La guerra vista con gli occhi di un adolescente. La testimonianza di Ettore Camera (Tratto da Isonzo-Soča n.66, febbraio-marzo 2006)
Gorizia in guerra. Gli anni del fascismo e della seconda guerra mondiale.
A oltre sessant'anni di distanza è ancora difficile farsi un'idea di quel periodo storico. Perché Gorizia non è paragonabile alle altre città dell'Italia settentrionale che hanno vissuto la guerra, l'armistizio dell'8 settembre e la successiva "guerra civile" fra fascisti di Salò e partigiani.
Qui, sin da prima, col fascismo di frontiera, con l'ammassamento di ingenti forze militari impiegate per l'attacco e l'occupazione della Slovenia e della Croazia, con la creazione dell'Adriatisches Küstenland nazista e la presenza di varie formazioni alleate dei tedeschi, tra cui la Decima Mas, i cetnici, i domobranci, i belagardisti e altri, e con i monti intorno alla città presidiati dai partigiani di Tito, qui a Gorizia la situazione era diversa, molto più complessa. Anche per le differenze linguistiche, per gli opposti nazionalismi.
Poi un territorio di confine come il nostro complicava ancor di più una situazione già frantumata, divisa, a causa delle diverse e spesso contrapposte ideologie e visioni del mondo.
Per cui oggi anche la memoria di quegli avvenimenti risulta incerta, l'immagine della città in guerra appare sfocata, lontana nel tempo, più di quanto non sia in realtà.
Per queste ragioni la testimonianza che qui pubblichiamo ci pare preziosa e degna di attenzione. Gli occhi di un adolescente ci rendono sorprendentemente vicina quella Gorizia, rendono semplice ciò che è complicato, gettano una luce di normalità in una situazione anomala.
Ettore Camera è un signore distinto, dai capelli bianchi. Una persona schiva. "Sono uno che non socializza troppo", dice di sé, prima di cominciare questa conversazione in cui parla dei suoi ricordi di studente a Gorizia negli anni del secondo conflitto mondiale.
Il signor Camera ha un'ottima memoria e inizia inquadrando scrupolosamente il suo racconto.
Sono nato a Montenero d'Idria, nel 1928. Nato lì, un po' casualmente. Quella volta era Italia, provincia di Gorizia, oggi è in Slovenia e si chiama Črni Vrh. Mio padre era maresciallo dei carabinieri nella zona di confine fra Idria e Postumia. Mia mamma faceva la maestra elementare. I miei genitori venivano trasferiti spesso, da un paese all'altro, un anno a Plezzo (Bovec), tre anni a Caporetto (Kobarid) e così via. Entrambi erano italiani e vivevano in paesi abitati da sloveni. Stavo bene da quelle parti, ho imparato un po' di sloveno vivendo lassù e ancora oggi mi arrangio a parlarlo. Negli anni Trenta in quei paesi si sentiva nell'aria una forte ostilità nei confronti dell'Italia fascista. Si sentiva parlare del movimento irredentista slavo TIGR (Trst, Istra, Gorica, Rijeka). Ero bambino ma ricordo i momenti in cui si temeva un attacco o un'attentato di questa organizzazione e un giorno mio padre venne a prenderci, di notte, e ci portò a Gorizia.
Mio padre morì nel 1936 dopo una lunga malattia. Ancora prima della guerra abitavamo ad Anhovo, dove mia mamma continuava ad insegnare (allora si chiamava Salona d'Isonzo). Da questo paese venivo a Gorizia con il treno, era una "Littorina", per frequentare le scuole medie (allora si chiamava ginnasio). Scendevo alla stazione della Transalpina e a piedi andavo in viale XX settembre dove si trovava la scuola, poi ritornavo al paese.Fin che era vivo mio padre vivevamo bene in quei paesi del Goriziano. Mia madre come maestra aveva uno stipendio di duecento lire al mese ma mio padre arrivava fino a mille lire, per le varie indennità tra cui quella di confine che era molto consistente (proprio a quel tempo era in voga la canzone "Se potessi avere mille lire al mese..."). Quando è scoppiata la guerra ci siamo trasferiti a Gorizia. Siamo andati ad abitare in una casa in via Balilla.
