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Una serie di iniziative e di incontri per discutere della salute mentale in Serbia. La Caritas italiana impegnata in prima fila per combattere i forti pregiudizi e le paure sul tema. Le testimonianze di attivisti e pazienti

13/10/2009 -  Cecilia Ferrara Belgrado

Ana ha circa trent'anni. Ebbe un primo attacco d'ansia nel 2006, durante un periodo di stress al lavoro, poi era rimasta incinta e non ci aveva più pensato. Due anni dopo, al parco, non trova più sua figlia in bicicletta e le viene un'altra crisi d'ansia che non riesce a controllare. Capisce di avere un problema e va al poliambulatorio di Mladenovac. Lo psichiatra le dà una confezione di antidepressivi e le dice di tornare dopo tre mesi. "Appena sono uscita ho buttato via le medicine - racconta Ana - il dottore non mi aveva neanche ascoltato e visto che mi dava un farmaco avrebbe dovuto vedermi un po' più spesso". A quel punto si è tuffata su internet e, tramite un forum, ha scoperto che esisteva a Belgrado una dottoressa che seguiva in modo diverso i propri pazienti. Da allora ha conosciuto altre persone che avevano i suoi disturbi e le sue esigenze e con alcuni di loro ha deciso di fondare un'associazione, Herc, per trovarsi, parlare e condividere esperienze e per aiutare altre persone.

Dragan è stato in cura per 30 anni, a 17 è entrato all'Istituto di Salute Mentale dove è stato per dieci anni, poi per altri venti è entrato e uscito dall'ospedale psichiatrico di Belgrado, il "Laza Lazarević". "Al Laza Lazarević non facevamo nulla, fumavamo e bevevamo caffè, dormivamo. Nessuno mi ha mai fatto psicoterapia, l'unico trattamento erano le medicine; a un certo punto mi visitavano, dicevano che stavo bene e uscivo, fino alla volta successiva". Ora, Dragan sta abbastanza bene, vive da solo con la moglie Marija, anche lei in cura da 15 anni, ed è coordinatore del Comitato per i diritti dei pazienti e dell'associazione Duša (anima). Dragan sa bene che la situazione in Serbia per le persone come lui è molto difficile, ma ha le idee chiare: "Spero che un giorno anche da noi arrivi la riforma Basaglia, anche se se ne attuasse solo il 50% sarei felice".

Herc e Duša sono due delle 6 associazioni di auto-aiuto in Serbia per i problemi di salute mentale, gruppi che sono nati grazie al supporto della Caritas italiana con il "Programma per la Salute Mentale" Balcani. La Ong cattolica lavora ormai dal 1998 in Serbia sui temi della salute mentale e della deistituzionalizzazione con la formazione degli operatori e la promozione della società civile. Nell'ultimo anno sono nate ad esempio 5 associazioni di pazienti e familiari che nel mese di ottobre per la prima volta hanno preso e prenderanno la parola per raccontare le proprie esperienze senza paura di essere considerati diversi dalle persone "normali".

La passeggiata della salute mentale

Ottobre è in tutto il mondo il mese dedicato alla salute mentale ed in Serbia è la Caritas italiana che, assieme all'OMS e ai ministeri serbi per gli Affari sociali e per la Salute, ha organizzato la campagna anti-stigma "Otvorimo Vrata " (apriamo le porte) con l'intento di combattere i pregiudizi e le paure riguardo alla malattia mentale che in Serbia sono ancora molto forti.

Si terranno eventi in 15 città della Serbia con presenza nei media dei pazienti e delle associazioni dei familiari, la proiezione del film con Claudio Bisio "Si può fare" (che racconta con delicatezza le avventure di una cooperativa di pazienti psichiatrici nel post legge180) sull'emittente nazionale Studio B e nelle varie città dove si svolgono le attività.

Il 10 ottobre, per la giornata mondiale della salute mentale, si è tenuta la "Passeggiata per la salute mentale", che a Belgrado si è tenuta ad Ada Ciganlija con la presenza di 12 stand informativi della Caritas, delle 6 associazioni, dei due ministeri serbi che partecipano al programma, della città di Belgrado e della Čovekoljublje, associazione della Chiesa Ortodossa. Su un palco che dà direttamente sulla Sava i pazienti hanno letto poesie e recitato pezzi teatrali. "Il nostro intento era quello di essere visibili e di portare le persone a parlare di malattia mentale che in questo paese è ancora in gran parte un tabù, e magari far avvicinare qualcuno, che prima non ha mai avuto il coraggio, alle associazioni di auto aiuto", spiega Daniele Bombardi, responsabile Caritas per Serbia e Bosnia Erzegovina.

