La conclusione di due progetti di ricerca finanziati dall'Unione Europea dà vita ad una pubblicazione che racconta la realtà del confine italo-sloveno, la sua storia politica, economica, sociale, culturale. L'introduzione
di Tullia Catalan, Giulio Mellinato, Raoul Pupo, Marta Verginella
Nel momento della sua elaborazione, il progetto di ricerca «Dalla terra divisa al confine ponte. Frattura e collaborazione nelle aree di confine tra Italia e Jugoslavia nel secondo dopoguerra (1945-1965)», muoveva da un'analisi del nodo problematico giuliano e del relativo panorama storiografico, cui è utile in primo luogo fare riferimento, per poter valutare oggi il cammino percorso. Si scriveva allora che «a partire dagli anni Novanta, sull'onda deimutamenti politici innescati dalla fine della contrapposizione est-ovest, considerevole spazio ha trovato la volontà di trar fuori dal cono d'ombra in cui era a lungo rimasta la tormentata storia del confine orientale italiano, percepita come essenziale per un ripensamento della storia e dell'identità nazionale nel periodo post-fascista.
Tuttavia, l'attenzione degli studiosi italiani si è concentrata principalmente su alcuni nodi particolari degli anni a cavaliere tra guerra e dopoguerra - le foibe giuliane e l'esodo istriano - che sono stati esplorati ormai con una certa ampiezza». Va detto che questo squilibrio si è in parte attenuato in anni recentissimi, grazie soprattutto alle ricadute storiografiche delle celebrazioni per il 50° anniversario del ritorno dell'Italia a Trieste1, ma ciò nonostante «altri problemi rimangono invece irrisolti, o non sono stati nemmeno affrontati, e manca soprattutto un quadro di riferimento complessivo che permetta di cogliere i connotati essenziali di una vicenda storica che presenta forti caratteri di originalità». La categoria unificante le diverse esperienze compiute dagli abitanti di quella che prima della Seconda guerra mondiale era chiamata Venezia Giulia, in sloveno Julijska krajina o semplicemente Primorska (Litorale), può infatti essere individuata nel concetto di «terra divisa», che dà il primo nome al progetto di ricerca.
Terra divisa, ovviamente, in primo luogo perché il territorio suddetto si trovò nel dopoguerra a far parte di formazioni statali diverse ed anche, per un certo periodo, a vivere in una sorta di limbo statuale (il Territorio Libero di Trieste). Ma terra divisa, anche perché alle linee di separazione tracciate sulla carta geografica si sommarono non solo quelle legate al riproporsi delle lacerazioni nazionali ed ideologiche già pre-esistenti, e rafforzate dalle contrapposizioni della guerra mondiale e della guerra fredda, ma anche quelle - estremizzazione delle precedenti - derivate dalla frattura verticale, come ad esempio quella che attraversò la società istriana del tempo e che condusse all'espulsione del gruppo nazionale italiano dai territori a diverso
titolo passati alla Jugoslavia. Divisioni sul territorio dunque, e divisioni nella società: così, ad
esempio, buona parte degli istriani, in fuga dalla loro terra di origine ritrovatasi appena al di là
del nuovo confine, finì per insediarsi nelle province di Trieste e Gorizia, modificandone sensibilmente gli assetti sociali e nazionali; e ciò mentre la crisi dovuta al faticoso re-inserimento di Trieste nello spazio economico italiano avviava un inedito flusso migratorio transoceanico che coinvolse sia i nuovi arrivati che i cittadini, e una fascia della popolazione giovanile residente nella campagna triestina e goriziana.
Tale intreccio di situazioni rende difficilmente proponibile, sul piano della ricerca, uno studio sul dopoguerra al confine italo jugoslavo orientale che isoli le vicende dei territori rimasti entro i confini dello Stato italiano da quelle delle aree passate invece all'amministrazione e poi alla sovranità jugoslave. Se infatti fin dalla primavera del 1945 le due storie si divisero, sul piano delle istituzioni, su quello del regime politico come pure del sistema economico, a livello invece di storia della società la frattura non si consumò nel volger di qualche mese o di qualche anno, ma fu viceversa un processo lungo, che si protrasse fino alla seconda metà degli anni Cinquanta. Un processo che vide nel corso di più di un decennio l'esplodere delle diverse componenti della società giuliana, attraversata da profonde linee di faglia, il suo decomporsi lungo il tracciato prevalente della discriminante nazionale - un dato questo che nel 1945, di fronte al momentaneo trionfo delle logiche di aggregazione ideologiche e di classe, non sembrava affatto scontato - ed il suo successivo, faticoso, ricomporsi in due società distinte, ciascuna - anche se in grado assai diverso - ben differente dalla precedente. Due società che le logiche della politica internazionale e del reciproco interesse avrebbero finito per spingere, in prospettiva, a dialogare assieme.
