I. Telebak - Pogled

Lo scorso 8 marzo a Milano hanno parlato alcune donne bosniache vittime di stupro durante la guerra. Un incontro per non dimenticare organizzato da Amnesty International e dalla Provincia di Milano. Con l'assenza dei rappresentanti del governo bosniaco. Riceviamo e volentieri pubblichiamo

11/03/2005 -  Anonymous User

Di Aleksandra Sucur *

Ieri ho passato il mio primo 8 marzo senza il solito raccoglimento per ricordare il maggior numero possibile di donne che, con i loro atti di forza, coraggio e umanità, hanno in qualche modo segnato la nostra storia o influito positivamente sulla nostra vita: da Dolores Ibaruru, a Rosa Luxemburg, a mia nonna Maria, a donne che lottavano per i diritti sindacali e che hanno perso la vita in quella lotta a donne che tuttora lottano per i diritti umani. Una pratica che ripeto ogni anno, proprio come me l'ha insegnata mia madre quando ero piccola e che io mantengo e condivido - vedendomi o parlandone al telefono - con le amiche ogni 8 marzo.

Ieri, invece, lavoravo e non avevo tempo per queste riflessioni: sono interprete e dovevo tradurre durante un convegno organizzato da Amnesty International e patrocinato dalla Provincia di Milano, i quali hanno invitato tre donne, tutte vittime di stupri durante il conflitto in Bosnia-Erzegovina e testimoni dei crimini di guerra al Tribunale Internazionale dell'Aja, a parlare delle loro attuali condizioni di vita. La loro presenza è stata inserita in un contesto più ampio, le intenzioni degli organizzatori sono state quelle di fare il punto sulle drammatiche condizioni di vita in cui versano le donne in ogni angolo del mondo, causate da conflitti armati, malgoverno, povertà, situazioni-margine: vite nei campi profughi, vite da schiave del sesso, vite da sfruttate nelle maquillas, vite da poco sbocciate e già mercificate: comprate e vendute come arance sul mercato... Lo scopo della serata era anche quello di interrogarci sul perché oggi un miliardo di donne al mondo subisce qualche forma di maltrattamento e tortura. E forse anche quello di riflettere sulla strana sensazione che spesso ci assale e che ci fa sembrare che il "mondo", la "civiltà", non progrediscano, bensì vadano al contrario.

Non mi è affatto dispiaciuto di non aver trascorso il mio solito e "tranquillo" 8 marzo, esistono anche altri giorni all'anno per riflettere. Le donne bosniache che ho conosciuto in quest'occasione m'hanno fatto tornare di nuovo a Sarajevo nel '92. In quell'anno tutte e tre sono state imprigionate, con migliaia di altre persone, vecchi e bambini, uomini e donne, nello stadio della cittadina di Foca dalle truppe dei riservisti serbi composte in parte dai volontari serbi-montenegrini e in parte dai nazionalisti-estremisti (intendo dire "tra le righe": da ubriaconi, malavitosi e banditi) locali. A Sarajevo, quattro, cinque giorni prima, parlavo con l'amico Kasim, nativo di Zvornik e funzionario del partito nel quale militavo un anno prima, che mi raccontava di aver sentito telefonicamente un conoscente di Nis, Serbia, il quale era un ufficiale dei servizi speciali (cd. "specijalci") dell'Esercito jugoslavo. Lo "specialista" gli disse in maniera confidenziale di far uscire i suoi familiari da Zvornik, da Fojnica e da altri luoghi della Bosnia orientale e soprattutto, di far scappare tutti quelli che conosceva da Foca, "perché a Foca il sangue scorrerà a fiotti, fino alle ginocchia" e che l'operazione aveva il beneplacito e l'assicurata collaborazione da parte dell'Esercito jugoslavo. Capii che quelle parole significavano la guerra, una guerra molto più atroce di quella già vista in Croazia.

