Un articolo a firma Osservatorio sui Balcani pubblicato nelle scorse settimane sul secondo numero di Communitas, mensile di approfondimento promosso da Vita. Tra le pieghe e le piaghe dell'umanitario ...
Alla radice, potremmo dire,
è una questione di "sguardi"
Marco Revelli
L'umanitario è una di quelle parole che più sono esibite, più è necessario guardarsene. Diciamo che è bene parlarne, ma con la necessaria prudenza e - almeno per quanto mi riguarda - anche con un po' di ritrosia, tanto è stata accostata non solo agli aiuti e agli interventi della comunità internazionale ma anche alle nuove guerre. Devo anche dire che non ne posso più di partite del cuore, di maratone televisive, di "Pavarotti & friends", della sofferenza di bambini esibita senza alcun pudore. E di eserciti della salvezza, sempre più spesso a ruota di quelli veri, magari sotto forma di moderne Ong che cinicamente corrono appresso alle aree di crisi al soldo di quegli stessi governi che ne sono la causa. Il circo umanitario: così l'ho chiamato qualche anno fa, nella polvere del Kossovo e dell'uranio impoverito che ne tratteggiava le nobili finalità. Un esercito di funzionari, cinismo e fuoristrada, senza storia e radici: i soldati della "guerra dell'umanitario".
Al tempo stesso so bene quanta umanità vera vi sia, quanta disponibilità attenta e coscienziosa nelle molte esperienze capaci di interrogarsi sulla sostenibilità propria come dei propri progetti, per cui non intendo generalizzare. Ma questo non ci esime dall'interrogarci sull'industria dell'umanitario, sul suo carattere perverso, sul suo divenire "embedded" quando dagli stessi aerei che sganciavano le "cluster bomb" venivano lanciate le sacche gialle degli aiuti umanitari. Per questo l'umanitario è guardato con diffidenza, anche se poi con un "sms" ci si salva la coscienza e via.
Bisogna dire altresì che la crisi della cooperazione è cosa ben più profonda del suo recente arruolamento. Potremmo dire che quest'ultimo è l'esito finale di una modalità di fare cooperazione che ha rinunciato ad una progettualità propria, dove il tecnicismo ha soppiantato la politica, riducendosi spesso a rincorrere i finanziamenti per garantire la propria di sostenibilità. Così da interrogarsi sempre meno sul senso politico del proprio agire.
Un paradosso
Emerge qui un paradosso. La dimensione globale è entrata non solo nel nostro immaginario ma anche nei nostri comportamenti. La stessa tragedia dello "tsunami" ha avuto l'effetto di un brusco risveglio, un "ammonimento alla terra" l'ha definito l'antropologa indiana Vandana Shiva, che ci ha resi ancor più consapevoli della comunità di destino terrestre. Mai nella storia, miracolo della globalizzazione, abbiamo avuto un movimento per la pace in grado di assumere una dimensione planetaria tanto da essere indicato dal NY Times come "l'altra superpotenza", in un gioco di simulazione talvolta scioccamente accettato dal movimento. Insomma, sempre più abbiamo consapevolezza che questo è il tempo dell'interdipendenza... Eppure, in questo contesto, registriamo il punto più alto di crisi della cooperazione internazionale.
Le tre "i" della vecchia cooperazione
Interrogarsi è d'obbligo. E non credo che la risposta possa essere di quelle auto-assolutorie, adducendo le difficoltà all'insufficiente attenzione che i governi dei paesi occidentali prestano in termini di percentuali del proprio PIL destinate alla cooperazione internazionale, che peraltro è innegabile, considerato che in Italia siamo allo 0,13% contro lo 0,33% indicato negli stessi impegni internazionali del nostro paese. Voglio dire che il problema non è quanto si fa, ma come si fa, cosa rimane, quali processi si innescano. "Fatti, non parole" grida la Lega nei suoi manifesti, ma qui come altrove per fare bene bisogna parlare, conoscere, immergersi nel contesto. Altrimenti può accadere di affidare la gestione degli aiuti a gente senza scrupoli, che magari ha avuto parte attiva nei processi di pulizia etnica, con l'esito di aggiungere macerie a macerie. Non parlo a caso.
