatti e le relazioni nel sud est Europa.

Il Primo Ministro della RS Ivanic: non firmerò per l'ammissione della BiH nel Consiglio d'Europa

22/10/2001 -  Anonymous User

Il Primo Ministro Mladen Ivanic ha dichiarato davanti al Parlamento della Republika Srpska che si rifiuterà di sottoscrivere il documento dove l'ammissione della BiH viene condizionata all'accordo tra Federazione e RS per la creazione di un'unica forza armata per l'intera Bosnia-Erzegovina.
"Sostengo l'ammissione della Bosnia - Erzegovina - ha dichiarato - ma senza condizionamento di sorta".

Secondo Ivanic la richiesta di costituire un unico esercito va contro gli Accordi di Dayton e contro la stessa Costituzione della Bosnia-Erzegovina. Il Consiglio d'Europa, a detta di Ivanic, avrebbe posto anche altre condizioni: l'approvazione, entro due anni, da parte delle due entità di nuove leggi sulle migrazioni, sulla cittadinanza e sulla procedura penale.
Soprattutto le ultime due incontrano l'opposizione del primo ministro della RS. Rifiuta infatti la costituzione di un registro centrale per i documenti personali che coprirebbe l'intera Bosnia -Erzegovina. "La Republika Srpska deve mantenere un proprio registro ed anche le carte d'identità, pur uguali per RS e Federazione, devono riportare ciascuna il nome dell'Entità dove è stata rilasciata". Per poi aggiungere che " la Bosnia-Erzegovina ha un futuro solo se si agisce rispettando la Costituzione e se le due Entità dalle quali è costituita goderanno degli stessi diritti". Ha inoltre accusato l'Alleanza per il Cambiamento, che ha la maggioranza dei seggi in Federazione, di proporre una visione "idealistica" della BiH ed ha accusato parte della Comunità Internazionale di sbagliare sostenendo quella visione.
Ivanic non ha rinnegato l'appoggio dato in passato all'Alleanza per il Cambiamento pur ribadendo che "non vi è mai stato grande amore tra di noi. Abbiamo dato il nostro sostegno solo poiché dall'altra parte vi erano SDA ed HDZ" (Srna, 10.10).

Stanno venendo dunque al pettine alcune ambiguità presenti negli stessi Accordi di Dayton dove da una parte si sostiene l'idea di una Bosnia-Erzegovina unitaria dall'altra, scendendo a forti compromessi con le élites nazionaliste, si è prevista l'esistenza di due Entità, esistenza che mette da sempre in dubbio l'integrità territoriale del Paese. La Comunità Internazionale sta cercando, con difficoltà, di far emergere una BiH unitaria, spingendo le due entità a stringere il prima possibile, legami rilevanti.

Per una globalizzazione dal basso dei diritti, della solidarietà e della democrazia

22/10/2001 -  Anonymous User

Riportiamo qui di seguito un documento dell'Ufficio di Presidenza dell'ICS, che ribadisce il rifiuto della guerra e la condanna di ogni forma di terrorismo e sottolinea l'impegno dell'ICS con i movimenti della societa' civile. I contenuti del documento nascono da riflessioni favorite dai lunghi anni di attività dell'ICS anche e soprattutto nei Balcani. Non a caso uno degli impegni concreti che l'ICS si propone è quello di favorire la costruzione di un network europeo denominato "Europe from below" che confronti e coordini, proprio a partire dall'appello per l'integrazione dei Balcani in Europa- il lavoro di organizzazioni della società civile dell'est e dell'ovest sui temi della cittadinanza, dell'integrazione, della pace facendo della dimensione europea occasione di confronto e di iniziativa sul terreno dei conflitti e dei diritti e del ruolo dell'Europa nel rispetto alle politiche della globalizzazione e alle iniquità nel rapporto con il Sud del mondo.
IL DOCUMENTO

Dopo l'attacco terroristico agli Stati Uniti dell'11 settembre e l'inizio, il 7 ottobre scorso, della guerra contro l'Afganistan l'ICS ribadisce l'importanza di rilanciare l'impegno e l'iniziativa dei movimenti sociali, pacifisti, ambientalisti rafforzatisi ancora di più dopo la mobilitazione di Genova e dopo la marcia Perugia-Assisi del 14 ottobre scorso- per affermare i principi della democrazia, della convivenza, della solidarietà, della pace.
Alle "ragioni della forza" contrapponiamo la "forza della ragione"; alla vendetta e alla rappresaglia, il perseguimento e la punizione dei colpevoli del terrorismo sulla base della giustizia e del diritto internazionale, anche con l'entrata in funzione del Tribunale Penale Internazionale; al predominio delle alleanze militari e di parte il ruolo delle Nazioni Unite nell'opera di prevenzione, di costruzione di un sistema di "sicurezza comune", di mantenimento e di imposizione della pace. Diciamo di no alla guerra, alle rappresaglie, alle vendette; sì alla giustizia, al diritto internazionale, alla pace. Ribadiamo l¹importanza di una grande mobilitazione per fronteggiare l'emergenza umanitaria sofferta da milioni di profughi afgani in fuga dalla guerra e dalle persecuzioni.

E' questo il momento della partecipazione e della mobilitazione civile e sociale, dell'impegno di ciascuno, del lavoro in ogni città per spezzare la spirale incontrollabile di paura e rassegnazione, di impotenza e disincanto. In questi anni nei Balcani anche nelle situazioni più disperate- abbiamo visto che è possibile riannodare i fili e costruire i ponti di solidarietà e di convivenza, di percorrere le strade della pace, del dialogo, della solidarietà. Mai come in questo momento i principi della pace e della nonviolenza sono attuali e impellenti. Contro un mondo che si vuole sempre più dominato dalla forza delle armi e percorso dalla violenza, il nostro compito è di mettere la pace al primo posto delle relazioni internazionali e di fare della nonviolenza il principio fondante della politica e della società.
Ci impegniamo a combattere ogni violenza e tutti i terroristi nemici della pace e dell¹umanità intera- e a contrastare ogni ricorso alla guerra come metodo per risolvere i conflitti: le guerre colpiscono vittime innocenti, causano immani distruzioni, non risolvono i problemi. Sono come i sconvolgenti attentati di New York e Washington- un "crimine contro l¹umanità". Contrastiamo chi vorrebbe trascinarci in uno "scontro tra civiltà" e ribadiamo il nostro impegno per costruire il dialogo e la convivenza multietnica, mettendo al bando ogni forma di razzismo e xenofobia e favorendo il pieno rispetto dei diritti dei cittadini immigrati. Siamo impegnati contro ogni "balcanizzazione" del mondo, contro la proliferazione di confitti "di civiltà", etnici, nazionali e di conflitti "a bassa intensità" che causano sofferenze, perdite di vite umane e ingiustizie.
Con i movimenti della società civile: il contributo dell'ICS
Crediamo che questo patrimonio di considerazioni e valutazioni sia e debba essere il nucleo dei valori fondanti dei movimenti e della straordinaria esperienza di società civile che è emersa con grande forza a Genova e con la marcia per la pace da Perugia ad Assisi. Un movimento dall'ampiezza straordinaria, composto da tante forze e organizzazioni che costituiscono quella "politica diffusa" caratterizzata dal "fare", dall'impegno concreto, dal volontariato, dall'economia sociale, dalla presenza nelle zone del conflitto. Movimento che ha avuto il merito e la capacità di imporre i temi e le contraddizione della globalizzazione, che hanno costretto i media, i governi e persino l'agenda del G8 a "farci i conti" e a prendere atto dalle distorsioni e iniquità che le politiche economiche dei "grandi" hanno creato al pianeta.

L'ICS come ha fatto già attivamente e pienamente nel GSF fino alle manifestazioni di Genova e come ha fatto in questi anni sostenendo l'impegno della Tavola della Pace- intende sostenere il movimento ampio e plurale impegnato contro la guerra e per una globalizzazione della pace, dei diritti, della giustizia nel rispetto del pluralismo democratico e della diversa articolazione delle esperienze, mettendo al primo posto i contenuti e le proposte sui temi che vedono impegnate le organizzazioni presenti nel movimento. E' per questo che l'ICS parteciperà all'incontro del GSF che si terrà a Firenze il prossimo 20 e 21 ottobre e sostiene tutti i gruppi aderenti che a livello locale stanno partecipando alla formazione del social forum nelle città. Inoltre l'ICS intende rinnovare l'impegno nell'esperienza della Tavola per la pace, per costruire le prossime iniziative in discussione.
Il contributo che l'ICS vuole e può portare deriva dall'esperienza maturata nello scorso decennio nei Balcani e in Italia sul terreno dei conflitti e dei diritti di cittadinanza. Esperienza che mette al centro una lettura oltre ogni vecchio paradigma di tipo ideologico- del rapporto tra globalizzazione, conflitti nazionali e diritti di cittadinanza, che evidenzia l'importanza delle dinamiche specifiche (economiche, politiche, culturali) delle "nuove guerre" (ben 85 nello scorso decennio, di cui 79 "nazionali") e della creazione di una nuova "classe" di perseguitati, i profughi, passati in qualche anno da 4 a 50 milioni. Guerre combattute "su" e "contro" i civili: ben oltre il 90% delle vittime delle guerre degli anni '90. Con la consapevolezza che, oltre a "denunciare" i misfatti nelle guerre dei potenti e degli "imperi", bisogna sperimentarsi sulle alternative politiche e le pratiche concrete. Ecco perché da una parte l'impegno per la riforma dell¹ONU (in grado di gestire la prevenzione dei conflitti e dotato finalmente di un sistema di "polizia internazionale") e di un'Europa sociale e dall'altra la messa in pratica di una "solidarietà dal basso" e di "diplomazia popolare" nelle aree del conflitto rimangono i nostri principali punti di riferimento e di azione concreta.

