Cinque saggi presentano la crisi del maggio 1945 ed il suo retroterra. Una lettura che li colloca sugli scenari nazionali ed internazionali, con l'intero cast degli attori coinvolti: italiani, jugoslavi, russi, inglesi, americani. L'introduzione
Da "Quaderni di Qualestoria n.7", 1998 - Irsml, Trieste
Introduzione di Giampaolo Valdevit
Ricomporre il passato collocando gli attori - tutti gli attori - sul palcoscenico triestino: è questa la sfida con la quale si è misurata la componente più vitale - più resistente cioè all'usura del tempo - della storiografia triestina quanto meno da Vivante in poi.
Se una sfida del genere riguarda l'intera storia della Trieste moderna e contemporanea, essa si fa incalzante quando si esaminino quelle fasi del passato nelle quali predomini la dimensione internazionale delle vicende triestine (o relative a Trieste). Non è che in tal modo si voglia rinverdire il luogo comune della Trieste "ombelico del mondo"; una dimensione internazionale è infatti quella che fa di Trieste il punto in cui si incrociano o si scontrano forze diverse, che hanno origine al di fuori - e alle volte ben al di fuori - dal contesto locale. Il maggio 1945 è sicuramente uno di questi momenti; nell'arco dell'ultimo cinquantennio è forse il momento in cui, attorno a ciò che si definisce il problema di Trieste, si è sviluppato un intreccio internazionale nel senso più pieno del termine.
Sciogliere, dunque, quanto più possibile questo intreccio: é questa la prospettiva seguita dal Dipartimento di scienze geografiche e storiche dell'Università di Trieste che, in collaborazione con l'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, ha organizzato il 30 e 31 maggio 1995 il convegno dal titolo "Trieste, maggio-giugno 1945. Alba di guerra fredda?".
Di tale convegno vengono qui pubblicate le tre relazioni che vertevano sulla questione - o meglio, la crisi - di Trieste, aggiungendone altre due in modo da poter vedere all'opera l'intero cast di attori coinvolti in essa. Si sono invece omesse le relazioni di argomento più generale, relative al lungo dibattito storiografico sulle origini della guerra fredda poiché il panorama degli interventi al riguardo è già molto ampio e si trova alla portata di chiunque intenda occuparsene.
Ma non è che la decisione di pubblicare alcune relazioni sia la mera conseguenza della volontà di mettere a disposizione di un pubblico più ampio gli atti di un convegno. Va piuttosto inteso come un segnale. Vuole cioè dare atto che, per quanto riguarda non solo la crisi di Trieste del maggio 1945 ma l'intera questione di Trieste fra guerra e dopoguerra, si è agli albori di una terza generazione di studi. La prima ha lavorato per lo più su fonti edite, mentre la seconda ha beneficiato dell'apertura degli archivi occidentali (inglesi e americani in primo luogo) nonché degli apporti interpretativi forniti soprattutto dalla storiografia diplomatica americana. Questa terza fase di studi che si sta aprendo si avvale della messa a disposizione delle fonti orientali (sovietiche e jugoslave), e non stenta ad avvertire l'impatto sulle interpretazioni del passato prodotto da quella serie di vicende che va sotto il termine di "fine della guerra fredda".
E, stando a questi primi assaggi, lo fa in maniera nel complesso convincente: impegnandosi cioè in una revisione storiografica che tenda a ridefinire le questioni e a riorientare le direzioni di ricerca, anziché indulgere a quel revisionismo fine a se stesso che, volendo rigirare come un guanto gli assetti interpretativi consolidati, finisce in realtà per riproporre visioni stantie, proprie di un passato ormai lontano.
Com'è facile intuire, in questa fase di ricerca che si sta aprendo il problema non è solo quello di porre le nuove fonti orientali, che vengono distribuite un po' col contagocce, accanto a quelle - abbondanti e alle volte ridondanti - di provenienza occidentale, delle quali già da tempo disponiamo. Se un dislivello c'è, esso non si riferisce soltanto alla mole dei due gruppi di fonti che teniamo sul nostro tavolo: un pacco da un lato e dall'altro una pila che si estende assai in altezza. Il dislivello di maggior consistenza è infatti quello che esiste fra le varie storiografie nazionali e si riferisce sia agli strumenti analitici sia ai quadri interpretativi generali.
Dal momento che cade nel terreno d'indagine di diverse storiografie nazionali, lo studio del problema di Trieste non può che registrare la presenza di tale dislivello. Per di più si tratta di storiografie, quelle dell'Europa orientale in particolare, che fino a poco fa hanno lavorato al riparo da steccati ideologici; e per farli cadere ci vuole parecchio di più che atti di buona volontà. Inoltre, sottoponendo a lettura "sinottica" alcuni di questi saggi, non può sfuggire la difficoltà dei late comers - e cioè gli storici russi - a confluire entro gli orizzonti interpretativi e di ricerca propri delle storiografie occidentali. Non si tratta di assumere nei loro confronti - si badi bene - un atteggiamento di colonialismo culturale; ma è ormai consapevolezza abbastanza diffusa che sulla capacità di riorientare le direzioni di indagine storiografica, di ridefinire e rimettere a fuoco i problemi si misurerà l'apporto della storiografia russa. Infine, sempre in tema di dislivello, se siamo tutti o quasi d'accordo che la storia è meglio non intenderla come occasione per emettere professioni di fede o - peggio ancora - come bene di consumo da usare secondo le convenienze del momento, non è ancora del tutto agevole trovare un terreno d'intesa in fatto di valori, ai quali ha da ancorarsi una storiografia che voglia contribuire a formare la coscienza del cittadino: si tratta di valori nazionali o di valori che superano i confini nazionali?