Non una brusca frattura quindi, ma una lunga separazione; e tuttavia, il processo non era ancora concluso, perché ben presto, dopo il 1954, maturò da entrambe le parti del confine la consapevolezza che la difficile sostenibilità del nuovo tracciato confinario avrebbe rapidamente
determinato un collasso dell'intera area frontaliera, a meno che non si fosse trovato il modo di ammorbidire il più possibile l'impatto delle divisione fra Stati sulla società locale. È in questo contesto che nacque il concetto di «confine - ponte», capace di collegare realtà statuali, nazionali ed economiche diverse e allo stesso tempo affini. Si trattò probabilmente dell'acquisizione più interessante maturata dalla cultura politica locale nel corso del dopoguerra, premessa della futura prospettiva della collaborazione transfrontaliera.
Il progetto quindi mirava a ricostruire i passaggi essenziali di tale itinerario, il che poteva essere fatto solamente considerando in una prospettiva unitaria tutto il territorio coinvolto e quindi conducendo lo studio congiuntamente assieme a centri di ricerca della Repubblica di Slovenia. Per quanto riguarda il territorio italiano, le aree interessate dalla ricerca erano state individuate nell'intera fascia confinaria fra Italia e Slovenia, e quindi le province di Trieste e Gorizia, direttamente coinvolte dalle modifiche confinarie e dalle conseguenti dinamiche, assieme alle valli del Natisone, in provincia di Udine, in modo da stabilire un primo utile raffronto con un'altra area frontaliera della regione, che presenta alcuni problemi vicini a quelli dell'area giuliana.
Quest'ultima indicazione peraltro è andata disattesa, per carenza di risorse scientifiche. In considerazione dei limiti di tempo e di risorse, si prevedeva di privilegiare nella ricerca alcuni filoni strategici, relativi al ruolo dei governi militari, alla costruzione dei nuovi sistemi politici, alla ricostruzione economica ed ai problemi delle culture di confine. Il termine ad quem dell'indagine veniva individuato per il versante italiano nella costituzione della Regione Autonoma Friuli - Venezia Giulia, segno di piena «normalizzazione» della realtà istituzionale e politica del dopoguerra. Rispetto a tale indicazione temporale, l'ampiezza delle tematiche da affrontare ex novo ha suggerito in corso d'opera di concentrarsi sulla fase dell'«eccezionalità» protrattasi fino al 1954, rimandando ad altra ricerca l'analisi dell'inserimento pieno dei territori di frontiera nei contesti italiano e jugoslavo.
Se questi dunque erano i propositi sul piano dei contenuti, su quello dell'impianto storiografico si partiva da un giudizio articolato in merito alle diverse stagioni di studi attraversate dalle storiografie italiana, slovena e jugoslava sul tema del confine giuliano: tutte storiografie che in passato, con tempi e forme diverse, erano interessate a rafforzare la coesione e l'integrità della nazione, preoccupandosi di legittimare innanzitutto l'appartenenza «giusta» della regione di confine. L'«eredità storiografica» da ambedue i lati del confine ha nutrito a lungo pregiudizi etnocentrici e rafforzato quelle medesime barriere che gli stessi storici dichiaravano idealmente di voler comprendere, se non abbattere. Così, nonostante il pluridecennale dialogo storiografico italo-sloveno, il superamento di una visione nazionale e autoreferenziale della storia di confine non appare ancora compiuto, e stenta a realizzarsi uno spazio aperto di discussione storiografica in grado di contribuire a una storia congiunta dell'area di confine, ma capace soprattutto di contenere la pluralità di sguardi. Uno sguardo congiunto può però scaturire soltanto da una riflessione senza indugi in primo luogo sulle categorie interpretative e sugli strumenti concettuali finora largamente condivisi, in secondo luogo sulle pratiche storiografiche che considerano non soltanto gli uni in rapporto con gli altri ma soprattutto gli uni attraverso gli altri, in termini di relazioni, interazione, circolazione. La sfida attuale della storiografia di frontiera pare dunque quella di rompere la prospettiva unidimensionale e semplificatoria che rende la realtà storica omogenea anche quando non lo è o non lo è stata.