Il contributo che l¹ICS può e vuole dare in questa direzione si articolerà nei prossimi mesi su tre impegni:
a) la promozione di una campagna nazionale aperta, unitaria, pluralista- per i diritti dei cittadini immigrati, contrastando il DDL del governo Berlusconi sull'immigrazione e richiedendo l'approvazione di una legge sul diritto d'asilo (l'Italia è l'unico paese europeo a non averla), garantito dalla nostra Costituzione; il primo incontro è già avvenuto lo scorso venerdì 12 ottobre a Perugia, nell'ambito dell'"Assemblea dell¹ONU dei Popoli";

b) la costruzione di un network europeo, denominato "Europe from below", che confronti e coordini a partire dall'appello per l'integrazione dei Balcani in Europa- il lavoro di organizzazioni della società civile dell'est e dell'ovest sui temi della cittadinanza, dell'integrazione, della pace facendo della dimensione europea il terreno di confronto e di iniziativa sul terreno dei conflitti e dei diritti e del ruolo dell'Europa nel rispetto alle politiche della globalizzazione e alle iniquità nel rapporto con il Sud del mondo; il network è stato presentato nella scorsa Assemblea dell'Onu dei Popoli;
c) la continuazione del lavoro nelle aree di conflitto in particolare nei Balcani e in Medio Oriente- favorendo percorsi di diplomazia popolare e di pace, di soluzione nonviolenta dei conflitti, di solidarietà concreta, sostenendo le forze democratiche e la società civile e partecipando a fine anno all'iniziativa di pace in Palestina, cui stanno lavorando molte organizzazioni pacifiste e di solidarietà italiane.
Per un movimento ampio, democratico e nonviolento
Se questo è il nostro impegno e contributo chiaro, positivo e costruttivo allo sviluppo di questa mobilitazione che ha caratteristiche di movimento differenziate, vogliamo anche portare un contributo alla riflessione per superare i limiti e le contraddizioni che sono presenti. Noi auspichiamo che vengano messi al primo posto i contenuti evitando le derive politiciste che qualche volta hanno attraversato le diverse esperienze. Molte delle esperienze cui facciamo riferimento hanno sedimentato in questi anni saperi, competenze, capacità di proposta e di alternative concrete sul terreno della globalizzazione che nella dinamica attuale- sono state talvolta sacrificate a favore del confronto sulle "forme della mobilitazione", dei dettagli della convocazione delle manifestazioni, della discussione sugli equilibri politici all¹interno delle strutture di coordinamento.

In secondo luogo crediamo che vada sciolta ogni ambiguità proprio sulla questione delle forme della mobilitazione: la nonviolenza è per noi una scelta fondamentale. Se come è stato detto- l'"antiliberismo" è una pregiudiziale, anche la nonviolenza per noi, come per molte organizzazioni pacifiste- lo è. Non vogliamo imporne i contenuti e la "filosofia" a nessuno. Ma la presenza di una concezione, di un linguaggio e di una pratica "muscolare" o "guerreggiata" dalla politica anche sotto forma della cosiddetta autodifesa o anche nella forma della "rappresentazione simbolica" dello scontro- mette in discussione la possibilità di uno sviluppo unitario di un movimento plurale e pacifico. E' possibile un incontro sulla radicalità dei contenuti; è impossibile sulle forme violenti o muscolari (anche nei linguaggi) della mobilitazione.
Per ultimo su alcuni singoli punti importanti di merito- della mobilitazione del movimento, vogliamo ribadire (oltre ad una non adeguata valutazione dell'importanza della vicenda migrazioni dentro la globalizzazione) la necessità di un diverso approccio sui temi della pace e della guerra, oggi quanto mai attuali e, però, nei mesi passati alquanto in ombra nel movimento di Porto Alegre e di Genova. Anche la recente mobilitazione di Napoli in occasione del (mancato) vertice della NATO ha messo in evidenza ombre e deficit politico-culturali. La denuncia delle responsabilità della NATO, degli imperialismi, della globalizzazione neoliberista non può dimenticare il tema delle alternative politiche per prevenire e fermare i conflitti e per far rispettare i diritti umani (cioè il ruolo di un'ONU riformata e di un'Europa "oltre i muri"), dell'importanza del disarmo, delle pratiche concrete che i pacifisti mettono in campo nel corso dei conflitti (la solidarietà, l'interposizione, la diplomazia, la costruzione di ponti di dialogo, il sostegno alle forze democratiche), ecc. Sempre di più dopo l'11 settembre e dopo la guerra contro l'Afganistan- il binomio "pace-guerra" sarà una chiave di lettura delle contraddizioni della globalizzazione. Ad un approccio sloganistico o ideologico (o puramente di denuncia) bisogna saper proporre i contenuti, le alternative, concrete, le pratiche di una "politica di pace" efficace e sostenibile.

E' per questo che anche a partire dall'esperienza dell'assemblea del 23 settembre a Napoli, incontro promosso dalle organizzazioni pacifiste e soprattutto dopo la marcia Perugia Assisi- auspichiamo che le organizzazioni pacifiste e della solidarietà internazionale possano avviare un proprio percorso di discussione e di proposta che sul terreno dei contenuti e delle forme di mobilitazione- possa dare un contributo allo sviluppo di un movimento plurale, ampio e democratico.
Ufficio di Presidenza dell'ICS

Perugia, 13 ottobre 2001

Istria: tra Croazia ed Europa

08/10/2001 -  Anonymous User

La regione istriana rappresenta fin dall'inizio della storia della neonata Repubblica Croata, un caso politico, sociale e culturale molto particolare.

L'appello nelle mani di Prodi

06/10/2001 -  Anonymous User

Venerdì 5 ottobre 2001 a Trento è stato consegnato nelle mani di Romano Prodi, Presidente della Commissione Europea, l'appello "L'Europa oltre i confini", per un'integrazione certa e sostenibile dei Balcani nell'Unione Europea

