E' la parola magica per le ONG dei Balcani, e non solo. Sostenibilità. Ma sono poche le organizzazioni che non dipendono da finanziamenti internazionali e che non subiscono la loro drastica riduzione. Sono difficoltà affrontate anche dalle ONG di donne in Bosnia. Una panoramica
Di Mindy Kay Bricker - TOL
Traduzione a cura di Osservatorio sui Balcani
SARAJEVO, Bosnia Erzegovina. Circa 20 membri bosgnacchi di un'associazione di donne se ne stanno sedute in un bus diretto a Sarajevo dove è organizzato un incontro con la sezione locale del Comitato di Helsinki. Alcune fumano sigarette, altre rallegrano il gruppo cantando una ballata a più voci su amanti stranieri (anche se nessuno è comparabile agli uomini bosniaci) e tutte comunque si intrattengono con le loro "sorelle".
Le donne - membri della Sumejja Kolo, gruppo di donne con sede a Novi Travnik che si occupa di sostenere le vittime di traumi di guerra - arrivate all'ufficio del Comitato di Helsinki smettono di cantare ed il loro umore cambia.
Ascoltano l'intervento di Zivica Abadzic, segretaria generale del Comitato di Helsinki, che parla della situazione delle donne nella Bosnia di oggi: in un Paese nel quale la guerra è finita dieci anni fa, si stima che il 55% delle donne sia vittima di una qualche sorta di violenza domestica; il 45% dei disoccupati in Bosnia è rappresentato da donne e la maggior parte di quel 5-6 per cento che non viene iscritto alla scuola dell'obbligo è rappresentato da bambine e ragazzine; molte donne riportano ancora oggi i traumi della guerra, e tra queste vi sono tutte quelle che oggi si sono sedute attorno al tavolo.
Le percentuali, ricorda, sono solo stime. Ma non riporta stime quando afferma che "il femminismo è morto", riferendosi alla mancanza di solidarietà tra le donne del Paese in modo da contribuire a cambiare statistiche così drammatiche. E, a giudicare dal silenzio nella sala, è stata una constatazione accurata ed incontrovertibile.
In Bosnia non vi è alcun movimento femminista, continua la Abadzic. Ciò che invece vi è è una "scena femminile" che comprende qualche accademica e le organizzazioni non governative, come ad esempio la Sumejja Kolo, che si battono per la consapevolezza di genere e per l'uguaglianza.
Troppo poco, troppo tardi
La sfida di migliorare quelle statistiche, già dura di per sé, viene complicata dalla difficoltà crescente nel trovare donatori internazionali e locali che permettano a queste ONG di continuare le loro attività.
Alla fine degli anni '90 la Bosnia era - secondo Valery Perry, dottoranda presso l'Istituto per l'analisi e la risoluzione del conflitto della geroge Mason University - una "zona di conflitto molto sexy", che attirava l'aiuto internazionale. Perry, che vive a lavora in Bosnia dal 1999, ricorda che ora quei donatori internazionali se ne stanno andando e spostano i loro fondi o in Iraq o in altre aree di conflitto.
Sono passati dieci anni dalla fine della guerra e la Bosnia è un Paese in transizione dove - come in molti Paesi in transizione che non hanno alcuna economia di mercato ben sviluppata - "la posizione sociale delle donne va peggiorando e con essa aumenta la discriminazione nei confronti delle donne". Lo si afferma in una ricerca presentata da una coalizione di ONG bosniache lo scorso anno presso lo CEDAW, la convenzione ONU sulla discriminazione nei confronti delle donne. "Questo è esattamente quanto sta accadendo alle donne in Bosnia ed Erzegovina ai giorni nostri", afferma Perry.
Danica Anderson, psicoterapeuta forense statunitense che collabora e forma i membri dell'associazione Sumejja Kolo, afferma che "sono spesso stupita della rapidità con la quale gli uomini comprendono i meccanismi di finanziamento, di allocazione dei lavori e del networking. Le donne a capo di ONG sono spesso sopravvissute alla guerra e, spesso, si danno da fare per gestire l'intera famiglia allargata - cucinare, tenere la casa ecc. - e spesso arrivano troppo tardi per ricevere fondi o per partecipare alla loro assegnazione".
Anche se il numero di ONG di donne è aumentato dal 1999, rappresentano solo una sottile fetta del settore non-profit. Secondo stime dell'International Council of Volountary Agencies (ICVA) solo un 4% delle ONG sono costituite da "gruppi di donne" a fronte del 16% di cinque anni fa.
"Ciononostante ci sono voluti anni affinché le donne sopravvissute alla guerra trovassero abbastanza respiro e spazio per occuparsi, oltre alle questioni del trauma, anche della raccolta fondi", ha ricordato la Anderson.
La lotta continua
Anche se non vi sono statistiche ufficiali del governo l'ICVA stima che in Bosnia Erzegovina vi siano 60 ONG di donne. Una di queste è l'associazione Medica Zenica, un gruppo conosciuto in tutto il Paese per le sue terapie sui traumi di guerra e per l'attività di consulenza e assistenza in merito alla violenza domestica.
