Pubblichiamo il documento introduttivo alla conferenza internazionale "L'Europa di mezzo. Idee e buone pratiche per un'integrazione sostenibile del sud-est europeo". Promossa da Osservatorio sui Balcani si terrà a Trento il prossimo 4 e 5 novembre
Il processo di integrazione europea, con l'allargamento delle istituzioni comunitarie ai paesi del sud-est Europa tuttora esclusi, si muove in modo contraddittorio e con spinte contrapposte. Prevale l'ottimismo, acceso dalla recente decisione di avviare i negoziati per l'adesione di Turchia e Croazia, insieme all'avvio dei negoziati per l'accordo di associazione e stabilizzazione di Serbia e Montenegro? Oppure si è trattato solo di un passaggio obbligato, per non sfaldare definitivamente l'Unione Europea dopo che i voti francese e olandese contro il trattato costituzionale l'avevano gettata nel più profondo impasse? E dunque prevale al fondo quel sentimento euroscettico che costituisce un pesante freno al proseguire dell'allargamento?
Quale che sia la risposta, è certo che il clima del primo maggio 2004, quando nelle piazze d'Europa si festeggiò l'allargamento a 25 come passo in avanti verso un'Europa politica rafforzata, sembra oggi molto lontano. Le cause di ciò sono molteplici, non ultimi gli effetti di una guerra globale che in nome dello "scontro di civiltà" ha spaccato l'Europa e l'ha spinta a chiudersi nella propria fortezza. Si è voluto illudere così una parte consistente di opinione pubblica che, chiudendosi, la vecchia Europa si sarebbe protetta dalle conseguenze della crescente instabilità internazionale e dal pericolo di perdere la propria identità culturale profonda. Senza accorgersi che proprio la sua assenza dalla scena mondiale ne favorisce l'imbarbarimento, e non permette di affrontare le cause profonde di una globalizzazione iniqua ed escludente.
Ma soprattutto rischia di essere messo in discussione il tipo di integrazione verso cui stiamo andando. È ancora l'Unione Europea un disegno essenzialmente politico, per dare una guida comune al vecchio continente sulla base della sua tradizione di valori democratici? Oppure si sta trasformando in una mera unione doganale e in parte monetaria, dove gli stati nazionali mantengono tutta la loro pregnanza, salvo accordarsi sul come dare più libertà al business?
Senza regole, l'essenza della modernità
Il dato di fatto è comunque che vi è stato un rallentamento nel processo di allargamento dell'UE all'area del sud-est Europa. Fra le possibili ragioni, anche il fatto che quest'area ha rappresentato negli ultimi 10-15 anni una fonte di opportunità economiche e finanziarie per una parte del sistema imprenditoriale occidentale. Ciò grazie alle dinamiche più invasive della delocalizzazione e della internazionalizzazione delle imprese, che hanno trovato nella crescente deregolazione di questi paesi le condizioni di sviluppo più favorevoli: una vasta area offshore nel cuore dell'Europa, libera da vincoli e standard comunitari, e perciò con la possibilità di uno sfruttamento intenso e a basso costo delle risorse umane, materiali ed ambientali. A ciò si aggiungono in taluni casi forme perverse di economia illegale o addirittura criminale, le cui strutture transnazionali si espandono e collegano l'area balcanica con il resto d'Europa.
Possiamo chiamarla transizione, ma altro non è che la forma più spinta dell'economia globalizzata, resa possibile dall'insediarsi - anche attraverso condizioni di deregolazione estrema come la guerra - di forme di potere oligarchico prive di contrappesi, con caratteristiche di tipo quasi feudale. Un potere che affonda le proprie radici nella struttura dei vecchi regimi comunisti dove il controllo dell'economia, della politica, dell'informazione e dell'apparato militare è ancora oggi troppo frequentemente nelle stesse mani.
Dinamiche conosciute ed osservate, ma spesso tollerate in nome del carattere progressivo dello sviluppo e di una transizione all'economia di mercato nelle sue forme più liberiste, prive di ammortizzatori sociali e di meccanismi di perequazione interna. Una transizione-choc avvenuta - anche se non in tutto il sud-est europeo - attraverso la guerra e guidata dalle élite nazionaliste, che si è manifestata come un progressivo e continuo peggioramento delle condizioni di vita non solo dei soggetti più deboli, privati di qualsiasi forma di protezione sociale, ma anche di larga parte dei ceti medi.