Nel mese di aprile 1945 non avevo ancora compiuto diciassette anni e frequentavo il liceo classico, che era stato spostato dall'edificio di viale XX settembre (all'epoca adibito a caserma fascista) alle scuole magistrali in corso Verdi, dove oggi c'è il comando dei carabinieri. Appartenevo alla classe del 1928, che non era stata ancora arruolata. Quelli del 1927 invece erano alle armi. Però dovevo andare a lavorare, in Val di Rose (subito dopo la Casa rossa), servizio obbligatorio, scavavamo trincee e bunker. Ci sorvegliavano vecchi soldati tedeschi della riserva. A lavorare c'erano ragazzini come me o adulti avanti con gli anni perché gli altri giovani, quelli che avevano un anno più di me, avevano dovuto scegliere di andare o con i fascisti o coi partigiani. Ho lavorato lì alcuni mesi tra l'inverno e la primavera del 1945 (più volte ho pranzato quel po' che mi portavo da casa seduto su una delle lapidi del cimitero israelita). Prendevo dei soldini, dai tedeschi, mica poco...Come studente avevo l'obbligo di andare tre giorni a scuola e tre giorni a lavorare. Avevamo un libretto in cui veniva annotata la giornata di lavoro e alla fine del mese ci pagavano.
Divise diverse
A Gorizia in quel periodo c'erano soldati con divise diverse, una confusione di situazioni. Ma ho ben chiari alcuni ricordi.
I cetnici (serbi monarchici, combattevano coi nazisti) per esempio. Un giorno di gennaio o febbraio del 1945 ero al cinema Eden (era una sala modesta, veniva chiamato "pidoceto" perché era piuttosto trasandata; si trovava dove oggi c'è il cinema Corso). Non ricordo quale fosse il film in proiezione ma durante l'intervallo del primo tempo si accende la luce e vedo seduto accanto a me un tizio con la barba e i capelli lunghi. Poi mi giro e vedo intorno altri soldati simili, visi truci...Facevano paura, eh...
Poi altri episodi in via Carducci, ci passavo sempre perché abitavo lì vicino, in via Balilla. All'altezza del sottopassaggio di via Favetti sostava un gruppo di cetnici e un giorno sentii gridare uno di essi: " Fasistov se ne boj mo", noi non abbiamo paura dei fascisti, io lo dico in sloveno ma lui lo diceva in serbo. Poi mi venne raccontato da molte persone che abitavano nella zona che gli stessi cetnici avevano ucciso proprio lì un soldato italiano, poco più che un ragazzino che io conoscevo di vista - faceva lo Scientifico mi pare - che però girava armato in divisa fascista.
C'erano anche i belagardisti, sloveni cattolici alleati dei nazisti. Un giorno mentre andavo a scuola, ricordo che avevo la cartella, mi sono fermato in via Carducci a guardare una vetrina proprio dove oggi c'è il giornalaio. Dalla porta del negozio esce urlando un belagardista che mi accusa di volergli rubare la bicicletta. Pensava che io guardassi la sua bicicletta con l'intenzione di portargliela via. Poi si calmò. Certo, la bici allora era preziosa...
Poi i domobranci, sloveni nazionalisti alleati dei nazisti. L'anno prima (1944) aveva destato grande clamore in città l'attentato al teatro Verdi contro questi domobranci, provocato probabilmente da italiani fascisti (però, non è che si sappia molto su questi episodi). Morirono cinque persone. Allora i domobranci per ritorsione (sembra aiutati dai tedeschi) pochi giorni dopo fecero saltare il monumento ai caduti del parco della Rimembranza. Io mi sono spiegato così quei fatti. In città comandavano i tedeschi, i quali nei confronti dei loro vari alleati praticavano la politica del "divide et impera". Gli sloveni trassero vantaggio da questa situazione: dopo gli anni del regime fascista che negava loro anche la possibilità di parlare nella loro lingua, ora avevano riacquistato certi diritti (in questo periodo furono anche riaperte le scuole slovene). Per questo, quando i tedeschi concessero il Verdi (considerato un "tempio dell'italianità") ai domobranci sloveni, gli italiani insorsero. E' in questo clima che avvengono quei fatti.
