Per una regia unica tra internazionalizzazione economica e cooperazione solidale del Trentino. Pubblichiamo un editoriale di Mauro Cereghini, direttore di Osservatorio sui Balcani, in merito ai temi trattati nel recente convegno 'L'Europa di mezzo'
Sedici anni fa, il 9 novembre 1989, cadeva il muro di Berlino. Iniziava così un lento cammino di riavvicinamento tra Europa dell'ovest e dell'est, coronato l'anno scorso dall'ingresso di buona parte degli ex stati comunisti nell'Unione Europea. Dieci anni fa, sempre in novembre, si firmavano gli Accordi di Dayton. Si apriva con essi una nuova stagione per i paesi nati sulle ceneri della Jugoslavia. Stagione che non si può certo chiamare "di pace", ma che comunque porterà anch'essa prima o poi allo sbocco segnato nella casa comune europea. Anche di questo abbiamo parlato al convegno "L'Europa di mezzo", incontro annuale dell'Osservatorio sui Balcani organizzato assieme alla Regione Autonoma Trentino Alto Adige.
A dieci anni dalla firma degli accordi di Dayton, abbiamo voluto parlare di Bosnia Erzegovina e dei Balcani in generale superando la prospettiva, per certi versi stereotipata sebbene ancora attuale, della guerra e della pace. Abbiamo individuato infatti nella condizione economica e nel processo di integrazione europea le due chiavi per leggere il presente ed il futuro di queste terre. E lo abbiamo fatto assieme ad interlocutori inconsueti per noi e per il nostro mondo di riferimento: Coop, Confesercenti, Unicredito... Soggetti forti dell'economia tradizionale che abbiamo chiamato a confrontarsi con attori ed esperienze dello sviluppo locale dal basso. Un azzardo, una provocazione forse, ma sento di poter dire che è stata una provocazione interessante.
La novità infatti è che, mentre durante le guerre degli anni '90 erano i "volontari" ad occuparsi di Balcani, ultimamente anche il mondo economico si è accorto di quest'area. Intendiamoci, alcuni settori più spregiudicati hanno proliferato già durante le guerre, quando business e kalashnikov andavano a braccetto. Ma si trattava appunto delle forme più spregiudicate di economia: dal commercio di armi alle operazioni di riciclaggio finanziario, dallo smaltimento dei rifiuti al taglio indiscriminato dei boschi. Oggi invece sono importanti gruppi imprenditoriali, commerciali e bancari a muovere verso i Balcani. Ciò che attira è ancora l'economia finanziaria più che quella produttiva: le privatizzazioni, le grandi aree dismesse che diventano centri commerciali dove smaltire i prodotti non più vendibili da noi. Oppure l'interesse è dato dai bassi standard sociali ed ambientali, frutto della crisi sociale che tuttora perdura e della diffusa assenza di regole. Ma anche da un bisogno di aprirsi oltre confine che i sistemi locali italiani percepiscono sempre più chiaramente.
Oggi dunque con i Balcani, come con il resto dell'est europeo, hanno rapporti stabili tanto il mondo economico quanto quello della solidarietà. Lo si vede anche dagli strumenti concreti messi in campo dagli uni e dagli altri: azioni di sviluppo locale, di formazione professionale, di microcredito e microfinanza, di sostegno alla concertazione locale o a forme di patto territoriale, di miglioramento qualitativo delle filiere locali ecc sono interventi che spesso entrambi fanno. E' finita, per fortuna, l'epoca degli aiuti umanitari e della logica assistenziale. Ormai anche l'associazionismo si pone l'obiettivo di un tessuto economico e sociale indipendente come contributo alla rinascita del dopoguerra.
Se dunque internazionalizzazione economica e cooperazione solidale si avvicinano, ci si dovrà preoccupare di rendere armonico l'incontro. Era in parte questo il tentativo promosso dalle Legge 84 del 2001 sulla stabilizzazione, ricostruzione e sviluppo dell'area balcanica (Le priorità della legge 84 sulla ricostruzione nei Balcani: un commento). Ad oggi però, nonostante gli indubbi sforzi, è difficile dire che l'obiettivo di mettere a sistema le due braccia dell'internazionalizzazione italiana - guidate rispettivamente da Ministero Affari Esteri e Ministero Attività Produttive - sia pienamente riuscito. Così pure alcune Regioni si stanno ponendo questo stesso problema, e si vedono anche le prime sperimentazioni operative, ma ancora un percorso sistematico va costruito. E sarebbe importante farlo.
Però. Ci sono almeno due però da far risuonare forti. Se imprenditori e volontari italiani si trovano ormai fianco a fianco lungo le strade della Croazia o della Bosnia, e spesso a fare cose "simili", non è detto che il loro obiettivo finale - e perciò l'impatto sulle comunità locali - sia lo stesso. Fare impresa non è un modo per rafforzare automaticamente il luogo dove la si fa. Può esserlo, ma a certe condizioni. Che non sono quelle del mero sfruttare la mano d'opera locale a basso costo, o dell'adottare processi produttivi inquinanti altrove improponibili (abbiamo dimenticato il cianuro che avvelenò pochi anni fa il Danubio?). E queste condizioni vanno esplicitate, ad esempio in un codice di impegno etico per l'internazionalizzazione. Recentemente ad esempio la Toscana ha adottato un documento simile, ed altri enti locali ci stanno pensando. Un codice che dichiari, alla base delle relazioni territoriali da costruire con i Balcani e con l'est, il mutuo beneficio, e dunque la garanzia che anche i luoghi di insediamento vengano valorizzati positivamente dalle imprese, e non solo sfruttati. Un'ottica di reciprocità e bene comune figlia dei valori stessi delle nostre comunità locali, che non sono da dimenticare quando si va all'estero.
Secondo però: dare una regia condivisa alla proiezione internazionale dell'Italia, non significa rendere la solidarietà internazionale mero ammortizzatore degli effetti altrui. Fare un po' di beneficenza in Serbia, o costruire un centro culturale in Albania, non sono operazioni che di per sé rendono più accettabile la delocalizzazione selvaggia. Serve invece un confronto forte e paritario su cosa fare e come farlo, confronto in cui siano coinvolti sempre più anche interlocutori balcanici, dalle autorità locali agli ambientalisti, dalle associazioni per i diritti umani ai sindacati. Visto che molta dell'internazionalizzazione italiana è sostenuta da contributi pubblici, sarebbe auspicabile esigere in cambio un metodo di confronto e coinvolgimento che è lo stesso adottato, almeno sulla carta, qui da noi.
Due proposte dunque per far sì che la solidarietà internazionale non si fermi alla testimonianza, e che l'internazionalizzazione economica non scivoli nell'affarismo: una carta etica per l'internazionalizzazione ed una cabina di regia unitaria promossa dall'ente pubblico. Due idee, tra le molte emerse durante il convegno annuale dell'Osservatorio. Nei prossimi mesi vedremo se dalle idee si passerà ai fatti.