Veltroni sull'integrazione dei Balcani in Europa

04/10/2001 -  Anonymous User walter, veltroni, mio, tuo, suo, europa

L'integrazione europea vista dalla Croazia

03/10/2001 -  Anonymous User

Il quadro delle controversie riguardanti la problematica dell'integrazione dei Balcani (o del Sud-est Europa) è determinata dal Patto di Stabilità e accessione. Il termine "accessione" indica l'adesione dei paesi coinvolti dal Patto (quindici paesi dell'Europa centrale, orientale e sud-orientale) all'Unione Europea (ma si riferisce anche all'integrazione strategico-militare nelle strutture della NATO).
L'intento essenziale del Patto consiste nell'adattamento giuridico (a più livelli: protezione dei diritti umani ma anche della proprieta' privata), economico (in primo luogo, apertura verso il libero mercato in senso neoliberista), militare, politico e sociale, da parte dei paesi coinvolti, ai criteri dell'Unione Europea. La stabilita' nella regione sottintende la normalizzazione nei rapporti tra gli stati membri del Patto, includendo in modo particolare anche i paesi che durante gli anni Novanta guerreggiavano tra loro. Tale normalizzazione avverrebbe mediante una serie di accordi e cooperazioni bilaterali e multilaterali regionali tra i paesi, in ogni campo della vita politica e sociale.
Il rispetto degli obblighi derivanti dall'appartenenza al Patto rappresenta per i paesi dei Balcani occidentali (paesi dell'ex-Jugoslavia piu' Albania, esclusa la Slovenia) un presupposto necessario per sperare in una futura integrazione europea. Ne deriva una secca alternativa: o accettano la cooperazione con i paesi vicini (anche coloro con i quali hanno avuto scontri violenti e armati) o sono esclusi dall'ambito dell'integrazione europea ed euroatlantica.
Il problema è che nessuno tra essi si vuole identificare come appartenente alla regione balcanica (salvo due eccezioni: Serbia/Montenegro - sebbene i montenegrini indipendentisti definiscono volentieri il Montenegro come un paese mediterraneo - e Macedonia). Gli albanesi del Kosovo, ad esempio, ripetono con insistenza che il Kosovo non appartiene ai Balcani, ma all'Europa. Altri dicono che il Kosovo - o anche l'Albania - è qualcosa di unico e non riducibile a determinazioni geopolitiche. In Croazia domina un sentimento condiviso: la Croazia è un paese mitteleuropeo o mitteleuropeo-mediterraneo, e i Balcani sono oltre la Drina (il fiume che divide la Bosnia dalla Serbia) o finiscono sul confine croato-bosniaco. Una ricerca recentissima dimostra che la maggioranza della popolazione croata rifiuta i popoli viventi ai confini orientali del paese (non soltanto Serbi, ma anche Albanesi, Macedoni, Bulgari...). Se non si tratta (piu') di odio, si tratta senz'altro di sentimenti negativi, collegati spesso a pregiudizi, secondo cui i popoli balcanici sarebbero costituiti da persone pigre, disoneste, sudice... Nonostante il fatto che la popolazione croata non rappresenti un'eccezione riguardo alle emozioni e agli stereotipi negativi nei confronti dei Balcani, sarebbe possibile concludere che essa e' un campione in questo campo.
Ma i sentimenti sono una cosa e gli interessi reali un'altra. Così, la destra radicale, nel novembre dell'anno scorso, è riuscita a raccogliere non piu' di seicento persone per protestare, secondo lo slogan: "no all'integrazione balcanica", contro un convegno del Patto, tenutosi a Zagabria (e al quale partecipava anche il presidente jugoslavo neo-eletto Vojislav Kostunica, che alla vigilia del convegno ha rifiutato di scusarsi per il comportamento del suo Paese durante la guerra).
La marginalita' della contestazione pubblica non significa però che non ci siano controversie molto acute attorno alle modalita' e agli scopi dell'integrazione.
Il problema principale è l'antitesi tra coloro che, da una parte, cercano l'integrazione nel contesto d'una emancipazione dall'etnocentrismo dominante negli anni Novanta e coloro che, dall'altra, approvano l'integrazione come una neccessita' imposta (questi ultimi naturalmente vogliono ridurre al minimo l'intensita' e la profondita' dell'integrazione e concentrarla sul piano economico e commerciale). La posizione "emancipatoria" potrebbe essere rappresentata dall'attuale Presidente della Repubblica Stipe Mesic. Ultimo presidente della Federazione Socialista Jugoslava e uno dei dirigenti principali del governo tudjmaniano (finchè nel 1994 non e' diventato "traditore nazionale", cioe' uno dei critici piu' duri della politica etnocentrista del governo e gia' nel 1995 testimone volontario davanti al Tribunale dell'Aja), nel 1994 ha dichiarato nel discorso alla Conferenza socialdemocratica regionale a Zagabria (a cui parteciparono, tra gli altri, anche i partiti divenuti ora elementi delle coalizioni governative in cinque stati ex-jugoslavi): "la Jugoslavia non può soppravivere perchè Milosevic non vuole nient'altro che la Grande Serbia e Tudjman risponde con un progetto di Grande Croazia. Ma e' un peccato che, per questo, la Federazione Jugoslava non sia in grado di ristrutturarsi democraticamente e di diventare un elemento della federazione europea futura". Mesic, come Capo del Stato, propone ora l'integrazione, senza dimenticare che è impossibile ricostituire ciò che e' stato separato in modo sanguinoso e tramite enormi crudelta'. Il presupposto necessario per una normalizzazione regionale e per la costruzione d'un buon vicinato con diverse forme di mutua cooperazione è doppio: da un lato e' necessario identificare e individuare la responsabilita' per i crimini di guerra e processare i colpevoli; dall'altro, sarebbe necessario scusarsi per quello che e' avvenuto durante gli anni Novanta (come ha dichiararato l'anno scorso nell'intervista alla radio indipendente Novi Sad 21 "sarebbe ottima cosa che tutti chiedessero scusa a tutti, perchè ogni parte ha un certo livello di responsabilita'"). Mesic personalmente ha chiesto perdono, l'anno scorso a Sarajevo, per i crimini commessi in Bosnia ed Erzegovina da parte croata. La scusa da parte montenegrina e' arrivata a Dubrovnik da parte del presidente Milo Djukanovic. Una semi-scusa da parte serba c'è stata quest'anno a Zagabria da parte del Ministro degli Esteri jugoslavo Goran Svilanovic (presidente di un partito partecipante alla gia' menzionata conferenza dal 1994).
Dunque, una risposta nel complesso affermativa alla normalizzazione e alla cooperazione universale che integri la regione in senso economico e umano, ma non in senso politico. Questo non significa che non ci siano i nostalgici jugoslavi. Ma anche questi ultimi hanno capito che l'integrazione politica non è - forse, oggi - realmente possibile. Tra essi lo scrittore Slobodan Snajder (nel periodo tudjmaniano praticamente in esilio in Germania, ora direttore del Teatro alternativo a Zagabria), che, quest'anno, durante una conferenza a Kragujevac (Serbia), ha detto che sebbene la Jugoslavia rimanga uno spazio culturale unitario, e lui si senta uno scrittore jugoslavo, non sarebbe realistico oggi pensare a ricostruire un stato comune.
D'altro canto, i rappresentanti dell'integrazione meramente economica e commerciale nascondono sotto il tappeto la storia recente, senza sentirsi colpevoli e senza insistere (per ragioni pragmatiche) sulla responsabilita' degli ex-nemici. Questa posizione è rappresentata in Croazia specialmente da alcuni uomini d'affari provenienti dall'HDZ, appartenenti all'ala "tecnocratica" del partito. Tra loro, Andjelko Herjavec, Presidente dell'industria confezionaria "Varteks" (ex-deputato parlamentare dell'HDZ e gia' Presidente della Federazione calcio croata, scomparso quest'estate in un incidente d'auto), ha guidato con successo un'attività commerciale a Belgrado. Altro nome noto e' il Presidente della Camera commerciale croata Nadan Vidosevic (gia' ministro tudjmaniano dell'economia e del commercio), che ha avuto successi di rilievo nel campo della ricostruzione, dello scambio commerciale e della cooperazione industriale. Costoro non discutono del passato: in questione sono soltanto gli interessi delle economie concorrenti nei mercati balcanici, orientati ad una mutua cooperazione per sopravvivere.
Proprio da questa posizione arrivano alcuni ostacoli ad un'integrazione che vada oltre il livello commerciale e significhi apertura dei confini.
La posizione pragmatica (o "tecnocratica"), in passato politicamente collegata ai rappresentanti del commercio illegale interetnico e interstatale (e si deve sapere che durante la guerra c'era un scambio commerciale tra tutte le parti belligeranti, ad esempio scambio di petrolio per munizioni tra Croati e Serbi, specialmente in Bosnia) ha perso i suoi partner naturali (forze politiche e finanziarie definite dagli ex-poteri nazionalisti). Così, se da una parte procede con gli accordi commerciali, allo stesso tempo produce (o cerca di produrre) diversi ostacoli per una piu' profonda cooperazione. Questo vale specialmente per la parte croata. Su questa posizione si attestano anche molti dipendenti dei livelli bassi dell'apparato statale. Questi ultimi creano complicazioni burocratiche, ad esempio a livello consolare, riguardo alla cooperazione culturale, sociale, e così via.
La seconda fonte di ostacolo è negli ambienti governativi. Come e' noto, le coalizioni governative sono molto eterogenee (questo vale in primo luogo per le composizioni dei governi croato e serbo), includono elementi di matrice nazionalista e non si possono definire emancipate dal etnocentrismo (ad esempio, l'HSLS in Croazia, o l'DSS in Serbia). A parole, tutti si proclamano a favore della cooperazione e dell'integrazione. Ma nella pratica alcuni funzionari cercano di rallentare il ritmo dell'integrazione: fare soltanto ciò che e' necessario per soddisfare le domande delle potenze internazionali e ciò che è utile dal punto di vista pragmatico è la loro prassi. Questa ritrosia alla realizzazione dell'integrazione prevista dal Patto, è stata per il Presidente Mesic una spinta per la critica durissima rivolta all'amministrazione croata (ma senza nominare le istituzioni e le personalita' che ritiene come responsabili) durante la visita del 1 settembre a Gradacac, in occasione dell'incontro con i membri della Presidenza bosniaca Beriz Belkic e Zivko Radisic: "la cooperazione bilaterale croato-bosniaca si potrebbe definire parzialmente soddisfacente, ma una parte delle strutture amministrative non ha fatto quasi niente per realizzare gli impegni provenienti dagli accordi stabiliti sulla base del Patto, in direzione dell'integrazione europea". Secondo Mesic, di questo sono responsabili anche le strutture bosniache.
Si potrebbe concludere che ostacoli all'integrazione si trovano ovunque, non soltanto in Croazia o in Bosnia. Da parte croata non c'e un entusiasmo per l'integrazione. Se questo significasse integrazione diretta nelle strutture economiche e politiche dell'Europa occidentale, la maggioranza dei Croati lo farebbe con grande gioia. Ma resta la neccessita' di rendersi conto che prima di tutto va presa in considerazione l'integrazione con i vicini d'Oriente. La minoranza che vuole la piena normalizzazione e l'integrazione piu' profonda resta a margine dell'opinione pubblica, così come, d'altra parte, la minoranza di destra radicale, contraria a ogni tipo di integrazione sovranazionale.

L'integrazione europea vista dalla Serbia

01/10/2001 -  Anonymous User

Though, in principle, the decision to the dilemma seems quite obvious, since staying out of where all the rest are heading is equal to political suicide and economic disaster, there are still dissenting voices in the country. The recent open clash with most western governments over Kosovo has made some of the population additionally xenophobic. One cannot expect majority of people to get too inspired with the idea of democracy and values common to major western powers (most of which are European) after experiencing cruise missiles and smart bombs as heralds of the very democracy. In view of that fact, an average Serb can be even described as pretty tolerant: here one should remember the words of the American ambassador to Belgrade, Mr. William Montgomery, who recently stated he never actually believed an American would be able to freely walk in the streets of Belgrade so soon after the bombings ended. Since Americans top the list of villains in the eyes of the common folk, then Europeans are in a still better situation. No European, even a German, traditionally (and sometimes unfairly) seen as a long-time enemy of the Serbs, has had any particular problems with the citizens of Serbia, even those most radical ones.