Ma in città c'era anche un reparto di cosacchi, al seguito dei tedeschi, e si poteva incontrare anche qualche ustascia croato.
Un mio amico era andato coi partigiani (poi finì in campo di concentramento in Germania e morì), un altro che era in classe con me veniva a scuola in divisa fascista (probabilmente era volontario), faceva tante assenze...un giorno seppi che aveva aiutato un suo compagno pugnalato in strada. Succedevano di questi episodi, anzi erano molto frequenti. Un giorno nella bacheca della scuola comparve un volantino antifascista e tutti andavano a leggerlo, poi arrivò un ragazzo in divisa fascista e allontanò tutti urlando e estraendo una pistola. Credo che il volantino l'avesse affisso uno studente che conoscevo di vista. Suo padre nell'immediato dopoguerra è stato direttore del giornale "Il Lunedì".
Poi c'erano gli alleati che bombardavano. La mia casa in via Balilla è stata colpita, tutte le nostre masserizie distrutte. Abbiamo dovuto trasferirci, in via Zorutti, proprio dietro il Liceo di viale XX settembre. E anche lì arrivavano le bombe, durante un'incursione sono stato ferito: ero in casa seduto alla finestra, un piede a terra e l'altra gamba allungata sul davanzale, la finestra aperta, leggevo un libro. Esplode una bomba e lo spostamento d'aria mi getta nella stanza vicina. Ero tutto sporco di sangue, niente di grave ma gran paura: i vetri della finestra frantumati mi avevano tagliuzzato dappertutto, superficialmente per fortuna.
Gorizia e Monfalcone
Io sentivo un clima di assedio in città. Si sapeva che sui monti qui attorno c'erano i partigiani di Tito. Ma non avevo paura...i giovani vivono in un loro mondo...ero studente, spensierato. Ma in febbraio era successo il fatto di Porzûs e sentivo il timore degli italiani, anche il timore di perdere Gorizia. Ecco, in quei giorni ho avuto questa sensazione, forse per la prima volta.
Ero un ragazzo piuttosto chiuso, però, come tutti gli altri, tutti noi studenti andavamo a fare le vasche in Corso. A quel tempo c'era molta più gente in giro, che passeggiava, molta più di oggi.
Erano gli ultimi giorni di aprile, dev'essere stato il giorno 30, verso l'una, l'uscita da scuola. Ero in Corso, all'altezza della Casa del fascio, l'ex Trgovski dom, e vedo la strada vuota. A quell'ora di solito c'è affollamento. Incontro la sorella di un mio amico che mi dice: "Ma cosa fai in giro? Scappa via! Hanno preso mio fratello!". Lì mi sono allarmato. Oggi nei libri leggo che gli jugoslavi sono entrati in città il 1° maggio, io credo invece che c'erano già il giorno prima, il 30 aprile, appunto. Dopo ho saputo che in effetti quel mio amico (si chiamava Salvatore Cutrofello, avevamo le stesse idee; è morto qualche anno fa) era stato preso dai partigiani di Tito e imprigionato per due o tre giorni, in via Barzellini.
Ecco, io mi sentivo dalla parte dei partigiani, già allora ero antifascista, ma italiano. Per cui pensavo che se Gorizia fosse passata alla Jugoslavia io sarei andato via. Ero un ragazzino, ero senza un padre che mi dicesse cosa fare. Avevo mia madre maestra, sì, coi suoi insegnamenti, che sono stati molto importanti per me, specie le sue storie sul Risorgimento (per questo oggi mi sento molto vicino al presidente Ciampi).