La fine della produzione
La delocalizzazione di imprese straniere che ha prevalso in alcune aree del sud-est Europa non ha avuto in genere che un impatto limitato sull'economia locale: condizioni di lavoro e salari sono compressi, mentre i profitti tornano nei paesi d'origine degli imprenditori. E tolte queste imprese, la situazione economica dell'area può essere definita - estremizzando un po', ma poi non molto - come di "fine della produzione". I grandi kombinat frutto dell'industrializzazione socialista sono fermi o agonizzanti, di piccole e medie imprese tanto si parla ma poco si vede. È debole pure la produzione agricola, arretrata e indifesa davanti al dumping economico dei prodotti comunitari sovvenzionati, tanto che le importazioni superano di gran lunga le esportazioni.
Di contrasto, fiorisce il business delle privatizzazioni, del mercato immobiliare o delle grandi attività commerciali, che muovono flussi finanziari anche ingenti ma con ricadute molto scarse nell'economia reale. E sono tra l'altro le forme tipiche attraverso cui si ricicla il denaro sporco generato dai vari traffici illeciti che attraversano la regione: droga, tabacco, esseri umani, armi.
Non si produce dunque, ma si commercia. Un fenomeno della post-modernità che nel sud-est Europa appare in forme perfino più estreme che altrove. Così se l'industria automobilistica ex-jugoslava è sostanzialmente ferma agli anni '80, a Belgrado si vendono le Ferrari.
Ripartire dal locale
In un quadro pur difficile, ci sono tentativi anche importanti per invertire la rotta. "Sviluppo locale" è una parola chiave in molti di essi, anche se il modo di intenderlo può essere radicalmente diverso. Una cosa infatti è intendere lo sviluppo locale come l'immettere su un territorio più risorse possibili dall'esterno - con l'assunto che è necessario "portare lo sviluppo". Che poi, a guardar bene, le ricadute sul territorio di questo modello sono solo apparenti ed insostenibili nel tempo. Tutt'altro è intenderlo come valorizzare ciò che il locale possiede - credendo che ogni territorio ha in sé tutti gli elementi necessari al suo rafforzamento, ma ha bisogno di stimolo e supporto per "attivarsi".
A partire da questo secondo approccio, è interessante ragionare sugli strumenti e le esperienze di qualificazione territoriale, sull'identificazione dei punti di forza e di unicità dei prodotti (selezione delle produzioni locali, marchi di qualità, ...), sulle forme dell'organizzazione territoriale (distretti e patti territoriali, ...), sulle modalità di reperimento delle risorse finanziarie (fiscalità locale e nazionale, ma anche l'uso delle rimesse dai migranti per sostenere i processi di riqualificazione economica locale).
Altra discriminante è dare una lettura dello sviluppo solo in chiave economica - appunto delle risorse da immettere - o comprendervi anche elementi del sociale e della politica. Così è importante analizzare la dimensione del governo locale, di come una comunità si regola e di quali spazi di autonomia ottiene/le sono concessi dal centro. Perché l'esito di ogni sforzo verso uno sviluppo locale realmente sostenibile è legato in modo indissolubile al grado di coesione sociale presente sul territorio e alla sua capacità di autogoverno. Nel caso del sud-est Europa ciò è ancora più importante per via della diffusa de-responsabilizzazione individuale e della forte svalutazione della sfera pubblica, fattori che mettono a rischio qualsiasi tentativo di dare un indirizzo alle dinamiche della società. Il governo locale perciò è il primo spazio da cui si può ripartire per contrastare questa deriva, ed è proprio sul suo rafforzamento che bisognerebbe agire per rafforzare istituzioni altrimenti incapaci di affrontare la sfida dell'integrazione nell'Unione Europea.
La strada dei partenariati territoriali
Nel percorso di rafforzamento istituzionale delle istituzioni locali ha uno straordinario valore la diplomazia delle Città e delle Regioni, che in questi anni ha intessuto importanti reti di relazioni tra territori diversi. Sono nate così pratiche di partenariato territoriale che vedono diverse aree del nostro e di altri paesi UE protagoniste di programmi a medio-lungo termine assieme ad aree omologhe del sud-est Europa. I settori toccati sono vari, come l'agricoltura, il turismo, la produzione e lavorazione del legno, la piccola e media industria di trasformazione, il microcredito, l'impresa sociale. Elemento fondante è (dovrebbe essere) la reciprocità, ossia un percorso di co-sviluppo dove all'approccio tradizionale del trasferimento di conoscenze si sostituisce quello della ricerca comune di risposte efficaci alle sfide diverse, ma in parte connesse, che la globalizzazione pone ormai a tutte le aree del pianeta.