Opinion Polls

Asked whether they believe integrating into Europe would be the best solution for the country, a majority of those taking part in the polls have said yes (the figures reached 91% according to the Markplan marketing agency). However, when asked which country Serbia should turn to as a long-term ally, dissenting voices could be heard. Most elderly people and former regime supporters would pin point Russia, although historians often remind the population here that Russia's affinity to Serbia has long been just a tempting myth of Slavic unity and that this country has never actually sided with Serbs when it was needed most. Out of the EU countries, France is often described as "the biggest disappointment" due to its very active support of the hardline policy against Serbia in the years behind us. As already mentioned, Germany is traditionally seen as an "occupational" force, and its recent active role in support of Slovenia's and then Croatia's independence is also often pointed out. However, some (a minority) believe cooperation with Germany has always been historically productive, and there is a number of intellectuals and, especially businessmen, led by prime minister Djindjic, who have been working on close ties with this country. Italy is seen as much more tolerant of Serbian mischiefs in the previous years, but it is also not considered very influential in key decision making. Finally, smaller EU countries, such as Greece or Portugal are perceived by the population as very friendly, but with no influence whatsoever on major issues in the EU. As for the 'Balkanite integrations', that is the idea that there should be a 'Balkan union' first which would then collectively be integrated into EU one day, most Serbs are skeptical. Apart from the elderly again, who incorrectly view this as a revival of the idea of the former Yugoslavia, most people are wary. Although the common answer on the street is that "no Croat or Slovene would ever agree to any kind of reunion" it seems that this is only a pretext which hides the Serbs' equal reluctance to reunite, even only economically. Economic interests are, however, dominant and there have been numerous visits by businessmen from the neighbouring countries (Croatia included) and initial contacts have been made so far in order to make Balkans a "customs free zone". Not much, but, knowing the situation, a good start.

Parties' Opinions

When asked when they believe Serbia (or Yugoslavia if it remains united) would enter the EU the answers in a last year's poll ranged from optimistic (5-7 years, around 20% of the subjects), through reasonable (about 10 years, 47%) to pessimistic (at least 20 years or more, 33%). Since this research is a bit outdated, it would be fair to connect today's support of the parties and coalitions on the Serbian political scene with the voters' view of European integrations. Socialist Party of the former president Milosevic is said to be supported by around 10% of the voters today. Alongside this party, today's opposition also comprises the hardline Serbian Radicals and the uninfluential Yugoslav Left. Together, they are supported by 16% of the population, most of whom share their well-known views of Serbian foreign policy, described as "cooperation - yes, surrender - no", which implies the notorious North-Korea-like fear of world conspiracy, stern anti-Americanism and the appeal for sovereignty in the 19th century sense of the term.
The results of such a policy are well known, so, luckily, most Serbian voters today see the future of their country in Europe, rather than in Russia, China or India. Among these, around 30% support Democratic Party of Serbia of president Kostunica. This party is seen as moderately nationalistic, and it seems this attitude is still dominant in most Serbs. Its foreign policy program reads "... Serbia must fight for its national and state interests with no confrontation with the world, but without accepting unnecessary concessions which would hinder its national and state interests..." This could be seen as a rigid view, although not hardline - at least open confrontation is to be avoided. But, since DSS's program defines Serbia as a national state, too obvious inclination towards the EU is not to be found in their policy. Democratic party of prime minister Djindjic and its allies in the ruling DOS coalition are today supported by around 15% of the voters (although their real influence in the country is crucial, which is the source of wrangles in DOS every now and then). They are clearly in favour of a new Serbia within the EU: "... The Democratic Party sees the future of the Serbian people and all the citizens of our country only in the European integrations...", its program says. By this they mean economic integration primarily, and this is what younger and more educated Serbian voters favour. Finally, within DOS coalition there are even more radical supporters of this tendency, lead by the Movement for Democratic Serbia, whose president is a former Yugoslav Army general, who believe Serbia should enter Partnership for Peace as soon as possible (incidentally, the Federal Government last days decided to consider applying for this program). In addition, the New Democracy party, a centrist one lead by police minister Dusan Mihajlovic has more than once insisted that Serbia should enter NATO outright - the sooner the better. But this kind of hurry is not seen as either commendable (having in mind the most recent history) or rational (knowing that any country cannot enter NATO just because it wants to right away).

NGOs' Opinions

NGOs in Serbia work on the idea of European integrations as well. Although projects directly aimed at launching Serbia into the EU very soon are practically nonexistent, it would be fair to notice that, in a more general way, the long term goal of all NGO activities in the country today is to make Serbian civil institutions live up to the European standards, and therefore, make the country capable of joining the integrations in the near future. Solving refugee problems, integrating them into the new environment, working on human rights issues (including ethnic minorities, but also women, children, the disabled etc.), organizing schools for democracy and workshops cherishing tolerance - all these activities help the country develop standards long respected in the democratic world.
There are some programs, however, which can more directly be seen as aiming at the integration process. The Committee for Civic Initiative in Nis, an NGO gathering University professors and assistants in humanistic sciences, has launched a couple of projects in this direction. The approach is by definition piecemeal. The program School for Democracy, organized in cooperation with Fund for Open Society, consisted of a series of 52 lectures whose purpose was to introduce basic concepts of a democratic society to the population. 'Politics from A to Z' was a project whose aim was to give basic training to young political party members from the local boards. They were taught dialogue conducting, rhetoric, basic logic and specialized English. A similar project is pending in which young journalists from numerous local TV and radio stations should be trained in the view of changing conditions in society. Modern politicians and journalists are perhaps a key to a near future in which public activities will be conducted in the democratic spirit, and in accordance with the principles and values of the European Union.
However, the most important project currently planned is the School of Social Sciences, where in cooperation with the Faculty of Philosophy in Nis a specific kind of studies, primarily aimed at social science postgraduates, would be introduced. It would comprise compulsory courses in societies in transition (privatisation, reform, political parties, trade unions, civic society, social policy) and multiculturalism (culture, multiculturalism, interculturalism, models of cultural policy in the CEE countries) and some optional courses in the realm of human rights. The idea is that the serious education of young people in the area of values mostly cherished in Europe today would in the long run help the entire country live up to the standards imposed by the EU and thus be accepted one day as a full-fledged member of the European community of nations. This project is still in need of funders.
It seems, finally, that the tendency to develop Serbia in such a way as to make it closer to the European integrations is obvious. It also seems there is a general agreement in the population that this is necessary. However, how this will be done, and how much time and hard work it will take, is still not quite clear.

L'integrazione europea vista dalla Bosnia Erzegovina

01/10/2001 -  Anonymous User

Tra gli eurocrati di Bruxelles c'è una lobby che crede sia meglio per l'Europa favorire l'integrazione dei Balcani, anziché ghettizzarli ai propri margini. E' vero che il Patto di Stabilità non ha ancora fatto granché, ma è incoraggiante già solo il fatto che l'Europa inizi ad occuparsi di questo problema. In Bosnia Erzegovina il pensiero più diffuso riguardo all'integrazione è che sarà un percorso molto lungo e molto lento, e che i paesi balcanici entreranno in Europa come paesi singoli anziché tutti insieme su base regionale. Così la pensa ad esempio Maria Todorovna, nota sociologa bulgara, in un'intervista
rilasciata il 10 agosto scorso a Slobodna Bosna.

Ma la gente comune si augura che non sia proprio così, cioè che la strada per l'Europa sia meno lunga e che si riesca ad entrarci assieme, o per lo meno prima della (attuale) Jugoslavia e non dopo la Croazia. La nuova/vecchia competizione prosegue...

Il Consiglio d'Europa, almeno...

Proprio in questi giorni doveva giungere la risposta alla richiesta della Bosnia di entrare nel Consiglio d'Europa. Ma la persona incaricata di scrivere il rapporto sulle condizioni del paese per l'entrata nel Consiglio d'Europa, Laslo Surjan, non ha potuto partecipare alla riunione del 3 e 4 settembre a Tbilisi. Il suo rapporto perciò è pronto, ma non è ancora stato presentato ai membri
della 'giuria' e sembra addirittura che la decisione definitiva si possa avere solo nel gennaio del 2002. Nel frattempo, tutti i tre presidenti della Bosnia, il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Presidenti dei Parlamenti faranno una dichiarazione scritta, nella quale si assumeranno la responsabilità di garantire tutte le condizioni imposte dal Consiglio d'Europa.

A questo proposito sembra che un passaggio molto importante sia stato compiuto pochi giorni fa. Dopo vari tentativi, infatti, il Parlamento ha approvato una nuova legge elettorale, condizione essenziale per potersi candidare al Consiglio d'Europa. Certo, non tutti sono rimasti soddisfatti, alla fine ha vinto il compromesso, ma quello che conta è soprattutto il risultato: l'approvazione della legge elettorale. Questo, per quanto riguarda le istituzioni politiche e il loro impegno.

Cosa ne pensa la gente?

Ma la gente in Bosnia, cosa pensa dell'integrazione? Si interessa soprattutto dei risvolti pratici e
non vede l'ora che cadano le tante barriere ancora esistenti. "Quello che ci disturba sempre di più - dicono i cittadini bosniaci - sono i visti. E' una umiliazione: devi andare a fare la fila per 200 metri, aspettare giorni e giorni, e poi chi sa se te lo danno, il visto. Prima, nel periodo di Tito potevamo viaggiare in tutta l'Europa senza il visto. Oggi ci sentiamo così piccoli!". E poi c'è la rabbia perché, ad esempio, con il passaporto croato si può entrare nei paesi Schengen senza visto, mente con quello bosniaco serve il visto.