Tornai a casa molto allarmata, presi subito un foglio di carta e scrissi una lettera a C. Doyle, inviato speciale di Lord Carrington, funzionario europeo addetto a "monitorare" la situazione nella ex-Jugoslavia, a "parlare" con le parti belligeranti e con quelle "potenzialmente conflittuali", cercando di capire "i loro problemi". L'avevo conosciuto una o due settimane prima durante una cena organizzata dal Centro internazionale per il dialogo interreligioso, giustizia e pace, alla quale ho assistito come interprete. Scrissi dunque questa lettera a mano, in fretta e furia, senza conservarne una copia e perciò non ne ricordo il contenuto esatto. Ricordo tuttavia di avergli detto di "avere notizie certe sui movimenti delle truppe di Arkan verso Zvornik e Foca" e che la popolazione civile della Bosnia orientale era in grave pericolo. Non potendo dormire uscii e consegnai la lettera alla reception del suo albergo. Il giorno seguente mi sorprese la sua telefonata (capita di rado che un funzionario così importante si scomodi per telefonare alla gente - fosse anche per una segnalazione importante): era agitato e mi chiedeva cosa mi aspettavo che facesse. "Prevenga che accada il massacro. Riferisca agli europei, vada a Foca insieme ad altri osservatori europei, con voi lì presenti non faranno mai nulla." - pregai ingenuamente. Disse che avrebbe riferito ai suoi superiori, cercò di rassicurarmi: forse non sarebbe successo nulla di quello che temevo (tuttavia, io gli ricordai le stragi che le truppe di Arkan avevano già fatto in Croazia, nella Slavonia orientale), forse le mie fonti si erano sbagliate (e allora perché si era sentito in dovere di telefonarmi?). La mia insistenza nel dire che comunque avrebbe dovuto andare lì per "controllare" che non accadesse nulla di grave, lo irritò e mi rispose: "io sono un militare, non posso andare dove voglio. Mi hanno ordinato di andare a Sarajevo e ci sono andato. Io non posso né andare né fare alcunché se non me lo ordinano. Io sono un soldato, capisce..." "Sì" - dissi assalita dallo scoramento e dalla tristezza - "a quanto pare, noialtri attiriamo solo gente di quel genere." Soldati come osservatori durante le prime elezioni pluripartitiche nell'anno precedente, soldati come inviati speciali, sempre solo soldati, mai un ingegnere, un medico, un sociologo, un economista... E anche quando non si trattava di soldati, in giro si vedeva solo una specie affine a loro, quella dei politici e dei funzionari incalliti, locali o internazionali, privati di umanità da un bel pezzo. Insomma, quella "roba" studiata da H. Arendt a seguito del caso Eichmann.

Tuttavia, esistono dei politici bravi e dei funzionari dotati di molta umanità. E dei giornalisti bravi, quelli che raccontano storie vere, quelli che indagano, come Mimmo Lombezzi che ha voluto capire che cosa succede con le donne - vittime di stupri etnici dopo la guerra, e ha fatto un documentario che descrive le loro enormi difficoltà da un lato ma dall'altro dipinge anche il loro enorme coraggio e la loro forza. "Violentate, mutilate e uccise dai serbi, emarginate e dimenticate dalle autorità bosniache", echeggiavano le sue parole dallo schermo nello Spazio Oberdan. Eh sì, per il povero e disorganizzato stato bosniaco sono diventate un peso, un costo economico, un problema sociale, un ostacolo per metterci tranquillamente una pietra sopra il passato. Perciò ha deciso di emarginarle, di non ascoltarle, facendo finta che non esistono neppure.

Non mi è sfuggito il dettaglio che l'istituzione italiana che si è dimostrata così sensibile ai loro problemi era proprio la Provincia di Milano, con la nuova amministrazione di centro-sinistra, e notavo che l'unica istituzione bosniaca che si è mostrata tanto sensibile ai problemi di queste donne da assegnare alla loro associazione uno spazio ove poter svolgere le attività era un omologo bosniaco della Provincia, cioè, il Cantone di Sarajevo.