Può sembrar strano che io avessi già le mie idee politiche, per un ragazzo allora, a Gorizia, non era facile acquisire un sentimento antifascista. Ma per me, personalmente, c'è un motivo preciso.Quel sentimento l'ho acquisito a Monfalcone, dove i miei zii, i fratelli di mia mamma avevano un grosso mulino con una ventina di operai. Io quando potevo andavo lì, mi piaceva stare con gli operai, lavorare con loro. Erano in gran parte comunisti. A Monfalcone c'era un'altra atmosfera, in Cantiere c'erano ottomila operai, lì sentivo una partecipazione forte contro il fascismo; che c'era anche nel ceto medio borghese, non filocomunista ma filoamericano. Poi tornavo a Gorizia e vedevo una situazione completamente diversa. Ecco, vedendo questi due mondi cominciavo a ragionare con la mia testa, avevo la possibilità di vedere due modi di vivere. Ho imparato molto così, e ho affinato il senso critico.
Due giorni in gattabuia
Allora, quando ho saputo di quel mio amico portato in via Barzellini, ho preso la decisione di andarmene da Gorizia.
Ritornai subito a casa e dissi a mia madre ed a mia sorella più piccola che sarei andato a Monfalcone, dagli zii. Prendo una borsa, metto dentro dei pezzi di pane e delle sigarette che mi avevano dato sul lavoro i tedeschi, io non fumavo ma tenere sigarette era come avere qualche soldo in tasca, e vado. Era il primo o il due di maggio, i treni non funzionavano, dovevo andare a piedi...a Monfalcone a piedi ci si poteva andare. Avevo sentito che si poteva passare la passerella a Straccis. Arrivo là, e quando sono a circa cento metri vedo un soldato jugoslavo, un "titin" che fa la guardia, col fucile. Allora devio e mi dirigo verso il Carso. Arrivo a Savogna, al ponte del Vipacco. Sento uno sparo, un colpo in aria, poi vedo alcuni partigiani: "Stoj!". Erano partigiani del posto. Mi fermano e mi portano con loro in un'osteria (era ancora aperta fino a qualche anno fa, di fronte all'odierno municipio di Savogna). Mi ritrovai in compagnia di altri due ragazzi, due fratelli italiani, uno dei quali diceva di essere un partigiano garibaldino, l'altro era più giovane. Ci hanno caricati su una carretta e insieme a due o tre partigiani e portati a San Pietro (Šempeter), nelle carceri, che si trovavano nella locale stazione dei carabinieri requisita dai soldati di Tito. Durante il tragitto mi sentivo come il re di Francia portato alla ghigliottina.
Quell'edificio è ancora lì: quando si passa il valico di Šempeter, subito dopo a destra c'è il cimitero e poi il semaforo; prima del semaforo, la penultima casa a destra, ogni volta che passo la guardo. C'è anche una lapide che ricorda le sofferenze patite colà dai patrioti sloveni catturati dai fascisti ma bisognerebbe ricordare che là hanno sofferto anche gli italiani. C'è una canzone partigiana slovena che racconta di quella caserma:"Kam greš...Dove vai bella moretta alla mattina quando ancora deve alzarsi il sole? Vado nella caserma di San Pietro a trovare il mio fidanzato partigiano...". La canzone è ripresa da una celebre canzone della guerra civile spagnola: "Donde vas morena?..."
Allora ci portano in quella gattabuia. C'erano due o tre gradini, si scendeva. Sono rimasto là due giorni e due notti. Il posto era già pieno di gente che stava dormendo, una stanza grande, col pavimento in terra battuta. Anche di giorno era buio. Poi ho conosciuto qualcuno. In fondo ho visto tre ausiliarie, fasciste italiane. Mi ha colpito la figura di un domobranc, deve essere stato un ufficiale, cercavano di parlare con lui, gli dicevano "Sei contro la Jugoslavia, contro la libertà", e lui sempre zitto. Aveva preso anche delle botte. C'erano degli istriani o fiumani, lavoratori della Todt, italiani, parlavano in dialetto e fumavano sigarette con paglia al posto del tabacco.