Il progetto «Dalla terra divisa al confine ponte» si inseriva quindi nell'ambito dei tentativi compiuti da storici italiani e sloveni di procedere lungo una strada nuova, che superasse anche i risultati - pur pregevoli - ottenuti con il confronto tra le storiografie nazionali, quale si è realizzato nell'ultimo decennio del secolo scorso con i lavori dalla Commissione mista storico-culturale italo-slovena. L'obiettivo finale infatti della nuova stagione di studi avviatasi dalle due parti del confine, consiste proprio nel superamento dei paradigmi delle storie nazionali, per puntare ad una nuova storiografia post-nazionale. Il risultato non è dietro l'angolo, perché I condizionamenti culturali e formativi e gli schemi mentali di un recentissimo passato non sono facili da rimuovere, nemmeno quando lo si desidera, ma l'unica via possibile da battere è quella della ricerca in comune, rispettosa delle sensibilità e dei tempi di elaborazione di ciascuno.
In questo senso, il progetto ha cercato di far lavorare assieme studiosi di lingua italiana e slovena, cittadini dell'Italia e della Repubblica di Slovenia, attivi nelle principali istituzioni storico-scientifiche della fascia transfrontaliera, puntando alla piena condivisione di un intero percorso di ricerca, dall'individuazione dei collaboratori, degli argomenti e delle fonti fino alla stesura delle relazioni finali. Per un verso, tale disegno è stato reso più facile dai numerosi e stretti contatti personali che numerosi ricercatori avevano già intrecciato in passato, così come dal ruolo di cerniera tra le due storiografie che da tempo svolgeva l'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli Venezia Giulia. D'altro canto però, alcuni difetti strutturali del programma Interreg IIIA/Phare CBC Italia-Slovenia - relativi alla mancata sincronizzazione tra ricerche finanziate in Italia e Slovenia, nonché ai limiti posti all'attività dei ricercatori sloveni prima dell'entrata della Slovenia nell'Unione Europea - non hanno consentito di sviluppare appieno le potenzialità del progetto. In ogni caso, è stato possibile coinvolgere nella ricerca, attraverso l'istituzione di alcune borse di studio di varia durata, un gruppo di giovani e promettenti studiosi, italiani e sloveni, che in alcuni casi si sono mostrati capaci di produrre contributi fortemente innovativi.
Quanto ai metodi, un impegno prioritario è stato individuato nell'acquisizione di nuove fonti, ed in effetti le indagini compiute hanno consentito di individuare e in parte recuperare una grande mole di materiali conservati non solo negli archivi locali, ma soprattutto in alcuni archivi nazionali e internazionali come l'Archivio della Commissione alleata di controllo depositato in copia microfilmata presso l'Archivio Centrale dello Stato di Roma, l'Archivio della OEEC, in deposito presso l'Istituto universitario europeo di Firenze, gli Archivi Nazionali di Londra e Washignton, alcuni documenti dell'UNRRA Italia, conservati nel fondo Ferruccio Parri dell'Istituto nazionale per la storia del movimento di liberazione in Italia, per citare soltanto I più significativi. Ne è emerso un patrimonio documentario imponente, che al momento è stato solo in parte rielaborato ai fini dei saggi qui pubblicati, e che potrà costituire la base per molte ricerche a venire.
Un altro aspetto particolarmente curato nella fase di progettazione è stato quello della comparazione delle situazioni createsi nelle zone sotto amministrazione anglo-americana, italiana e jugoslava. Di fatto, il diverso stato dell'arte in Italia e Slovenia nonché la disponibilità concreta di ricercatori, ha fatto sì che tale comparazione non sempre sia stata possibile. Così, se in alcuni filoni di ricerca (amministrazione, economia e politica) vi è stata la possibilità di confrontarsi anche sul piano metodologico, in altri settori come ad esempio quello culturale e quello sociale si sono riscontrate maggiori difficoltà, nonostante vadano senza dubbio registrati alcuni primi tentativi di approfondimento.
