Un bilancio sul lavoro del Patto di Stabilità per il Sud Est Europa, poche settimane prima della sua chiusura definitiva. Nostra intervista a Marijana Grandits, direttrice del Tavolo su democratizzazione e diritti umani
Marijana Grandits è stata parlamentare austriaca, e con Alexander Langer ha dato vita nella prima metà degli anni '90 al Verona Forum per la pace e la riconciliazione in ex Jugoslavia, rete di intellettuali e attivisti dei Balcani che si opponevano alla guerra. Dal 2000 ha lavorato a Bruxelles presso il Patto di Stabilità per il Sud Est Europa. L'abbiamo incontrata a Bolzano a margine del convegno "Tredici anni dopo Dayton. Quale futuro per Srebrenica e la Bosnia Erzegovina?".
Fra poche settimane il Patto di Stabilità per il Sud Est Europa chiude definitivamente. Qual è il suo bilancio?
Bisogna distinguere: alcuni all'inizio lo hanno caricato di troppe aspettative, paragonandolo ad un nuovo Piano Marshall. Ma non era questo il suo scopo e non è giusto perciò considerarlo oggi un fallimento. Al contrario, io credo abbia raggiunto almeno tre grandi risultati. Anzitutto la cooperazione regionale tra i paesi dell'area balcanica, che prima del 1999 era impensabile, oggi è una realtà. Avviando i tavoli di lavoro tematici non solo si sono fatti sedere assieme i rappresentanti di paesi prima in guerra, ma li si è spinti al dialogo bilaterale. Il Patto ha funzionato come luogo di ritrovo anche personale tra leader e funzionari della regione.
In secondo luogo il nostro lavoro ha fatto ripartire l'interscambio economico. Ricordo in Kosovo subito dopo la guerra i supermercati pieni solo di prodotti dell'Unione Europea. Oggi invece è normale trovare merci dalla Macedonia, dalla Croazia o dal Montenegro. Infine, è positiva l'esperienza della cooperazione interparlamentare: c'è una consultazione regolare tra le assemblee elettive dell'area, ed è sorto un segretariato permanente ad hoc in Bulgaria. Gli incontri servono a discutere problemi comuni, a scambiare esperienze sulla legislazione e sull'implementazione delle norme e a preparare l'avvicinamento agli standard comunitari.
Guardiamo all'interno dell'Unione Europea: c'è un dibattito sempre aperto tra approccio regionale ai Balcani e percorsi ad hoc paese per paese. Come vi siete inseriti in questo dibattito?
Posso dire che il Patto di Stabilità ha spinto la Commissione Europea a pensare alla propria cooperazione con i Balcani in termini regionali. In precedenza l'unico approccio esistente era per singolo stato, mentre oggi c'è una mentalità nuova. Ci sono programmi e fondi a supporto della cooperazione regionale nel sud-est Europa.
E' però importante non considerare l'approccio regionale come alternativo al processo per il raggiungimento della piena membership, il cui percorso resta individuale e si basa sui criteri esistenti per l'allargamento. Sono due processi paralleli e anche dopo l'ingresso nell'Unione occorrerà sostenere la cooperazione tra i paesi dell'area. L'approccio regionale è un principio guida, riguarda anche altre aree dell'Unione come quella nordica o il gruppo di Visegrad. Paesi che hanno in comune interessi, problemi e possibili soluzioni devono cooperare tra loro. Noi siamo riusciti a convincere la Commissione a supportare questo processo per i Balcani.
Lei ha diretto in particolare il Tavolo di lavoro I su democratizzazione e diritti umani. Quale bilancio fa in questo settore?
Va detto che la democrazia è un ambito molto difficile da definire e valutare. In ogni caso rientrava nella nostra competenza la cooperazione interparlamentare, che come detto è stata un successo. Inoltre abbiamo operato molto per supportare le politiche educative, che sono un elemento chiave in tutta la regione per il suo cammino europeo. Siamo ancora agli inizi, ma almeno istruzione e ricerca sono state poste in cima alle priorità d'azione. Anche nelle pari opportunità si è lavorato bene, con un segretariato permanente molto attivo creato a Zagabria.
Non abbiamo avuto invece altrettanto successo con i media dove le riforme, pure approvate, non sono state implementate mentre le privatizzazioni hanno prodotto nuovi monopoli. Nessun successo neanche nel campo della democrazia locale, perché l'approccio verticista è ancora molto forte e i governi centrali non vogliono concedere autonomia ai territori.
Inoltre, c'è molto da lavorare anche per includere realmente la società civile nei processi decisionali. Ci abbiamo provato, e qualche progetto ha funzionato, ma in generale la società civile resta debole e 'predica a chi è già convertito'. E' una bella piccola famiglia, ma ha un impatto molto limitato sull'insieme dei cittadini. Bisogna cercare nuove strade per coinvolgere le persone che la pensano diversamente. Dunque si sono fatte molte cose sui temi che riguardano il mio Tavolo, ma molte di più restano da fare.
Ha parlato di decentramento e autonomie locali. In Bosnia Erzegovina in questo momento qualcuno avanza la richiesta di uno status speciale per Srebrenica. Qual è la sua opinione?
Io penso che non si possa considerare la questione al di fuori del suo contesto. La realtà oggi è che Srebrenica appartiene alla Republika Srpska. Io mi batto per una nuova Costituzione del paese, dove non ci siano più le due entità della Republika Srpska e della Federazione di Bosnia Erzegovina, ma un federalismo su base geografica anziché etnica, ad esempio con una ventina di unità locali di pari livello. Srebrenica dovrebbe avere una considerazione particolare come simbolo, ma non sul piano politico perché ciò comporterebbe molti problemi in più e rafforzerebbe le forze sbagliate. Qualcuno potrebbe chiedersi perché una repubblica dentro la repubblica, e sarebbe un ostacolo alla riconciliazione.
Infine un bilancio sul piano personale di questi anni a Bruxelles, visto che a breve lascerà il suo ruolo istituzionale per rientrare a Vienna...
La cosa principale che traggo da questa mia esperienza nelle istituzioni internazionali è l'importanza di lavorare su molti piani. In precedenza ero più legata alle realtà di società civile, ma in questi anni ho imparato quanto siano importanti i governi. La società civile non può avere successo senza le istituzioni e viceversa. Serve perciò una connessione, ma nel sud-est Europa questa manca. C'è ancora un contrasto reciproco, perché entrambi pensano che l'altro sia il proprio oppositore politico. Invece società civile e governi hanno ruoli distinti ma complementari.
Per me è stato utile scoprire quanto si può ottenere lavorando con le istituzioni, in virtù del loro status. Due giorni fa ad esempio ero ad una conferenza su "La cultura nelle relazioni internazionali" organizzata dalla Presidenza slovena dell'UE. Se una cosa simile fosse stata organizzata dalla società civile, ne sarebbe uscito un bel documento destinato al massimo alla segreteria di qualche politico. Lì invece c'erano quattro Commissari europei, due ministri degli esteri e molti diplomatici di alto livello. La risoluzione finale perciò è arrivata direttamente dove si prendono le decisioni, e questo fa la differenza.
Non è facile costruire coalizioni che funzionano, ma è essenziale per incidere realmente. L'altra lezione è stata scoprire una rete di persone veramente valide nella regione. E' essenziale non andare sul posto per predicare, ma mettersi in ascolto e cercare assieme possibili strategie e soluzioni. C'è molto da fare ancora nei Balcani, ma sono ottimista.