Nel pomeriggio ci lasciavano liberi nel cortiletto, si poteva star fuori. C'era un gruppo di partigiani che cantava canzoni popolari, erano bravissimi. Quando si mettono a cantare in coro gli sloveni sono bravissimi. Fra di loro c'era una donna, era ufficiale, una donna energica con una gran pistola sul fianco.
Ci interrogavano di notte. Saranno state le due di notte e mentre dormivo mi hanno chiamato su per l'interrogatorio. "Io ti ho già visto, eri della Decima Mas" mi diceva quella donna ufficiale mettendomi la luce della lampada negli occhi. " O sei del battaglione Mussolini?". Cercava di cogliermi in fallo, di addebitarmi qualche azione fascista che io evidentemente non avevo fatto. Poi tornavo nella mia prigione.
Due giorni senza mangiare, avevo una fame maledetta. L'ultimo giorno mi hanno dato delle patatine liofilizzate secche, prese ai tedeschi. Non avevo mai visto né assaggiato niente di simile, le mangiavo proprio con piacere.
La mattina del terzo giorno ci hanno inquadrati sulla strada e ci siamo messi in marcia verso il centro di Gorizia, la strada dell'ospedale, che era ancora in costruzione. Eravamo circa una trentina, alcuni sono rimasti là dentro, le tre ausiliarie e il domobranc. Temo che abbiano fatto una brutta fine.
L'arruolamento
Siamo arrivati alla scuola di via Roma, ex convento delle Orsoline, l'edificio che si trovava dove oggi c'è l'auditorium. C'era un grande cortile, un piazzale, e lì al centro un gran pentolone col fuoco sotto dove cucinavano una minestra. Tutt'intorno partigiani sloveni e anche qualche italiano. Ho fatto una lunga fila per ricevere quella minestra, l'ho fatta due volte, mi pareva buonissima...
E poi l'arruolamento: una fila di italiani e una fila di sloveni, visita medica per essere arruolati, secondo i dettami di un bando che era stato affisso sui muri della città. Ci dicevano che saremmo dovuti andare nella Jugoslavia del sud a combattere gli ultimi nuclei di resistenza di tedeschi e fascisti. Io vado nella fila degli italiani e arriva un medico giovanissimo, forse era uno studente di medicina. Quando il suo assistente fa il mio nome e dice"...nato a Montenero d'Idria", il medico mi fa: "Ti si Slovenc...va nell'altra fila". E lì è stato un momento un po' particolare perché sentivo che dovevo comportarmi con dignità e ho detto: "No, io sono italiano". E' andata bene così, sono risultato sano e il medico ha scritto sul foglio "Arruolato, quindici giorni di permesso per bronchite". Allora mi sono sentito libero, libero come un uccello.
Sono corso a casa e quando mia mamma mi ha visto le ha preso un colpo...era molto legata a me, ero il figlio maschio...
Con quel foglio in mano potevo andare in giro liberamente. Io volevo andare a Monfalcone ma per muovermi dovevo farmi fare un'autorizzazione, bisognava avere il permesso per andare da qualsiasi parte. Per rilasciare permessi c'era un distaccamento di partigiani in piazza Cristo, di fronte all'ex casa di tolleranza (fra via Favetti e via Giustiniani, c'era anche lì una caserma dei carabinieri). Anche lì la fila per i permessi. Ricordo che c'erano anche tre o quattro prostitute che volevano tornare a casa...forse a Bologna...
Allora un po' a piedi, un po' su carri sono andato a Monfalcone, dai miei zii. Sono rimasto là tutta l'estate, a lavorare al loro mulino. A Gorizia, come militare arruolato non mi sono più ripresentato. Poi ho saputo che venivo considerato un disertore jugoslavo.