Nel corso della ricerca, ogni settore ha proseguito autonomamente rispetto agli altri, sotto il coordinamento del Comitato scientifico formato da esperti designati da tutte le istituzioni scientifiche aderenti al progetto, e con periodiche verifiche comuni nel corso delle quali sono stati messi a confronto i risultati e le ipotesi interpretative sollevate, cercando di far confluire poi le comuni riflessioni in una serie di interrogativi più generali quali: i tempi della periodizzazione, il concetto di aiuto e le sue molte declinazioni nelle zone A e B, i diversi piani della politica, i limiti del direct rule, la nascita di un nuovo patriottismo etc. Durante i tre anni di lavoro inoltre si sono organizzati alcuni seminari di approfondimento, ai quali sono stati invitati studiosi italiani e sloveni esperti della materia ma estranei al progetto, i quali hanno offerto il loro prezioso contributo alla discussione, come pure storici provenienti da altre regioni che hanno consentito di gettare uno sguardo a realtà diverse ma comparabili con quella giuliana, come ad esempio l'Alto Adige/Sudtirolo e l'Austria postbellica. Nel febbraio 2006 inoltre ha avuto luogo un convegno di metà percorso, curato da Anna Maria Vinci con la partecipazione di discussants esterni al progetto, che ha costituito un importante momento di verifica e riavvio del lavoro in comune.
È del tutto evidente però, nonostante l'intenso impegno di lavoro profuso in questi tre anni, come numerosi temi rimangano ancora scoperti, proprio perché la storia del dopoguerra giuliano, se indagata con metodi rigorosi, si presentava per molti versi come un mare ignoto con pochi affioramenti certi. Così, solo per fare qualche esempio, sono rimasti in ombra nodi importanti, come il ruolo della Chiesa nella ricostruzione politica e sociale, l'organizzazione del lavoro, oppure la delicata e ancora controversa questione dei percorsi di integrazione dei profughi giuliani e dalmati nella società locale, le forme di modernizzazione intraprese dalle autorità jugoslave nei centri urbani dell'area di confine, solo per citare i più importanti.
Volendo quindi tentare un primo bilancio, va subito detto che i contributi qui proposti rappresentano soltanto una prima parte dei risultati prodotti dal progetto. Comprimere infatti in un numero ragionevole di pagine - tenuto conto anche della pubblicazione bilingue - gli esiti di indagini approfondite e articolate, non è stata cosa semplice. Ciò che il lettore troverà, è una prima indagine su argomenti che verranno ulteriormente approfonditi in successive pubblicazioni, centrate sui diversi aspetti della storia del dopoguerra nell'area transfrontaliera.
In termini generali comunque, si può affermare che, come avviene con tutti i gruppi di ricerca numerosi, la sfida di affrontare un gran numero di tematiche si è rivelata alquanto faticosa, ed ha prodotto frutti diseguali. Il lettore si renderà facilmente conto di come nei saggi facciano talvolta capolino ipotesi interpretative che avrebbero ancora bisogno di essere approfondite per sfuggire da giudizi e da linguaggi, dai quali traspaiono ancora oggi gli echi della passata contrapposizione nazionale, che per decenni ha influenzato entrambe le storiografie.
Sostanziali passi in avanti sono stati fatti nella ricostruzione dei tratti peculiari del sistema politico a Trieste e nell'organizzazione dei partiti politici, nella gestione economica, ma anche politica degli aiuti erogati dagli Alleati, sul versante dell'individuazione, cooptazione e dell'organizzazione del personale da parte del GMA, sulle dinamiche del mercato del lavoro. Vi sono inoltre dei contributi, purtroppo pochi rispetto ai progetti iniziali, che hanno scandagliato aspetti amministrativi ed economici dell'area del monfalconese e del goriziano, che rappresen-tano indubbiamente per il prosieguo uno dei terreni da dissodare in altre direzioni. Altrettanto importanti ed apprezzati sono stati i contributi riguardanti l'evoluzione politica, economica e sociale nell'area dell'allora zona B prodotti dai colleghi sloveni.