Si potrebbe descrivere la crisi profonda della cooperazione internazionale attraverso la metafora berlusconiana delle tre "i": invasività, insostenibilità e inefficacia.
Invasività, ovvero la non conoscenza e il mancato rispetto verso i contesti locali. Delle loro culture ma anche delle ragioni che hanno portato alla rottura di equilibri che per secoli avevano presieduto un determinato territorio. Partendo dal presupposto (infondato) che i paesi dove si avviano programmi di cooperazione siano poveri e arretrati, nei fatti affermando una sorta di superiorità dei modelli occidentali. Imponendo regole astratte (i programmi Frankenstein) destinate peraltro a creare nuove dipendenze. Senza alcun coinvolgimento, se non in chiave subalterna, delle comunità locali.
Insostenibilità, vale a dire quel procedere per progetti che considerano la sostenibilità in uno spazio temporale finito. L'opposto cioè dell'interrogarsi sulla riproducibilità nel tempo, ma prima ancora sulle modalità di ideazione e progettazione attorno ad un bisogno, laddove la comunità locale è chiamata tutt'al più a ratificare scelte compiute altrove. Per dire che una scuola o un ospedale, non sono sempre e comunque utili, se non ci si interroga da un lato sull'approccio locale alla formazione e alla salute, e dall'altro sulla capacità del territorio di garantire l'attività di tali servizi. Per non parlare dell'insostenibilità generata dalla stessa presenza internazionale, che non s'interroga sull'opportunità di pagare cifre iperboliche per l'affitto mensile di una sede per la propria struttura quando in loco uno stipendio è di poche decine di euro.
Inefficacia, il prendere atto cioè che mezzo secolo di cooperazione ha lasciato dietro di sé nuove dipendenze (l'ambiguità degli aiuti umanitari di cui ci ha parlato Giulio Marcon) che oggi, di fronte ai nuovi scenari della globalizzazione, espongono ancor più i territori alle dinamiche dello spaesamento e dell'esclusione da un lato, del controllo paternalistico mafioso e della criminalità organizzata dall'altro.
"Un porto franco"
Un'idea di cooperazione, questa, fondata sul trasferimento di risorse (gli aiuti) e di modelli (culture), come se avessimo ancora a che fare, se mai lo è stato, con paesi sottosviluppati, da prendere per mano ed accompagnare lungo le magnifiche e progressive sorti dello sviluppo.
Al di là dell'ipocrisia di una cooperazione che con una mano dà e con l'altra prende (interessi sul debito, sfruttamento delle risorse umane e materiali...), abbiamo a che fare con la narrazione di un mondo che non esiste più, per il semplice fatto che la globalizzazione ha reso a-geografica la divisione fra esclusione ed inclusione, e che la finanziarizzazione dell'economia rincorre le aree di massima deregolazione come luoghi in cui si materializzano, intorno alle forme più hard dell'economia, i livelli più alti di rendita. Guarda a caso le aree della massima deregolazione sono quelle interessate da guerre, traffici, delocalizzazione delle imprese, luoghi dove tutto è possibile perché la vita delle persone non vale nulla, così la loro forza lavoro, l'ambiente naturale e le risorse locali. Non dimenticherò fin che campo la risposta che mi diede Milomir Stakic nel marzo del '96, allora sindaco di Prijedor (Bosnia Erzegovina) e poi condannato all'ergastolo per crimini di guerra dal TPI, quando alla mia domanda su quale futuro immaginasse per la "Republika Srpska" mi rispose candidamente "un porto franco". In quelle parole c'era la chiave di lettura della guerra che aveva devastato quel paese, la sua vera natura di lucida scelta da parte di una nomenclatura che intendeva succedere a se stessa usando per questo i simboli etnico-religiosi e proponendosi come gruppo di potere, signori degli uomini e della terra di un neofeudalesimo che fa il pari con l'ipermodernità dei processi di accumulazione che nella deregolazione estrema trovano il loro humus naturale.
Categorie da rivedere
Di fronte ai nuovi scenari dell'economia mondo, che senso ha attardarsi a parlare di Paesi in via di sviluppo? Qui non c'è qualcuno che è rimasto indietro, ma molto più semplicemente una nuova divisione gerarchica che introduce un fattore sostanziale di novità, la fine dell'umanesimo.