La difficoltà di muoversi crea molti altri problemi, anche economici. Gli imprenditori di tutti i paesi entrano in Bosnia Erzegovina senza problemi, mentre un imprenditore bosniaco fatica ad uscire dal paese per realizzare i suoi affari. In questi ultimi mesi, poi, la situazione è peggiorata. I pochi consolati (come quello italiano) che, ancora un paio di mesi fa, non erano così rigorosi, ora lo sono
diventati. "Ti chiedono l'impossibile" si lamentano i cittadini.

Certo, la gente pensa alle cose pratiche. E per questo ci vuole l'Europa: per non essere allo sbando, per non sentirsi isolati. I paesi ex jugoslavi sono stati devastati dalla guerra ed hanno un'economia a terra. Oggi per la gente di qui Europa significa soprattutto benessere, prospettiva, vita normale. E' quello che manca. Ma il viaggio verso l'Europa per i Bosniaci è ancora molto lungo. E non dimenticate il visto, vi prego!

L'integrazione europea vista dalla Bosnia Erzegovina

01/10/2001 -  Anonymous User

Tra gli eurocrati di Bruxelles c'è una lobby che crede sia meglio per l'Europa favorire l'integrazione dei Balcani, anziché ghettizzarli ai propri margini. E' vero che il Patto di Stabilità non ha ancora fatto granché, ma è incoraggiante già solo il fatto che l'Europa inizi ad occuparsi di questo problema. In Bosnia Erzegovina il pensiero più diffuso riguardo all'integrazione è che sarà un percorso molto lungo e molto lento, e che i paesi balcanici entreranno in Europa come paesi singoli anziché tutti insieme su base regionale. Così la pensa ad esempio Maria Todorovna, nota sociologa bulgara, in un'intervista
rilasciata il 10 agosto scorso a Slobodna Bosna.

Ma la gente comune si augura che non sia proprio così, cioè che la strada per l'Europa sia meno lunga e che si riesca ad entrarci assieme, o per lo meno prima della (attuale) Jugoslavia e non dopo la Croazia. La nuova/vecchia competizione prosegue...

Il Consiglio d'Europa, almeno...

Proprio in questi giorni doveva giungere la risposta alla richiesta della Bosnia di entrare nel Consiglio d'Europa. Ma la persona incaricata di scrivere il rapporto sulle condizioni del paese per l'entrata nel Consiglio d'Europa, Laslo Surjan, non ha potuto partecipare alla riunione del 3 e 4 settembre a Tbilisi. Il suo rapporto perciò è pronto, ma non è ancora stato presentato ai membri
della 'giuria' e sembra addirittura che la decisione definitiva si possa avere solo nel gennaio del 2002. Nel frattempo, tutti i tre presidenti della Bosnia, il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Presidenti dei Parlamenti faranno una dichiarazione scritta, nella quale si assumeranno la responsabilità di garantire tutte le condizioni imposte dal Consiglio d'Europa.

A questo proposito sembra che un passaggio molto importante sia stato compiuto pochi giorni fa. Dopo vari tentativi, infatti, il Parlamento ha approvato una nuova legge elettorale, condizione essenziale per potersi candidare al Consiglio d'Europa. Certo, non tutti sono rimasti soddisfatti, alla fine ha vinto il compromesso, ma quello che conta è soprattutto il risultato: l'approvazione della legge elettorale. Questo, per quanto riguarda le istituzioni politiche e il loro impegno.

Cosa ne pensa la gente?

Ma la gente in Bosnia, cosa pensa dell'integrazione? Si interessa soprattutto dei risvolti pratici e
non vede l'ora che cadano le tante barriere ancora esistenti. "Quello che ci disturba sempre di più - dicono i cittadini bosniaci - sono i visti. E' una umiliazione: devi andare a fare la fila per 200 metri, aspettare giorni e giorni, e poi chi sa se te lo danno, il visto. Prima, nel periodo di Tito potevamo viaggiare in tutta l'Europa senza il visto. Oggi ci sentiamo così piccoli!". E poi c'è la rabbia perché, ad esempio, con il passaporto croato si può entrare nei paesi Schengen senza visto, mente con quello bosniaco serve il visto.

La difficoltà di muoversi crea molti altri problemi, anche economici. Gli imprenditori di tutti i paesi entrano in Bosnia Erzegovina senza problemi, mentre un imprenditore bosniaco fatica ad uscire dal paese per realizzare i suoi affari. In questi ultimi mesi, poi, la situazione è peggiorata. I pochi consolati (come quello italiano) che, ancora un paio di mesi fa, non erano così rigorosi, ora lo sono
diventati. "Ti chiedono l'impossibile" si lamentano i cittadini.

Certo, la gente pensa alle cose pratiche. E per questo ci vuole l'Europa: per non essere allo sbando, per non sentirsi isolati. I paesi ex jugoslavi sono stati devastati dalla guerra ed hanno un'economia a terra. Oggi per la gente di qui Europa significa soprattutto benessere, prospettiva, vita normale. E' quello che manca. Ma il viaggio verso l'Europa per i Bosniaci è ancora molto lungo. E non dimenticate il visto, vi prego!

Balcani: un altro 'sviluppo' è possibile

01/10/2001 -  Anonymous User

1991: inizia la disgregazione jugoslava e si creano nuovi stati nei Balcani. 1995, Accordi Dayton: si fermano le guerre e inizia la cosiddetta "ricostruzione". 1997, Operazione Alba: anche in Albania, dopo la crisi delle finanziarie e l'uscita di scena del vecchio governo, dovrebbe iniziare un nuovo corso istituzionale. Oggi, 2001, cosa esiste di Stato nei Balcani? E di conseguenza, che sviluppo economico si può immaginare?
Il semplice riferirsi ai dati statistici esistenti offre un'immagine assolutamente deformata del contesto economico del sud-est Europa. Questo sia per effetto dell'incidenza degli aiuti internazionali sull'andamento del PIL - indice che peraltro già di per sé induce ad antichi errori - sia perché tali statistiche molto spesso indicano una verità astratta. Valga per tutti l'esempio dei dati sull'occupazione, che ancora considerano i dipendenti dei grandi combinat statali in agonia già da prima delle guerre. Sfugge perciò ad un approccio superficiale la situazione di grave crisi fiscale in cui versano tutti gli stati dell'area balcanica.
Queste piccole entità nazionali, uscite da un decennio di devastanti conflitti, sono oggi in condizioni di vera e propria paralisi: mancano entrate tributarie stabili, perché non c'è lavoro regolare e l'economia esistente è in gran parte informale o addirittura criminale. Gli unici introiti significativi vengono dalle risorse non ancora privatizzate - molto spesso a scapito dei già precari equilibri ambientali - o dai programmi di aiuto internazionali, delineando così una condizione di dipendenza che rischia di divenire strutturale. È così che pensioni e stipendi pubblici, già di per sé esigui, si ricevono con grave ritardo o non vengono pagati affatto, com'è successo recentemente per gli insegnanti della Bosnia Erzegovina, portando alla chiusura delle scuole per due mesi. Anche gli ospedali riescono a gestire quasi solo le emergenze, i servizi pubblici sono al collasso, le istituzioni di assistenza sociale si trovano abbandonate a se stesse e alla disperata ricerca di qualche donatore.
Tutto ciò crea una fortissima frustrazione, specie in relazione alle aspettative di cambiamento positivo sorte con la fine delle guerre. Addirittura si è raggiunto il paradosso - purtroppo già visto nelle transizioni dell'est europeo - che alla fine dei regimi corrisponde un peggioramento generalizzato delle condizioni di vita per le componenti sociali estranee ai business. Una situazione che si riverbera anche sulle amministrazioni locali, rendendo ancora più problematico il rapporto fra cittadini e pubblica amministrazione.
È invece necessario ricostruire un rapporto virtuoso fra cittadini e pubblica amministrazione, fra cittadini e comunità, fra cittadini e territorio, per sfuggire all'assistenzialismo umanitario tanto quanto alle chimere degli investimenti occidentali di rapina. Si tratta di una questione vitale, che investe il rapporto fra aiuti internazionali, risorse locali e approcci culturali.
Il problema è che da quest'altra parte dell'Europa, quella ricca e politicamente definitasi con autosufficienza Unione Europea, si continua a non riflettere sulle tragedie degli anni '90 e a pensare ai paesi balcanici solo come terreno di incursione. Si persevera così nella ricerca -ormai fuori del tempo, ma ancora foriera di effetti disastrosi - di proprie aree di influenza nazionale, senza traccia alcuna di un approccio d'area. Oppure si interviene con una logica puramente emergenziale, per poi affidarsi nella ricostruzione al presunto potere taumaturgico dell'economia di mercato e della sua capacità di autoregolamentazione.
L'assenza di una strategia di fondo delle istituzioni internazionali, di un loro progetto complessivo per l'area che fosse scevro da intenzioni miopi, ha lasciato così mano libera alle forme più perverse dell'economia finanziarizzata. Esse hanno potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenza della derogazione estrema, cosi come nel traffico d'armi, nel riciclaggio, nel traffiking, nel mercato della droga e in quello dei rifiuti.
Per ribaltare questa deriva politico-culturale occorre invece un'idea alta, che riempia il vuoto progettuale della diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche di molta parte del mondo non governativo. Quest'idea può essere l'Europa, ossia l'immagine di come si possono superare e sciogliere gli angusti spazi mono-nazionali in un progetto più ampio e non solo balcanico. Ma per garantire al modello istituzionale un futuro economico e sociale occorre avviare un novo itinerario di ricostruzione economica , sociale, ambientale e democratica di questa parte tanto importante del vecchio continente. Un itinerario che si incardini su due concetti di fondo: l'opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, e l'autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identità sociale. Sviluppo locale e autogoverno da non vedere come romantica illusione di uno sviluppo alternativo dolce rispetto al modello occidentale, ma come unica via d'uscita a quell'implosione della statualità di cui si è parlato sopra.
In particolare è necessario ripensare il modello di sviluppo economico di queste aree: quando si propone l'economia di mercato in realtà si continua a guardare al vecchio apparato produttivo pre-bellico. Ma è un modello non più riconvertibile, fortemente centralizzato e piramidale, malato di gigantismo, privo di qualsiasi sensibilità ambientale e modellato su un mercato, quello dell'allora Jugoslavia, che non esiste più.
Riproponendolo si rischia di imboccare una strada priva di prospettive, e funzionale solo all'investimento mordi e fuggi oppure al rilancio dei vecchi apparati di controllo delle grandi aziende di stato.
Le particolari ed inedite condizioni di transizione post comunista e post bellica nelle quali si trovano i paesi dell'area balcanica richiedono invece risposte altrettanto originali. Bisogna far leva sulle potenzialità materiali ed ambientali del territorio ed attivare le risorse umane, che pure esistono, data l'alta scolarità diffusa e per molti l'esperienza formativa all'estero. Si può invertire forse in questo modo il clima esistente di diffusa deresponsabilizzazione individuale e collettiva, principale retaggio culturale del passato. Per far ciò bisogna immaginare un percorso economico fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze locali, alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali, disegnando uno sviluppo integrato del territorio su cui far convergere le risorse residue e gli aiuti internazionali. Un disegno fondato da un lato sulle professioni della qualità, ad alta intensità umana e creativa e dall'altro sul settore primario, con progetti partecipati in agricoltura, zootecnia, indotto dei servizi, dell'artigianato e dell'industria di trasformazione, ma anche turismo rurale e termalismo. Al servizio di ciò va costruito un sistema di micro-finanza locale, che dia accesso al credito anche a chi non si è arricchito dai profitti di guerra.
Questo approccio ha come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di contare sulle proprie forze (risorse naturali, umane, finanziarie, organizzative); di prendere come punto
di partenza la logica dei bisogni (salute, istruzione, trasporti, infrastrutture collettive, ecc.); di dedicarsi a promuovere la simbiosi tra le società umane e la natura; di restare aperto al cambiamento istituzionale.
Un altro sviluppo è dunque possibile. Richiede da un lato un contenitore ampio e partecipato, come dovrebbe essere un'Europa allargata fatta dai territori e dalle comunità anziché dai governi e dalle banche. E dall'altro un sistema economico che parta dal locale, e dal positivo che ancora vi si trova. E' una sfida grande che ci riguarda, che riguarda l'insieme dell'Europa, la nostra e quella al di là del mare.