A ragion del vero in questi anni di partenariati territoriali se n'è visti di tutti i tipi. I governi, nazionali e regionali, hanno diviso la loro attenzione tra l'accompagnamento ai processi di delocalizzazione delle proprie imprese da un lato, e il sostegno a ricostruire un tessuto economico e sociale locale che divenga progressivamente autosostenibile dall'altro. E purtroppo non sempre sono stati efficaci nel conciliare questi due aspetti. In certi casi si sono registrate inefficienze e sovrapposizioni per l'azione di strutture istituzionali distinte verso un unico territorio. In altri casi vere e proprie incoerenze, con la "solidarietà" a fare da ammortizzatore per gli effetti sociali delle politiche di internazionalizzazione delle imprese italiane.
Ciò nonostante, laddove le relazioni fra territori sono state più profonde e lungimiranti, si è affrontato il tema della sostenibilità e riproducibilità dei processi di sviluppo locale. Sostenibilità e riproducibilità che si possono avere attraverso la qualità ed unicità delle produzioni, le forme di partecipazione ed animazione territoriale, le opportunità di interazione e gli strumenti per costruire coesione sociale e responsabilità, ad esempio nel ridisegnare un welfare comunitario sulle ceneri di quello statale. È emersa dunque sulla necessità di definire linee proprie di politica economica e autogoverno dei territori, per far sì che le forme di partenariato divengano funzionali al rafforzamento delle identità locali e insieme all'apertura di un dialogo a rete tra le aree regionali, unica strada possibile per non essere fagocitati dall'economia globalizzata.
Buone pratiche sulla via dell'integrazione
Di queste buone pratiche vogliamo parlare all'interno del convegno, confrontando anche approcci e strumenti operativi diversi sperimentati dai soggetti della cooperazione decentrata. Il progetto "Balcani Cooperazione" - cioè il monitoraggio permanente della presenza regionale italiana nell' "Europa di mezzo" - cerca proprio di delineare tale quadro. Anzitutto per conoscere più in dettaglio chi siano, dove agiscano e come operino i soggetti promotori di partenariati territoriali tra Italia e sud-est Europa, ma poi anche nel tentativo di comprenderne i limiti, valorizzarne le esperienze positive e promuovere i legami orizzontali tra soggetti omologhi.
Si tratta infatti di un sistema di relazioni che si pongono l'obiettivo di creare le condizioni per un'integrazione sostenibile del sud-est Europa nelle istituzioni comunitarie. Questa infatti era e permane l'unica prospettiva in grado di porre un limite all'attuale stato di incertezza permanente in cui vivono i paesi del sud-est Europa che ancora non hanno ottenuto lo status di candidati all'UE. Ed è insieme una prospettiva indispensabile per dare loro un quadro di regole di civiltà giuridica e sociale, per valorizzarne le potenzialità economiche e culturali, per favorire le relazioni a livello regionale, per riqualificare un'agenda politica altrimenti segnata dai nazionalismi. E infine è necessaria per dare all'Europa stessa quella autorevolezza che le viene invocata, specie di fronte ad un quadro internazionale altrimenti segnato dall'unilateralismo atlantico.
L'Europa delle regioni
Al tempo stesso, partenariati territoriali permanenti ed articolati rilanciano e riqualificano l'idea di Europa delle regioni, che sappia accompagnare, rafforzare e dare sostanza al processo di integrazione. Un processo che oggi, come abbiamo visto, rischia di interrompersi sotto i colpi della guerra e del terrorismo, amplificatori di antiche paure come di nuovi egoismi. Un rumore di fondo spesso non palese ma che diventa assordante tanto da scuotere in profondità le stesse fondamenta dell'Europa, dal Patto di stabilità al Trattato di Schengen.
L'Europa delle regioni, di regioni aperte e che dialogano in partenariato, serve allora come antidoto al ripiegamento mono-nazionale. Con l'auspicio di un'Unione Europea determinata a proseguire nel suo processo di riunificazione, consapevole che tale processo è una scommessa politica da favorire e non ostacolare attraverso parametri irraggiungibili. In sintesi, più e non meno politica. È questo, ci pare, ciò di cui ha bisogno oggi l'Europa di mezzo. E con essa l'Europa intera.
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