Mentre scrivo mi arriva la telefonata di Bakira, la presidente dell'Associazione "Donna-vittima di guerra". Sono tornate a Sarajevo. Piange e non dovrebbe, perché, dice, lei, sì che è una dura... La cosa che l'ha colpita maggiormente era l'enorme gentilezza e la bontà di tutte le persone che ha incontrato: dall'emozione mostrata dall'Assessora per la cultura e le integrazioni Benelli, l'ospitalità delle attiviste di Amnesty, la compagnia e scambio di informazioni con persone che parlavano di difficoltà delle donne dalle altre parti del mondo, alla grande commozione di tutto il pubblico, composto in prevalenza da ex volontari, gente normale che si era impegnata a far giungere gli aiuti umanitari durante la guerra e da giornalisti sensibili al tema... Gente che si scusava "per non essersi informata di loro, delle loro condizioni di vita", "per averle abbandonate". "Siamo state accolte da tutti come se fossimo loro sorelle. E pesa e brucia il fatto che la sala era piena di persone care e amiche mentre non era presente nessuno tra coloro dovrebbero rappresentarci in Italia, nemmeno una persona del nostro Consolato". La politica bosniaca di ignorarle si è estesa anche a Milano. Capisco: avevano "impegni diplomatici più importanti" per la serata, all'insaputa di tutti avevo telefonato nel corso della giornata al Consolato della Bosnia-Erzegovina per sincerarmi che qualcuno di loro sarebbe venuto. Il console non c'era, il viceconsole si preparava per la partita Milan-Manchester ("non ho visto l'invito, se l'avessi visto sarei venuto, se sapessi con quale fatica ho reperito i biglietti per la partita, ora non posso cancellare, ho promesso agli ospiti inglesi..."). Certo, capisco, tra gli "ospiti inglesi", poteva esserci anche il Console britannico o qualche altro alto funzionario, andare insieme alle partite è una cosa importante per la "ragion di Stato"... o perlomeno, più importante di quella di far sentire la presenza e la protezione istituzionale alle vostre donne. Ciò che non capisco è che dopo l'invito al convegno pubblico ricevuto da un'importante organizzazione come Amnesty International (ricordiamoci che trattasi pur sempre di un Premio Nobel per la pace e di un Premio UN per i diritti umani), patrocinato da un importante Istituzione del paese che ospita il Consolato, cioè, dalla Provincia di Milano, non arrivi un foglio di carta con su scritto: "Per altri importanti impegni ci è impossibile presenziare alla serata da Voi organizzata, tuttavia, approviamo la Vostra iniziativa, ringraziamo la Provincia e salutiamo le nostre concittadine". In breve, sarebbe bastata una sola frase per non fare sentire Bakira umiliata, "barattata", emarginata. Sarebbe bastata una sola frase e lei non avrebbe sentito tutta la tristezza per il fatto che una donna sconosciuta, funzionaria di un'istituzione italiana a lei lontana, nonché le attiviste di Amnesty (parimenti offese e scandalizzate), abbiano avuto più attenzione per lei che non i rappresentanti del governo bosniaco. Sarebbe bastata una sola frase e Bakira non avrebbe pianto.

Ho già detto che esistono anche dei politici, dei funzionari e dei giornalisti bravi che svolgono il loro lavoro con passione, dedizione e umanità, proprio come io cerco di fare il mio. E' vero che nella mia vita ho incontrato prevalentemente quelli che non erano affatto così, e ieri, per la festa delle donne, mi sono semplicemente augurata di non vedere mai più gente di "quel genere". Hanno una buona parte di responsabilità per il fatto che il "mondo" e "la civiltà" sembrano andare al contrario.

* Aleksandra Sucur è interprete e traduttrice a Milano