di Michele Nardelli

Transizioni post-coloniali e post-socialiste. I Balcani e le integrazioni

01/10/2001 -  Anonymous User

Sunto dell'intervento alla Conferenza "Di-Segnare l'Europa. I Balcani tra integrazione e disintegrazione", Padova 5 maggio 2001.

"Transizione" è una parola che è tornata in uso dopo la caduta del Muro di Berlino, per caratterizzare la cosiddetta transizione post-comunista. Prima di ciò il termine era stato usato per descrivere le transizioni dalla dittatura alla democrazia. Tale parola risulta comunque non ben definita, e di solito ha in sé una certa dose di trionfalismo per la restaurazione del capitalismo occidentale.
Vorrei parlare più dell'integrazione europea all'interno del contesto della globalizzazione, che della sola transizione post-comunista che è veramente un¹espressione limitativa per varie ragioni. Lo è non solo perché il Muro è caduto da entrambe le parti e non solamente da una, ma anche perché la dicotomia della guerra fredda Est-Ovest, Capitalismo-Comunismo, ha ricevuto un colpo e non si può dire che il Comunismo sia fallito da solo: si è rotto l¹intero equilibrio di vasi comunicanti. Il termine ³¹transizione² è limitativo anche perché l¹integrazione dell¹Europa deve essere vista nel quadro più grande della globalizzazione nel suo insieme, sia quella di Davos, sia quella di Porto Algre nel 2001.

Il mio lavoro sul post-colonialismo in alcuni paesi, sulla divisione del subcontinente indiano e sulle divisioni comprate, mi ha convinto che le transizioni post-coloniali assomigliano alle transizioni post-comuniste, o comunque che le difficoltà di sviluppo del Terzo Mondo assomigliano sempre di più a ciò che noi vediamo in alcuni paesi dei Balcani e dell'Europa dell'Est, se non in tutti i paesi dell¹Europa centro-orientale. Possiamo allora imparare qualcosa da quell'esperienza.



Rada Ivekovic - University of Paris-8;

Europa: una parola chiave per il futuro dei Balcani

01/10/2001 -  Anonymous User

Oggi nell'immaginario dei paesi dell'area balcanica si incontra spesso una parola chiave: Europa. Non si tratta solo del richiamo ad un'appartenenza storica, peraltro niente affatto scontata se pensiamo alla sufficienza e al distacco con cui nell'intero '900 è stato trattato il sud est europeo. E non si tratta nemmeno soltanto di una riscoperta tardiva dello straordinario intreccio di culture al di là dell'Adriatico, per secoli quasi ignorato dal vecchio continente che non riusciva a leggervi la propria immagine riflessa.
Per i Balcani Europa oggi è soprattutto l'idea di fluidificare in un'entità più ampia gli incerti contesti nazionali usciti dalle guerre dell'ultimo decennio. Di pensare che il virus nazionalistico che ha fatto da sfondo e da maschera ideologica al disintegrarsi della nazione degli slavi del sud - e con esso alla crisi delle ideologie novecentesche - va affrontato superando gli angusti richiami ai mille possibili quanto improbabili "fondi genetici". Occorre al contrario definire uno spazio più ampio di riferimento, nel quale disegnare il futuro delle terre balcaniche.
Questo spazio virtuoso si chiama Europa, l'unica immagine forse in grado da un lato di superare le chiusure nazionalistiche dei micro-confini, e dall'altro di respingere la tentazione di trasformare l'intera regione nel paradiso senza regole dell'off shore. Prospettiva quest'ultima che accade talvolta di sentire apertamente teorizzata, pensando i futuri Balcani come zona franca da regole di civiltà economica e giuridica.
Il problema è che da quest'altra parte dell'Europa, quella ricca e politicamente definitasi con autosufficienza Unione Europea, si continua a non riflettere sulle tragedie degli anni '90 e a pensare ai paesi balcanici solo come terreno di incursione. Si persevera così nella ricerca -ormai fuori del tempo, ma ancora foriera di effetti disastrosi - di proprie aree di influenza nazionale, senza traccia alcuna di un approccio d'area. Oppure si interviene con una logica puramente emergenziale, per poi affidarsi nella ricostruzione al presunto potere taumaturgico dell'economia di mercato e della sua capacità di autoregolamentazione. Si dimentica così, tra l'altro, che le tragedie di questi anni non sono per nulla estranee alle stesse forme attraverso cui il libero mercato, nelle sue moderne versioni mondializzate, si è organizzato e ha influito dopo l'89. In ciò si è trovato certamente un fertile retroterra nello sfascio dei regimi comunisti e nella natura centralistica e piramidale - quasi sempre di tipo banditesco - dell'economia di stato, basata sull'intreccio tra potere politico e apparato burocratico. E hanno influito anche la deresponsabilizzazione collettiva e l'assenza di difese culturali diffuse, eredità perversa di regimi che hanno segnato e impoverito in profondità i loro corpi sociali.
L'assenza di una strategia di fondo delle istituzioni internazionali, di un loro progetto complessivo per l'area che fosse scevro da intenzioni miopi, ha lasciato mano libera alle forme più perverse dell'economia finanziarizzata. Esse hanno potuto fiorire proprio dentro la guerra, luogo per eccellenza della derogazione estrema, cosi come nel traffico d'armi, nel riciclaggio, nel traffiking, nel mercato della droga e in quello dei rifiuti.
Per ribaltare questa deriva politico-culturale occorre dunque un'idea alta, e quella di Europa può esserla. Sta qui, attorno a questo nodo cruciale, la possibilità di superare il vuoto progettuale che caratterizza la diplomazia ufficiale e, a ragion del vero, anche molta parte del mondo non governativo. Si tratta di riempire il vuoto tracciando un possibile itinerario di ricostruzione economica , sociale, ambientale e democratica di questa parte tanto importante del vecchio continente. Senza ripetere la stanca parodia degli investimenti occidentali, che sono destinati ad impoverire quei territori, e ricercando invece strade nuove.
Un percorso di ricostruzione simile andrebbe incardinato su due concetti di fondo: l'opzione per uno sviluppo locale autocentrato quale criterio di rinascita economica, e l'autogoverno delle comunità come strada per ricostruire coesione ed identità sociale. Due idee - lo sviluppo locale e l'autogoverno - che non sono affatto la romantica illusione di uno sviluppo alternativo dolce rispetto al modello occidentale, ma l'unica via d'uscita all'implosione della statualità vissuta nel sud est Europa. Gli stati nazionali usciti da un decennio di devastanti conflitti, infatti, sono oggi in una vera e propria paralisi fiscale: mancano entrate tributarie stabili, perché non c'è lavoro regolare e l'economia esistente è in gran parte informale o addirittura criminale. Gli unici introiti significativi vengono dalle risorse non ancora privatizzate - molto spesso a scapito dei già precari equilibri ambientali - o dai programmi di aiuto internazionali, delineando così una condizione di dipendenza che rischia di divenire strutturale. È perciò necessario ricostruire un rapporto virtuoso fra cittadini e pubblica amministrazione, fra cittadini e comunità, fra cittadini e territorio, per sfuggire alle chimere degli investimenti occidentali di rapina e parimenti all'assistenzialismo umanitario. Si tratta di una questione vitale, che investe il rapporto fra aiuti internazionali, risorse locali e approcci culturali.
Se queste sono le premesse, il vecchio modello economico del sistema industriale pre-bellico non è più proponibile, perché affetto da gigantismo, gerarchia del comando, condizioni di mercato radicalmente mutate, arretratezza degli impianti e perdita di competenze tecniche a causa della guerra. Occorre invece un'impostazione radicalmente nuova, che porti con sé risvolti sociali, economici e culturali in parte inediti per i Balcani. Girare pagina infatti significa immaginare un percorso economico fortemente intrecciato ai saperi e alle intelligenze - che non mancano, data l'alta scolarità diffusa e per molti l'esperienza formativa all'estero - unite alle tradizioni culturali e alle nuove sensibilità ambientali. Bisogna costruire un disegno di sviluppo integrato del territorio, sul quale far convergere le risorse locali e gli aiuti internazionali. Un disegno fondato da un lato sulle professioni della qualità, ad alta intensità umana e creativa, e dall'altro sul settore primario dove convivano e si integrino progetti partecipati in agricoltura, zootecnia, indotto dei servizi, dell'artigianato e dell'industria di trasformazione, ma anche turismo rurale e termalismo.Questo approccio ha come caratteristiche fondamentali di essere endogeno; di contare sulle proprie forze (risorse naturali, umane, finanziarie, organizzative); di prendere come punto di partenza la logica dei bisogni (salute, istruzione, trasporti, infrastrutture collettive, ecc.); di dedicarsi a promuovere la simbiosi tra le società umane e la natura; di restare aperto al cambiamento istituzionale.
Il secondo concetto di fondo per immaginare una rinascita dei Balcani dovrebbe essere l'autogoverno delle comunità. C'è bisogno di ricucire, sulle macerie dei regimi e delle guerre, un rapporto fra cittadini e pubblica amministrazione fondato sulla partecipazione e su un diffuso sistema di autonomie locali anziché su rapporti gerarchici e di delega. In altre parole, un approccio comunitario capace di affrontare i bisogni individuali e collettivi in un'ottica diversa tanto dallo statalismo, quanto dalla privatizzazione mercantile di ogni segmento della vita economica e sociale di un territorio. A tal fine è necessario avviare percorsi di riforma, prima di tutto culturali ma anche istituzionali, che possano prefigurare nella relazione orizzontale fra regioni e municipalità una comune appartenenza europea, anche al di sopra delle frontiere "etnicamente pure".
Quest'appartenenza europea già si è manifestata negli anni scorsi attraverso le mille relazioni della cooperazione decentrata e della diplomazia delle città, che hanno cercato di ricostruire i ponti di dialogo e di civiltà demoliti dalla guerra. Si tratta senza dubbio di un'esperienza che prefigura un itinerario possibile di integrazione europea, alternativo rispetto a quello lento e burocratico dei governi. L'integrazione a partire dai cittadini, dai territori e dalle singole municipalità, immesse però in una rete virtuosa di partecipazione democratica, sviluppo locale e autogoverno. Per Di-Segnare, assieme, la nuova Europa.
Michele Nardelli, Osservatorio sui Balcani