In conclusione, pur nell'ambito di una ricerca che ha appena iniziato il suo cammino, sulla scorta di tali studi crediamo si possano già avanzare alcune considerazioni in merito ai risultati raggiunti. In primo luogo l'ampio raggio delle nostre ricerche ha consentito di individuare una serie non piccola di condizionamenti reciproci tra i comportamenti dei governanti e le aspettative dei governati. Nella zona A, il Governo Militare Alleato si dimostrò tutt'altro che insensibile ai suggerimenti ed agli inputs che gli provenivano dalla realtà locale, che in non pochi casi riuscì a modificare la linea politica inizialmente intrapresa dagli angloamericani sulla base delle esperienze da loro accumulate nei paesi di provenienza oppure nel resto d'Italia, indirizzandola nel senso di una sostanziale continuità con le esperienze locali. Queste ultime, soprattutto in campo economico, ma con importanti riflessi nella politica e nella società, si erano amalgamate soltanto in parte con i modelli ormai diffusi nel resto della Penisola, e la rete dei condizionamenti reciproci finì da un lato con il frenare le istanze innovatrici delle quali gli Alleati si erano fatti inizialmente promotori, dall'altro confermarono le particolarità dell'ambiente locale rispetto al resto d'Italia, conservando fino agli anni Cinquanta un sistema economico che risultava ormai obsoleto in alcune sue componenti fondamentali.
D'altra parte, anche i primi studi sulla zona B confermano l'importanza delle interazioni tra l'ambiente locale e l'amministrazione militare jugoslava. Quest'ultima, pur risultando certamente più prossima alla realtà amministrata rispetto a quella angloamericana, nei primi tempi aveva assunto alcuni atteggiamenti di estraneità rispetto alle esigenze locali (come nel caso dell'industria ittica), per poi ribaltare l'iniziale impostazione e farsi carico di un rilancio complessivo dell'area sottoposta alla propria amministrazione, investendo risorse notevoli (non solo dal punto di vista economico), al fine di riguadagnare il consenso almeno di quella parte della popolazione politicamente più vicina alla Jugoslavia.
Inoltre, è emerso in diverse occasioni il valore centrale assunto dalle programmazioni avviate nella zona A nel corso del 1947, in particolare tra il febbraio ed il settembre. Se nei mesi precedenti l'attenzione era stata catalizzata dalla definizione della linea confinaria, dalla firma del Trattato di Pace con l'Italia alla sua attuazione si concentrarono buona parte delle energie programmatorie spese dai principali soggetti in campo. La mancata realizzazione del Territorio Libero di Trieste vanificò in buon parte quegli sforzi, diluendoli in una serie di piccole azioni-tampone, in attesa di una soluzione definitiva della vicenda. Ma quella fiammata di progetti rivela appieno la lucidità d'analisi dei protagonisti, e la voglia di rinnovamento che si era diffusa all'interno della società triestina, tanto da contagiare anche l'amministrazione alleata.
In terzo luogo, ed in stretta connessione con quanto detto poc'anzi, va rilevata la perdurante ottica di breve periodo adottata dalla Amministrazione militare alleata, stretta tra l'incertezza sul futuro assetto delle due Zone e le richieste che le comunità locali erano pur capaci di esprimere, ma in modo confuso e spesso contraddittorio. Per motivi diversi, all'interno di entrambe le Zone la dialettica politica non poteva esprimersi con gli strumenti della democrazia rappresentativa (nella zona A fino al 1949), e l'assenza di sedi proprie all'interno delle quali sintetizzare richieste condivise portò all'uso diffuso di sedi alternative non istituzionali, ma radicate nella tradizione dell'agire politico, quali le piazze, la propaganda, la polemica giornalistica o le azioni dimostrative. Ciò produsse una frammentazione del discorso politico in numerose arene tutt'altro che comunicanti l'una con l'altra. Per la zona A, la corta durata dell'ottica di governo portò all'adozione di compromessi che gli stessi Alleati definirono «soluzioni di oggi, problemi per il domani». Si tratta, si diceva, dei primi risultati della presente ricerca, che rappresentano però anche importanti spunti per le ricerche future.
La strada pertanto è ancora lunga, ma un importante passo in avanti, soprattutto nel campo della collaborazione e del confronto è stato fatto, ed il Convegno conclusivo del maggio 2007 svoltosi a Trieste e Capodistria, ne è stato una esplicita testimonianza, da sviluppare su rinnovate basi di collaborazione e comune progettazione in futuro, con l'obiettivo sempre più urgente di superare del tutto le storiografie nazionali, che tendono ad ingabbiare gli sguardi degli storici, impedendo ad essi di indugiare con curiosità sulle esperienze degli altri, per poterle condividere.
1 In particolare, si rimanda ai saggi contenuti in: A. Verrocchio (a cura di), Trieste tra ricostruzione e ritorno all'Italia (1945-1954), Irsml Fvg-Comune di Trieste, Trieste 2004, e La città reale. Economia, società e vita quotidiana a Trieste 1945-1954, Comune di Trieste, Trieste 2004.