Lo stato di salute delle cure mentali in Serbia

Secondo la strategia nazionale del 2007 che analizza i bisogni in vista della riforma sanitaria (che comprenderà interventi sulla salute mentale), il numero di "disordini mentali e comportamenti diagnosticati" è aumentato in maniera costante dal 1999, arrivando al secondo posto tra i problemi di salute della popolazione (dopo le malattie cardiovascolari). Gli eventi degli ultimi vent'anni, sanzioni, inflazione, guerre, bombardamenti, e dopo guerra hanno portato ad un deterioramento della salute mentale, ma la risposta delle istituzioni è assolutamente insufficiente.

Esistono in Serbia ancora 5 grandi ospedali psichiatrici, simili ai nostri vecchi manicomi, si trovano a Belgrado, Niš, Vršac, Kovin, Novi Kneževac per un totale di 3.500/ 4.000 degenti. "La maggior parte di questi pazienti rimane istituzionalizzata per anni, soprattutto per motivi sociali - si ammette nella strategia - gli ospedali sono sovraffollati, in circostanze economiche difficili, con carenza di personale ed il trattamento non segue spesso i principi della psichiatria moderna. Il rispetto dei diritti dei pazienti non è sempre garantito".

"Quando la Caritas arrivò a Niš nel 1998, poco prima dei bombardamenti, per portare aiuti nel sud della Serbia qualcuno disse 'volete venire a vedere la cosa più terribile?' e li portarono al manicomio. C'erano mille persone abbandonate a loro stesse che stavano letteralmente morendo di fame e di freddo: tutte le finestre erano rotte e non c'era l'acqua calda". Chi racconta è Paolo Serra, psichiatra italiano "basagliano" che prima a Gorizia e poi ad Arezzo ha partecipato al processo che in Italia ha portato alla chiusura dei manicomi e alla legge 180 del 1978.

Dal 2001 è consulente per la Caritas italiana programma di Salute Mentale nei Balcani. Grazie all'appoggio dell'OMS, ai corsi di formazione e ai numerosi viaggi in Italia, in questi anni anche fra gli psichiatri serbi si è sviluppata una coscienza maggiore rispetto alla necessità di un cambiamento nella psichiatria serba verso la de-istituzionalizzazione. Si è formata nel 2002 una commissione governativa per la Salute Mentale che ha stilato la strategia che abbiamo citato e che sta lavorando alla Riforma della Sanità. È stato aperto, sempre con l'apporto della Caritas, un primo Centro di salute mentale a Niš.

"La situazione in Serbia è più o meno come da noi negli anni Settanta - racconta il dottor Serra - si è aperto un dibattito, se chiudere o meno i manicomi e intraprendere la via di una psichiatria che sia presente fuori dall'ospedale, con servizi territoriali, con l'apertura di Centri di salute mentale. I problemi che si pongono sono un po' gli stessi: da una parte i costi della riforma, dall'altra parte la paura di cambiare".

Oltre ai manicomi ci sono 41 reparti psichiatrici negli ospedali chiusi e poco o per niente riabilitativi, non ci sono attività, non c'è possibilità di lavorare, scarsa anche la possibilità di uscire, pochi i diritti per i pazienti. Dall'altra parte non c'è servizio ambulatoriale di psichiatria, nelle Dom Zdravlja (le ASL serbe) lo psichiatra fa esclusivamente attività medico legali (visite a chi ha perso la patente per abuso d'alcol). Non c'è molta scelta al di fuori del ricovero.

"C'è un grosso stigma sulla disabilità mentale e fisica - dice Paolo Serra - da una parte le famiglie si vergognano dall'altro il regime tendeva a portare via i disabili alle famiglie per metterli in istituti, per questi motivi i malati sono spesso nascosti in casa".

La differenza fra l'Italia prima della riforma Basaglia e la Serbia di oggi? "Il contesto politico è totalmente differente: in Italia negli anni settanta si volevano cambiare le cose in tanti sensi, qui oggi quello che interessa è entrare in Europa. Il che non significa necessariamente adottare un modello avanzato come quello italiano, l'unico che ha abolito i manicomi".