Per tutto ciò, nonostante le occasioni di incontro e di scambio si siano moltiplicate (ed una di queste è stato il suddetto convegno), è fatto ancora di luci ed ombre un approccio che riesca ad abbracciare e poi a fondere in una trama unitaria tutto ciò che è avvenuto sullo scenario triestino; un approccio che sia capace di dare un volto immediatamente riconoscibile ai vari protagonisti, distinguere i loro ruoli e il loro peso nell'azione scenica: anche quelli con un peso irrilevante perché - è bene sottolinearlo - proprio tale circostanza e la sensazione che essa produce (l'impotenza cioè) non sono affatto prodromo di paralisi quanto di movimento nelle più diverse direzioni.
In ogni caso questa terza generazione di studi si apre, come si è detto, in maniera promettente. Non è che in questa sede si possa proporre una pista di lettura che attraversi tutti e cinque i saggi qui raccolti; ma qualche spunto lo si può fornire. Innanzitutto mi pare che, presi nel loro insieme, essi si discostino nettamente da quella tendenza - propria di molte storiografie - a fornire rassicurazioni, a distinguere con chiari tratti di penna il grano dal loglio, il bene dal male, il giusto dall'ingiusto; una tendenza poi che finisce per gettare la croce addosso ai "grandi" passando sopra le scappatelle dei "piccoli" (anche quando non si tratta propriamente di scappatelle).
Al contrario, ad emergere con una certa nitidezza sono quelli che, pur in un'età di superpotenze emergenti, si potrebbero definire i limiti del potere, prendendo a prestito il titolo di un saggio che ebbe larga circolazione nei campus delle università americane sul finire degli anni Sessanta. Non vediamo infatti globalismi, diktat, atti di imperio. Vediamo invece come anche superpotenze quali Stati Uniti e Unione Sovietica abbiano stabilito scale di priorità (sulla base, per la seconda, di meri interessi, per i primi anche di valori) che non sono affatto le stesse che individuano gli interlocutori locali. Negli elenchi di priorità che si costruiscono a Mosca e a Washington Trieste sta piuttosto in basso; a Londra forse no, ma il potere britannico è già in fase di erosione.
Ciò spiega perché gli interlocutori locali abbiano non solo un potere di interdizione sulle scelte delle grandi potenze, ma riescano anche a godere della capacità di far deragliare le loro iniziative. Da questo punto di vista il rapporto fra Tito e Stalin in merito alla crisi di Trieste presenta una forte somiglianza con quello che si creerà fra Kruscev e Fidel Castro nel 1962 all'epoca della crisi dei missili a Cuba, benché la posta in gioco in tale circostanza sia assai più alta: non più la ricostruzione di un ordine europeo, ma la deterrenza reciproca e cioè la condizione che ci ha evitato il conflitto nucleare.
Altro che le mani del comunismo sovietico sull'Adriatico o, per dirla secondo altri, l'ombra dell'impero americano (o la smania di interventismo americano) sopra Trieste e i Balcanì. Sono progetti di cui si è favoleggiato allora, e sì è continuato a favoleggiare in pratica fino ad oggi anche in sede di analisi storica, ma l'insieme dei saggi qui raccolti mi pare la destituisca di ogni fondamento. Infine, quanto agli interlocutori locali (Italia e Jugoslavia cioè) essi sembrano oscillare fra vecchio e nuovo. Non è che ignorino la presenza delle superpotenze né il proprio peso in rapporto ad esse; nondimeno manifestano profonda affezione a comportamenti inscritti, per così dire, in un codice genetico formatosi in altra temperie politica internazionale: per la Jugoslavia la rivalsa nei confronti del vicino (rivalsa che si manifesta anche in aderenza ai dettami forniti dal codice di comportamento comunista), per l'Italia una disinvolta diplomazia a tutto campo.
Per concludere, abbiamo effettivamente cominciato a ricomporre un momento cruciale del nostro passato. Ma l'operazione non sarebbe ben impostata se ci limitassimo a ricostruire la soggettività degli attori presenti sullo scenario triestino. Sarebbe solo un fare opera da notaio o da fotografo, se vogliamo. Non si tratta neppure di distinguere per l'ennesima volta i buoni dai cattivi. Ma un qualche termine di riferimento in tema di valori è pur necessario trovarlo. Non sembra di vederne altro, salvo che il valore di libertà e democrazia, un valore non astratto - non oggettivo, come si diceva qualche tempo fa - ma collocato nel suo tempo, nel fluire del tempo. Del resto fare storia vuol dire proprio questo: collocare uomini e cose nel tempo: il loro tempo, non il nostro.