Nel passaggio fra il '900 ed il nuovo secolo, al crollo del modello burocratico statalistico dei paesi comunisti ha corrisposto l'evidenziarsi dell'insostenibilità planetaria del modello uscito vincente. Il neoliberismo ha rappresentato proprio la risposta a tale insostenibilità. Per la prima volta nella storia del pensiero moderno si teorizza l'esclusione, non più il tentativo di dare delle risposte all'insieme dei problemi dell'umanità, ma la cinica conclusione che sulla Terra non c'è posto per tutti.
Uno scenario che ha messo oltremodo in crisi i presupposti categoriali della "cooperazione allo sviluppo". Allora, ripensare la cooperazione significa in primo luogo rivedere tali presupposti. La prima cosa da mettere in discussione è l'idea stessa che esistano paesi poveri. Ogni territorio è ricco di suo, non solo di materie prime, ma di storia, culture, saperi, bellezze naturali. Possiamo tutt'al più parlare di paesi impoveriti, tant'è vero che la ricchezza di materie prime è diventata spesso ragione di impoverimento. E' necessario poi fare i conti con quell'approccio economicista che ha misurato lo sviluppo attraverso indicatori oggi resi inservibili proprio dai processi di deregolazione (che senso ha misurare il PIL in un paese dove l'80% dell'economia è nera e criminale?). Da tempo alcune correnti di pensiero hanno avviato una "critica dello sviluppo", mettendo in discussione questo paradigma. Anche per questo credo che non abbia effettivamente più senso parlare di Paesi in Via di Sviluppo (la Romania o la Bosnia Erzegovina sono forse paesi sottosviluppati?). La stessa divisione fra nord e sud, laddove oggi ritroviamo il nord nel sud e viceversa (cos'altro rappresentano le aree di esclusione sociale nelle moderne megalopoli?), serve a descrivere il presente? E poi, chi l'ha detto che il benessere di una comunità sia misurabile attraverso il reddito pro capite? Che forse i cittadini nordamericani a reddito medio-basso costretti a mandare i propri figli in guerra per pagarsi gli studi o la sanità, possono considerare la loro vita come benessere? E chi l'ha detto che la vita buona sia quella fondata sulla corsa sfrenata di tutti i giorni per il possesso di beni la cui utilità reale è legata esclusivamente alla moda del momento? E non è tale concezione generatrice di nuovi squilibri?
Servono gli aiuti?
Tutto questo indica l'urgenza di ripensare la cooperazione ponendoci un'altra domanda ancora: a che servono gli aiuti? Il problema è quello di portare aiuti o non invece quello di sostenere processi di riappropriazione delle risorse da parte delle comunità locali? Comunità che spesso ne hanno smarrito la consapevolezza, oppure devastate a tal punto da non vederne il valore e la limitatezza.
Un'altra cooperazione, che assume così la forma di rianimazione del territorio verso un riappropriarsi responsabile delle proprie risorse, facendo leva sull'unicità di ogni territorio pensato come essere vivente che dialoga con la storia e con i suoi saperi, ma anche con gli altri territori in un processo di relazione aperto ed orizzontale. Significa altresì ragionare sulle forme di autogoverno locale, affinché le comunità possano avere voce in capitolo nella gestione del proprio territorio.
Allora la cooperazione non è più solo o tanto trasferimento di risorse, ma dialogo fondato sulla reciprocità, scambio di esperienze, consapevolezza dell'interdipendenza, prevenzione dei conflitti. Un investimento a distanza sul nostro presente quando non una sorta di risarcimento verso la rottura degli equilibri precedenti.
Il tempo non è galantuomo
Ho iniziato a descrivere un percorso che si potrebbe definire di decostruzione del carattere economicistico della cooperazione. In questa direzione va anche il tema dell'elaborazione del conflitto come parte integrante di un modo diverso di pensare la cooperazione. La mia esperienza diretta mi porta a dire che l'intervento umanitario nelle situazioni di emergenza, la ricostruzione, lo stesso lavoro importantissimo di rianimazione del territorio, non possono prescindere dallo scavare a fondo dentro i conflitti, non solo per comprenderne le cause ma anche per farli evolvere in forme nonviolente. Se poi abbiamo a che fare con territori lacerati da conflitti che sono stati o hanno assunto caratteri etnico-religiosi, non si potrà parlare di riconciliazione (il che avviene molto spesso a vanvera) senza passare attraverso un percorso di elaborazione collettiva di quanto è accaduto.
