Paure e speranze a Mitrovica, città divisa. Le difficoltà e l'attesa di chi da anni lavora con la società civile kosovara per costruire dialogo e convivenza. Riceviamo e volentieri pubblichiamo
di Gian Matteo Apuzzo
Come si può essere costruttori di ponti in una città divisa dove il ponte rappresenta il confine? A Mitrovica questa è la domanda ancora più urgente dopo la dichiarazione dell'indipendenza del Kosovo, perché nel percorso di dialogo e riconciliazione tra serbi e albanesi la dichiarazione, così come è stata fatta, sembra riportare tutto a zero. E il ponte rimane simbolo, strumentale alla divisione e alla contrapposizione in maniera ancora più evidente. La città di Mitrovica inizia e finisce sul ponte, che si stia a nord o a sud. Nessuna delle due parti vuole "conquistare" l'altra, l'importante è che tutto rimanga com'è. E che il ponte principale della città sia un simbolo è dimostrato anche dal fatto che, mentre questo rappresenta un passaggio controllato, militarizzato e spesso chiuso, paradossalmente altri due ponti (uno piccolissimo, per pedoni, quasi una passerella) sono transitabili e superabili senza difficoltà, anche nelle giornate di tensione.
E la divisione, la separatezza, in queste giornate successive alla dichiarazione di indipendenza, non sta solo nell'appartenenza etnico-nazionale, ma sta anche nei volti, nello stato d'animo, negli sguardi delle persone. La divisione è nella vita quotidiana, nelle attese e nelle speranze. A sud, dopo la festa, i caroselli d'auto e le danze di domenica 17 febbraio, c'è stato un immediato ritorno alla normalità, a dimostrazione che, pur nella felicità di questi giorni, l'indipendenza era un fatto in un certo senso ormai scontato. A Mitrovica nord invece da lunedì la vita si è come sospesa, la gente si è messa in attesa, e, mentre a sud la vita scorre normalmente, a nord le giornate sono scandite dalle manifestazioni quotidiane.
C'è più spaesamento che rabbia, c'è più sconforto che violenza negli sguardi, almeno nei primissimi giorni dopo la dichiarazione d'indipendenza. A Mitrovica nord si sono avuti solo piccoli atti dimostrativi contro edifici che ospitano le istituzioni europee e internazionali, che hanno ovviamente alzato la tensione. Ma la violenza per ora c'è stata altrove, a Belgrado o al confine tra Serbia e Kosovo. A Mitrovica nord nel giorno dell'indipendenza del Kosovo regnava un surreale silenzio, che è continuato in parte anche nei giorni successivi, anche nella prima manifestazione del lunedì, quella generale di protesta, quando in città sono arrivati in molti da tutto il nord del Kosvo. Quella è stata una manifestazione molto partecipata e popolare, sono arrivate intere famiglie con le auto e i pullman, non solo giovani ma anche vecchi e bambini, nei cui volti appunto si leggeva l'incertezza. Solo gli studenti, nei giorni successivi, sono riusciti a trasformare la loro contrarietà in "rumore", facendo sentire la loro voce anche attraverso una buona dose di creatività.
Parole come dialogo, come integrazione, sono però bandite da queste giornate, a nord quanto a sud. A sud, la popolazione albanese le riconosce come fattori inevitabili nel tempo, da qui in avanti, una normale fase del futuro del paese, che alla fine "gli altri" finiranno per accettare. A nord in questi giorni rischiano di essere parole da "traditori". Anche chi le riconosce come parole necessarie per il bene del Kosovo, o di Mitrovica stessa, le sussurra a porte chiuse, rendendole al momento, inevitabilmente, scatole vuote. Paradossalmente sembra che sia necessario che la divisione si radicalizzi per ricominciare a parlarsi.
E tutto allora si delega all'esterno, le colpe come le risposte. La divisione della città, e del Kosvo, diviene una "guerra fredda in miniatura", nella quale una parte si rivolge agli Stati Uniti e l'altra alla Russia, come salvatori dei rispettivi diritti alla madrepatria. Le speranze di sviluppo sono delegate ai donors internazionali e alla volontà dell'Unione Europea di sostenere un paese ancora troppo impreparato a camminare con le proprie gambe. Questo continuo delegare all'esterno indebolisce anche la capacità di vedere all'interno della società kosovara le possibilità di un dialogo e di un percorso di riconciliazione.
Allora costruire ponti appare impossibile. La domanda "e adesso?" accompagna il lavoro quotidiano, che anche in questi giorni è continuato, degli operatori di pace italiani presenti in Kosovo e a Mitrovica. Questa è la domanda che, in questa settimana passata a Mitrovica insieme agli amici dell'Associazione per la Pace, abbiamo fatto al di qua e al di là del ponte. Nessuno risponde, dalle persone comuni ai rappresentanti istituzionali e associativi. Incertezza, paure e speranze si sovrappongo. Il ponte rimane il confine, questa per ora, purtroppo è l'unica certezza.