Due tipi di trauma - quello legato alla guerra e quello legato a famiglie che subiscono la violenza - che sono in Bosnia strettamente collegati. Dalle dichiarazioni dello staff di Medica ai rapporti della Banca Mondiale sono tutti concordi nell'affermare che vi è una serie di ragioni che portano alla violenza familiare: i traumi legati alla guerra, la disoccupazione, la povertà, l'alcolismo.
Senada, che chiede non venga rivelato il suo vero nome, lo scorso novembre ha lasciato il marito e si è rivolta a Medica. Durante i primi tre giorni ha portato con sé presso la casa-rifugio di Medica il figlio più piccolo e poi programmava di ritornare in modo da potersi occupare degli altri due figli.
Suo marito ha combattuto nella guerra 1992-95. "Dopo la guerra non sopportava più i bambini", afferma. "Era nervoso ed arrabbiato, e proprio i bambini non li tollerava".
Ha deciso di interrompere la sua relazione dopo 18 anni di matrimonio quando il marito ha minacciato di ucciderli tutti.
Dal 1993 al 2003 Medica ha garantito rifugio a 654 donne e 330 bambini in tre case-rifugio. Nel 2002 furono 116 le donne ed i bambini accolti. Nel 2003 il numero è sceso a 39 ed una delle tre case è stata chiusa.
La diminuzione è dovuta, e continuerà ad esserlo, alla diminuzione di fondi che obbliga Medica a rifiutare persone che chiedono il suo aiuto.
"Tutti ci sostengono a parole, ma nessuno finanziariamente" afferma Mirha Pojskic, specialista di Medica in merito ai traumi psicologici legata alla guerra. "Il nostro governo non ha i soldi o la consapevolezza per finanziarci".
Medica ha già a che fare con un taglio del 13% dei finanziamenti - il suo budget annuale è di 21.000 marchi convertibili (circa 14.000 dollari) - e si aspetta un ulteriore taglio del 50% nei prossimi anni.
"Siamo anche alla ricerca di altri finanziamenti, ma invano" afferma la Pojksic, che poi aggiunge che la maggior parte dei loro finanziamenti arriva da donatori internazionali.
Le sue parole ribadiscono ciò che viene affermato in un rapporto di USAID: "Le capacità finanziarie del settore delle ONG in Bosnia dipende ancora fortemente dalla comunità dei donatori internazionali. Molte organizzazioni sopravvivono grazie all'apporto di volontari con budget molto limitati".
Ed a volte, queste ONG, sopravvivono senza alcun finanziamento.
Quando i fondatori di Medica iniziarono ad operare nel 1993 accadeva anche che lavorassero senza alcun compenso, ricorda Mirha Pojksic, aggiungendo che non esiterebbero a farlo di nuovo.
E' questa volontà di trasformare una ONG in qualcosa "pro bono", afferma Abadzic del Comitato di Helsinki, che invia un messaggio ambiguo al governo.
"Sfortunatamente i membri di queste ONG lavoreranno sino a che hanno un minimo finanziamento, tralasciando anche i loro stipendi e divenendo disoccupati", afferma.
Ed il governo ne approfitta, ricorda lei. Se i politici sanno che non devono spendere soldi sulla violenza domestica perché donne come queste seguiranno il problema con o senza retribuzione, vi è poca motivazione ad intervenire e ad aiutare.
Questa tendenza ad approfittare dei gruppi più radicati sul terreno è riscontrabile anche nella stessa comunità delle ONG. Quando i membri di Medica hanno visitato la regione di Travnik, dove opera l'associazione Sumejja Kolo, sono rimasti stupiti di come le donne che avevano subito traumi legati alla guerra fossero seguite in modo efficace. In conseguenza di ciò Medica non ha ritenuto necessario iniziare ad operare in un'area dove lavorava bene già qualcun altro.
Pochi soldi
L'associazione Sumejja Kolo tra i suoi membri non conta accademici o cacciatori di bandi. Piuttosto ne fanno parte signore di mezz'età, lavoratrici, che hanno un innato senso di comprensione nei confronti delle altre donne ed hanno imparato a conoscere i meccanismi della guerra. Non possono permettersi un luogo dove ritrovarsi regolarmente, e nessuno riceve alcuna retribuzione dall'associazione; la maggior parte delle donne ha più di un lavoro (sino a cinque). In più viaggiano in tutta l'area fornendo assistenza e terapie presso case private, caffè, campi rifugiati.
I magri finanziamenti che ricevono sono legati soprattutto agli sforzi di Danica Anderson, che ha formato queste donne a partire dal 1999.
In questo clima di carestia di finanziamenti la Anderson praticamente porta a mano i soldi per l'associazione Sumejja Kolo nei tre viaggi annuali che fa a Novi Travnik.
"Ho fatto tutto questo attraverso il passaparola tra donne che mi danno 5 o 10 dollari ciascuna. In fretta abbiamo raccolto 1000 e poi 3000 dollari. Ma è come trarre il sangue dalla pietra", afferma.