Un luogo comune è che le ferite si curino con il tempo e con il miglioramento delle condizioni di vita materiale. Credo al contrario che il tempo non sia galantuomo e che il denaro non basti, che le ferite debbano essere curate perché altrimenti si infettano e diventano sentimento viscerale, rancore e odio, magari sotto la cenere di un apparente normalità.
Se ci pensiamo, siamo circondati da conflitti non elaborati, che riemergono ogni qual volta qualcuno decide di riattizzarli, talvolta scientemente, altre volte nell'incoscienza maldestra della delicatezza di temi come la memoria. E non serve andare lontano. Basta pensare alla vicenda del referendum sul nome della piazza del Monumento alla Vittoria a Bolzano di qualche tempo fa, oppure alla più recente riesumazione della tragedia delle foibe nei territori istriani.
Dobbiamo inoltre considerare che il Novecento non è stato solo il secolo dell'homo faber e del suo delirio. La deriva eliminazionista introdotta nel nome di un ordine superiore ha attraversato tutta la condizione umana del secolo che ci siamo da poco messi alle spalle. E se escludiamo la straordinaria esperienza della Commissione per la verità e la riconciliazione del Sudafrica, la comunità internazionale ha saputo produrre processi penali (Norimberga, L'Aja...) piuttosto che catarsi collettive. Capri espiatori piuttosto che indagare sulla "banalità del male" e sulla colpa collettiva.
Com'è possibile pensare alla rinascita di un contesto territoriale e di farlo con criteri di sostenibilità, come può una comunità riconciliarsi, se si lascia non indagato ciò che è avvenuto e quel che si agita nell'animo delle persone?
Percorsi di elaborazione del conflitto
Per questo è necessario abitare i conflitti, mettersi in mezzo, avviare percorsi di elaborazione collettiva. Altrimenti ognuno coltiverà la propria memoria, piangerà i propri morti, con l'esito di considerare la propria narrazione come l'unica possibile, la verità sulla quale costruire il destino della propria comunità. La realtà è invece che ci sono diverse narrazioni, in Palestina come in Bosnia, in Istria come in Sud Tirolo, nel nord America come in Sudafrica, e che la ricerca della verità è cosa complessa che non può prescindere da un altrettanto complesso lavoro di elaborazione delle vicende storiche e dei conflitti che l'hanno accompagnate, a partire dalla ricerca dei punti di contatto delle diverse narrazioni.
Un lavoro quest'ultimo che richiede competenza e "terzietà", ma anche un rapporto di fiducia costruito nel tempo che poco si addice ad una relazione utilitaristica. A Prijedor, nella "comunità maledetta" descritta da Aldo Bonomi, abbiamo avviato un percorso di elaborazione del conflitto ancor oggi in corso, credo unico nel suo genere e di straordinario valore. Sì, perché nel frattempo quella comunità maledetta è diventata "la città del ritorno". Vi partecipano una trentina di persone di diversa nazionalità, età e collocazione sociale, con le quali abbiamo collaborato nei difficili anni del dopoguerra. Con Marco Revelli si sono rintracciati i segni del '900 nella tipologia urbana di un villaggio un tempo sede della grande miniera, leggendo sulle mura scrostate delle vecchie case operaie gli splendori e le miserie di un secolo. Con Nicole Janigro si è parlato della vecchia Jugoslavia, di come si è vissuto il suo sgretolarsi e della guerra degli anni '90, attraverso i diari e le lettere di quegli anni, per far emergere tratti di memoria condivisa. Con Marcello Flores si è lavorato sull'esperienza sudafricana come modalità non solo giuridica di ricostruire la verità e con il sottoscritto sull'Europa come luogo di fluidificazione dei nazionalismi ma anche come appartenenza ad un grande agorà di regole di civiltà nel tempo della deregolazione selvaggia. Con il Museo storico in Trento si è avviato un lavoro sulla memoria delle guerre, non solo per ricostruire pezzi di storia condivisa, ma anche per indagare sulla colpa individuale e sulle responsabilità collettive, sulla rimozione e sulla falsa coscienza. E tutto questo non per avere vendetta, ma perché solo il riconoscimento di ciò che è accaduto può metterci nelle condizioni di parlare almeno di convivenza, se non proprio di riconciliazione. Vorremmo infine indagare sulla guerra, nella sua dimensione più inconfessabile, quella "felicità della guerra" di cui ci ha parlato Stanislao Zuleta, festa della comunità unita nel vincolo del sangue, come orgia e sbornia collettiva, che ha molto a che vedere tanto con la balkanska krcma (la locanda balcanica che ci ha descritto Rada Ivekovic) quanto con la terevenka (la sbornia senza memoria). Tratti della modernità, più vicini a noi di quanto si pensi. Ma questo meriterebbe un discorso a parte.