Articolo uscito sulla Rivista Carta

Il senso di un Appello, nonostante la tragedia

01/10/2001 -  Anonymous User

(25.09.2001) "L'Europa oltre i confini" è il titolo dell'Appello a favore di un'integrazione rapida dei Balcani nelle istituzioni europee, che è stato presentato oggi in Campidoglio dai Sindaci di Sarajevo e di Roma. Ma che senso ha un Appello in questi giorni, in mezzo ai tragici fatti cui stiamo assistendo? A cosa può servire fare delle proposte di apertura, immaginare scenari nuovi di dialogo e di confronto con le aree geografiche "calde" del mondo, dopo che la follia omicida abbattutasi a New York e Washington ha innescato spirali tremende di vendetta e chiusura? Chi può ascoltare delle flebili voci, mentre siamo tutti assordati dai rumori di morte degli aerei caduti e di quelli che si preparano a bombardare?
Ce lo siamo chiesto anche noi dell'Osservatorio sui Balcani, organizzatori di questo evento assieme all'ICS - Consorzio Italiano di Solidarietà. E a momenti abbiamo pensato che forse no, forse in questo momento era meglio sospendere la presentazione e rimandarla più in là nel tempo. Forse aveva proprio ragione Nicola Matteucci, quando giustificava una possibile rappresaglia armata dell'occidente sostenendo che "il focolaio di un incendio va spento al più presto"; come dire che in certi momenti non servono parole, ma fatti. E però abbiamo deciso di andare avanti, nonostante o proprio in risposta al clima di lutto e disperazione che gela il mondo. Perché se l'incendio della violenza va spento, non è con altro fuoco che lo si può fare ma con l'acqua del ragionamento e della politica. Dunque anche con idee e suggestioni nuove per il futuro dell'Europa, oltre i suoi attuali e limitati confini.
La questione dei Balcani infatti non è una partita secondaria in un'area periferica del continente. I suoi non sono i vecchi problemi di una terra arretrata e pre-moderna, ma sono - come per altre zone del pianeta a torto ritenute marginali - le attualissime sfide di una società globale e post-moderna: si pensi all'economia finanziarizzata ed ai suoi intrecci con tutti i traffici che attraversano le rotte adriatiche, alla crisi di un welfare state strutturato al pari di quelli occidentali, ai temi della differenza, delle nuove cittadinanze e dei rapporti tra culture, alla crisi dei sistemi politici tradottasi in una forte personalizzazione del contendere e nella scomparsa dell'intermediazione dei partiti tra interessi individuali e luoghi decisionali. Tutte questioni che toccano tanto quelle aree quanto le nostre perché, per riprendere una metafora cara a molti, i Balcani sono lo specchio dell'Europa contemporanea, non la fotografia di quella ottocentesca.
Se tutto questo è vero, lanciare un Appello a favore di un'integrazione dell'area balcanica nelle istituzioni europee - ma sarebbe più corretto dire, a favore di un'integrazione tra Europa del sud est ed Europa del nord ovest - può essere una risposta almeno parziale alle crisi globali cui ci troviamo di fronte. Il testo della petizione suggerisce un'integrazione rapida, per poter dare a queste terre un'idea di futuro, una speranza certa che vada oltre la sopravvivenza nei micro-confini sorti con gli Accordi di Dayton. E insieme per spezzare prima possibile la catena delle rivendicazioni secessionistiche, che dopo la Macedonia potrebbe toccare Montenegro, Sangiaccato, Vojvodina, Istria croata e chissà quale altra piccola patria. Senza assolutamente negare loro il diritto all'autonomia locale, ma per definire assetti istituzionali stabili che superino in avanti, sciogliendole in unioni maggiori, le attuali suddivisioni statali.
L'Appello poi indica il bisogno di un'integrazione che sia sostenibile, ossia che possa garantire uno sviluppo stabile dei paesi balcanici fondato sulle loro peculiarità locali - uso razionale delle risorse naturali, turismo di qualità, agricoltura e industria di trasformazione, cultura... - piuttosto che sulle sottoproduzioni industriali, delocalizzate dall'Europa ricca per sfuggire alle regole ambientali e sociali che essa stessa si è data. Uno sviluppo autocentrato, dunque, dove l'economia ha molto a che fare con l'autogoverno locale (in un quadro federato, non secessionista) e con la responsabilità individuale.
Infine l'Appello indica la via delle relazioni tra comunità, tra singoli territori del sud est e del nord ovest d'Europa, come metodo migliore per praticare da subito la strada dell'integrazione. Prima e a fianco della via governativa, perché così è stato fatto - anche nelle molte esperienze dei comitati locali e dei comuni italiani - in questi anni di assenza e fallimento della comunità internazionale ufficiale nei Balcani. E perché solo così, forse, si può dare reale parità alle associazioni, ai gruppi, agli intellettuali locali per troppo tempo lasciati senza parola, emarginati dai governi nazionalisti in casa loro e inascoltati all'estero. Simbolicamente anzi l'Appello si apre con la frase di una di essi, Rada Ivekovic, e raccoglie sostegni importanti da tutti i paesi dell'area.
"L'Europa oltre i confini", dunque. Un sogno per il futuro lontano ma anche un orizzonte politico per il prossimo domani, sapendo che se è vero che per costruire l'attuale Unione Europea ci sono voluti quasi cinquant'anni, è altrettanto vero che nell'era attuale anche il tempo è cambiato: ciò che fino a ieri si misurava in decenni, oggi si compie in pochi anni. E' passato un lustro dalla caduta del muro di Berlino, eppure già gli attacchi criminali sugli Stati Uniti hanno segnato una nuova svolta epocale. Che non ci porta, come notava giustamente Stefano Bianchini in un'intervista concessaci alcuni giorni fa, verso un presunto "scontro di civiltà". Ma al contrario, sperabilmente, può aprire le porte ad un mondo che sappia andare "oltre i propri confini".