Quando lo scorso novembre è arrivata a Novi Travnik, si è messa con Sana Koric, presidentessa del Sumejja Kolo, attorno al tavolo della cucina di quest'ultima. Davanti a loro una serie di buste piazzate strategicamente: un plico conteneva i soldi da mettere in banca, un'altro era costituito di buste per biglietti di ringraziamento. Ve ne erano talmente tante da sembrare che stessero facendo una partita surriscaldata di Risico: banconote di 5, 10, 20 dollari infilate nelle buste assieme alle foto degli studenti di un college americano che avevano donato i soldi.
Dopo aver conteggiato le donazioni le due donne hanno parlato di come contattare donatori istituzionali per richiedere fondi. Ma niente di nuovo è emerso.
"Un giorno mi piacerebbe tornare qui in vacanza" ha affermato la Anderson, in parte con ironia. Questo scenario potrebbe divenire possibile solo se l'associazione raggiungesse quell'obiettivo misterioso inseguito da tutte le ONG: la sostenibilità.
Nel rapporto curato da Marta Walsh per USAID dal titolo "Il dopo: le donne e le organizzazioni di donne nella Bosnia Erzegovina del dopo conflitto" ha coniato il termine "darwinismo dello sviluppo" intendendo che "le ONG più forti sopravvivranno mentre quelle più deboli sono destinate a sparire o a collegarsi con altri gruppi".
Ha puntualizzato ciò affermando che le organizzazioni di donne hanno creato legami internazionali "e sviluppato sostegni al di fuori della comunità dei donatori in Bosnia, e per questo potrebbero reggere all'inevitabile diminuzione dei fondi".
La matassa della sostenibilità
Ma questo potrebbe non essere sufficiente a renderle sostenibili. Nel mondo delle ONG la sostenibilità è la misura di quanto un'organizzazione è influenzata dall'aiuto esterno, sia in termini di promozione di nuove iniziative, sia di prese di decisione che, naturalmente, di finanziamenti. Rispetto ad altri Stati nati dalla disgregazione della ex-Jugoslavia la Bosnia Erzegovina è a bassi livelli per quanto riguarda la sostenibilità, lo si afferma in un rapporto di USAID del 2003. Verrebbe prima solo del Montenegro e del Kosovo. Ma nello stesso Montenegro il Ministero degli interni ha consultato le ONG di donne quando ha dovuto impostare le linee guida e la formazione per poliziotti che si sarebbero dovuti occupare di violenza domestica. In Croazia le ONG di donne rimangono tra i network più forti nonostante la debolezza generale del settore non-profit.
Ma vi sono delle eccezioni, donne bosniache che hanno utilizzato le loro relazioni internazionali per creare sostenibilità.
Artigianato Bosniaco, un'ONG con sede a Tuzla creata per occuparsi anch'essa di traumi legati al conflitto, ha iniziato a prepararsi per questo fin dal 1999 quando si è separata dal suo donatore ufficiale, il Norwegian People's Aid. Il gruppo ha utilizzato l'aiuto internazionale per garantire un prestito bancario e per favorire la propria operatività per favorire la completa autosostenibilità, un obiettivo raggiunto per l'80%.
Un ufficio di cui fanno parte sei donne coordina l'attività di altre 200-300 donne di tutto il Paese, a prescindere dalla loro appartenenza religiosa o politica, e cura le relazioni con uomini d'affari e compratori nel mondo intero. Queste donne riescono a sbarcare il lunario grazie alla loro abilità nel lavoro a maglia: fanno calzini, camice, vestiti, berretti, guanti e borse.
"Se si è in grado di dare alle donne soldi che si sono guadagnate questo le fa stare molto meglio" afferma in un'intervista telefonica Lejla Radoncic, direttrice di Artigianato Bosniaco. "Hanno più fiducia in loro stesse, si percepiscono meglio".
Anche se il gruppo è stato creato per superare i traumi di guerra attraverso il lavoro ora l'obiettivo principale è quello di affrontare "uno dei problemi principali della Bosnia: l'alta disoccupazione", afferma Radoncic.
La maggior parte delle donne si appoggiano a Artigianato Bosniaco solo per avere un reddito suppletivo o un lavoro part-time. Chi lavora invece full-time guadagna sino a 200 dollari al mese.
Lo scorso anno l'organizzazione ha avuto un fatturato di 350.000 dollari. Un momento importante di fund raising avviene durante il "Robert Redford's annual Sundance Film Festival" che si tiene nello Utah.
Dalla prima iniziativa, nel 2003, è arrivato un ordine di 30.000 dollari, ricorda la Radoncic, e lo scorso anno l'ammontare è salito a 160.000 dollari. In più, durante l'anno, l'organizzatore lavora con due distributori francesi.
In merito al successo dell'organizzazione la Radoncic è modesta. "Abbiamo solo utilizzato le nostre conoscenze ed un pò di creatività".
Alla richiesta di una valutazione sul panorama delle ONG di donne in Bosnia la Radonici non si tira indietro. "Spendono spesso molti soldi senza alcun risultato", afferma. "Senza sostenibilità non ce la possono fare".