La cooperazione comunitaria
Ho fin qui cercato di descrivere un diverso approccio alla cooperazione. Due sono le parole chiave che ne sono alla base: prossimità e reciprocità.
Prossimità, vicinanza, mettersi in mezzo: non la semplice realizzazione di un progetto per quanto condiviso, ma una relazione permanente fra comunità. La capacità di ascoltare il territorio, il prendersi carico, la conoscenza delle dinamiche locali, la ricerca di interlocutori adeguati, sono tutte cose che richiedono tempo, energie difficilmente riconoscibili dentro lo schema progettuale tradizionale. La difficile scelta di stare, quando tutti se ne vanno. Ma decisiva.
Reciprocità, consapevolezza che nel tempo dell'interdipendenza le distanze svaniscono, i processi si intrecciano, le contraddizioni riverberano. Che dunque quello sulla solidarietà è un investimento su se stessi. Un ponte percorso in entrambe le direzioni, in una cooperazione che ci insegna a stare al mondo, a capire quel che accade intorno a noi, che ci permette di cogliere le dinamiche del nostro tempo. Un continuo dare ed avere nella convinzione che nessuno debba insegnare nulla a nessuno e che tutti abbiamo da imparare nel confronto con gli altri.
Questa modalità diversa di costruire relazioni l'abbiamo chiamata cooperazione comunitaria. Non esattamente la cooperazione decentrata di cui s'è parlato negli ultimi anni, perché quest'ultima può rivelare le stesse caratteristiche di invasività, insostenibilità ed inefficacia della vecchia cooperazione e differenziarsi da questa solo negli attori che ne sono protagonisti. Del resto il decentramento (a differenza dell'autonomia) mantiene le prerogative della cooperazione in sede di governo centrale, il quale può decidere di affidare la realizzazione di un determinato programma ad una istituzione locale.
Nella cooperazione comunitaria lo schema è rovesciato. Sono i territori i protagonisti della relazione, mix di istituzioni locali e di espressioni della società civile organizzata, con un diffuso coinvolgimento di sensibilità e di competenze che si mettono in gioco qui e lì. Si tratta di una relazione permanente, che proprio per questo è costretta ad interrogarsi sulla sostenibilità di tutto quello che fa, sugli esiti in termini di effetto sociale, di responsabilizzazione, di crescita della comunità. Una cooperazione che supera la logica del progetto a termine, che non coinvolge solo una Ong, ma che nella relazione cerca di far sistema sul proprio stesso territorio. Una relazione di comunità che è costosa, perché induce ad un continuo interrogarsi reciproco su come vengono affrontate problematiche analoghe. Così che la cooperazione comunitaria aiuta al dialogo e al confronto nella propria stessa realtà, osservata allo specchio forse più nitidamente.
Non c'è dubbio che dopo essermi trovato a trattare con i criminali di guerra, mi trovo a leggere le diversità nella mia vita quotidiana e nella mia comunità con più leggerezza. Perché guardarci da lontano ci aiuta a mettere a fuoco in maniera diversa il nostro stesso contesto.
Insomma, la cooperazione comunitaria come forma di educazione permanente al nostro tempo.