© Mauro Cereghini

L'Europa oltre i confini

24/09/2001 -  Anonymous User

Il discorso tenuto dal sindaco di Roma Walter Veltroni alla presentazione dell'Appello "L'Europa olre i confini". Roma, Sala della Protomoteca (24.09.2001)

L'adesione di Margherita Cogo, Presidente della Giunta Regionale

24/09/2001 -  Anonymous User

Anche Margherita Cogo aderisce all'Appello ma purtroppo non può essere a Roma per la presentazione ufficiale.

Hanno aderito all'Appello

24/09/2001 - 

I primi sottoscrittori dell'Appello "L'Europa oltre i confini"

L'Europa oltre i confini

24/09/2001 -  Anonymous User

Il discorso del Sindaco di Roma Walter Veltroni in occasione della presentazione dell'Appello "L'Europa oltre i confini".

L'adesione di Margherita Cogo, Presidente della Giunta Regionale del Trentino - Alto Adige

24/09/2001 -  Anonymous User

Pubblichiamo l'adesione di Margherita Cogo alla presentazione a Roma presso il Campidoglio dell'Appello "L'Europa oltre i confini"

Sarajevo rinascerà con le olimpiadi?

06/05/2001 -  Anonymous User

Intervista a Muhidin Hamamdzic, Sindaco di Sarajevo

Gligorov: l'Europa ci appoggia ma doveva farlo prima.

06/05/2001 -  Anonymous User

Kiro Gligorov, ex-Presidente della Macedonia, era ieri ospite del World Social Forum, invitato dal Consorzio Italiano di Solidarietà e dall'Osservatorio sui Balcani, ad una tavola rotonda sul futuro dell'Europa Sud-orientale e sulla sua integrazione nella UE.La sconfitta dei progetti di una "Grande-Serbia" e di una "Grande-Croazia" si accompagna purtroppo all'emergere di un progetto di "Grande Albania" - ha commentato nel suo intervento l'ex-premier - e l'origine di questo nuovo nazionalismo è proprio in Albania, non in Kosovo o nel nord della Macedonia".
Gligorov non accusa direttamente le autorità di Tirana, ma la "situazione di povertà economica in quasi tutti i paesi balcanici, che crea un clima favorevole per la mobilitazione popolare su progetti nazionalistici (...).Dopo il collasso, nel 1997, delle istituzioni pubbliche in Albania, la situazione interna è caotica. Le autorità di Tirana non hanno il controllo sul loro territorio. L'Albania non protegge i suoi confini di stato, principalmente perché è circondata da una massa relativamente compatta di albanesi cittadini in tutti gli stati confinanti". In questa situazione, il sostegno del governo di Tirana alle rivendicazioni di queste minoranze - l'autonomia del Kosovo o i diritti civili degli albanesi in Macedonia - sostiene indirettamente l'idea panalbanese ed ha delle ripercussioni nei paesi confinanti, anche in assenza di rivendicazioni sui confini.
"Gli sviluppi recenti della crisi in Macedonia sono in parte autoctoni - legati alla radicalizzazione delle domande dei cittadini di origine albanese, alla debolezza dell'attuale governo, ... - e in parte sono importati dal Kosovo e dall'Albania, espressione dell'estremismo panalbanese, che cresce in questo contesto". In un'intervista Gligorov ha poi dichiarato che "L'Unione Europea sosterrà diplomaticamente la risoluzione del conflitto e si è impegnata a contribuire per i danni che ne deriveranno". Ma, come per gli altri conflitti divampati nei Balcani negli anni scorsi, anche in questo caso la comunità internazionale ha perso un'occasione per prevenire il dilagare della violenza.
Nel suo intervento, l'ex-Presidente macedone ha espresso condivisione per la proposta - avanzata da ICS e Osservatorio sui Balcani - di definire un percorso rapido di integrazione del Sud-est Europa nell'Unione Europea; integrazione che dovrà essere socialmente sostenibile e partecipata. Nel quadro di un Europa che si estenda dall'Atlantico agli Urali, la democratizzazione dei paesi balcanici, uno sviluppo sociale ed economico centrato sul governo locale, la ricostruzione di un tessuto istituzionale e amministrativo che sottragga terreno alla criminalità organizzata ed al nazionalismo rappresentano probabilmente l'unica soluzione possibile ai molti problemi che affliggono i Balcani.

Per un'integrazione certa, rapida, sostenibile e dal basso

05/05/2001 -  Anonymous User

Si è chiuso, all'interno del World Social Forum, l'incontro "Disegnare l'Europa: i Balcani tra integrazione e disintegrazione", organizzato da ICS e Osservatorio sui Balcani.

Per un'integrazione certa, rapida, sostenibile e dal basso

05/05/2001 - 

Si è chiuso - all'interno del World Social Forum - l'incontro "Disegnare l'Europa: i Balcani tra integrazione e disintegrazione", organizzato da ICS e Osservatorio sui Balcani. L'incontro si è concentrato sul rapporto tra Europa e Balcani, o si potrebbe dire tra le due Europe, quella ricca e già integrata dell'Unione e quella "marginale" e disintegrata dell'area sud orientale. Si è trattato di un incontro con intellettuali, uomini di governo e rappresentanti di istituzioni internazionali molto diversi tra loro per ruoli e responsabilità

'L'Europa senza frontiere ha una nuova linea Maginot'

05/05/2001 -  Anonymous User

L'entrata nella Unione Europea non sarà la panacea per tutti i mali, ma potrà costituire una piattaforma su cui rilanciare la pace, la convivenza civile e lo sviluppo locale nei Balcani. I tempi sono ormai maturi per fissare date, scadenze e parametri che guidino questo percorso. E' questo il messaggio chiaro che viene dall'incontro "Di-Segnare l'Europa. I Balcani tra integrazione e disintegrazione", promosso oggi nell'ambito del World Social Forum (Padova, 4-6 maggio) dall'ICS - il Consorzio Italiano di Solidarietà che raggruppa oltre cento associazioni e gruppi locali italiani impegnati da anni nel sostegno e nella ricostruzione dell'Europa sud orientale - e dall'Osservatorio sui Balcani.
"L'attenzione materna dell'Europa democratica è necessaria", conferma il sindaco di Sarajevo, Muhidin Hamamdzic, parlando di "supervisione opportuna e bene accetta", fino a quando le cose non cambieranno, assumendo un corso normale, logico, maturo e quotidiano. Hamamdzic spiega i conflitti e le incomprensioni con la comunità internazionale come "il risultato della nostra impazienza e del nostro desiderio di accelerare il processo che condurrà la Bosnia al luogo a cui essa da sempre appartiene: l'Europa". Ma, accusa il sindaco di Sarajevo, l'Europa per ora si rivela matrigna: "Dopo la caduta del muro di Berlino, l'Europa sta costruendo nuovi muri verso l'Est! I paesi in transizione sono letteralmente 'tagliati fuori' dall'Occidente. L'Europa senza frontiere ha una nuova linea Maginot, un 'corridoio sanitario' tra se stessa e i paesi in transizione, e, oso dire, in particolare verso la Bosnia. Il visto Schengen è un nuovo male e un nuovo Muro di Berlino. La città di Sarajevo e il mio intero paese sono immensamente riconoscenti alla Comunità Internazionale per avere fermato la guerra in Bosnia. Ma, saremmo molto più felici se poteste impedire altri potenziali conflitti. L'Europa, con il sistema di Schengen, si comporta come una brava donna di casa che cerca di nascondere le immondizie sotto il tappeto, ma senza risolvere nulla. La differenza tra poveri e ricchi è sempre più grande e sempre più profonda".
Nella parte ricca dell'Europa, confermano gli altri relatori, da Kiro Gligorov, ex-Presidente della Repubblica di Macedonia, a Gabriele Martignago (Patto di Stabilità per il sud est Europa) a Jovan Teokarevic (Istituto per gli Studi Europei, Belgrado) e Diana Çuli (Forum delle donne albanesi, Tirana), si continua a non riflettere sulle dinamiche retrostanti alle tragedie degli anni '90 e si pensa ancora ai paesi balcanici solo come ad un terreno di incursione, rischiando di perseverare nella mera ricerca di proprie aree di influenza nazionale senza sviluppare un approccio d'area complessivo."Le transizioni post-coloniali - osserva Rada Ivekovic (Università di Parigi-8) - assomigliano alle transizioni post-comuniste, o comunque che le difficoltà di sviluppo del Terzo Mondo assomigliano sempre di più a ciò che noi vediamo in alcuni paesi dei Balcani e dell'Europa dell'Est, se non in tutti i paesi dell'Europa centro-orientale. Possiamo allora imparare qualcosa da quell'esperienza".
Il futuro economico del sud est Europa, avvertono con accenti diversi i relatori dal palco del World Social Forum, non può essere garantito né dalle chimere degli investimenti occidentali di rapina, né tantomeno dal perdurare dell'assistenzialismo umanitario. Occorre immaginare invece un percorso economico inedito, conclude Giulio Marcon (Ics) tirando le fila del convegno, bisogna costruire un disegno di sviluppo integrato del territorio, sul quale far convergere le risorse locali e gli aiuti internazionali, puntare sull'autogoverno delle comunità, costruire società civile.

Articolo

03/05/2001 -  Anonymous User

Sabato 5 Maggio 2001, nell'ambito del World Social Forum (Fiera di Padova), Osservatorio sui Balcani e ICS organizzano una tavola rotonda: "Di-segnare l'Europa; i Balcani tra Integrazione e Disintegrazione." Vi parteciperanno esponenti della società civile dell'Europa sud-orientale, rappresentanti di ONG e agenzie internazionali (per raggiungere la Fiera di Padova).