Il monumento sul Kozara

Scultore di fama internazionale, autore del monumento di Mrakovica, sul Kozara in Bosnia Erzegovina, Dušan Džamonja racconta la sua esperienza jugoslava, la partecipazione alla Biennale di Venezia e l'epopea del Kozara

11/09/2007 -  Andrea RossiniNicole Corritore

Nato nel 1928 a Strumica, in Macedonia, da famiglia di origini erzegovesi, Dušan Džamonja si diploma nel primo dopoguerra presso l'accademia di Belle Arti di Zagabria. Otterrà da subito numerosi riconoscimenti internazionali e alla fine degli anni sessanta vince il concorso per la realizzazione del monumento di Mrakovica, presso il Parco del Kozara in Bosnia Erzegovina. Oggi vive tra il Belgio e la Croazia. Di recente ha realizzato a Zagabria un monumento a memoria delle vittime della guerra degli anni novanta.
Questa è la prima parte dell'intervista da noi realizzata a Vrsar, in Croazia, il 20 giugno scorso.

In quale periodo della sua vita si avvicina alla scultura commemorativa?

Mi accadde subito dopo aver concluso l'Accademia di belle arti. Fui attirato dal compito "pubblico" che pensavo di poter ricoprire con la mia arte, un compito che aveva in sé un gran peso simbolico in Jugoslavia, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Nel senso che per la prima volta ci trovavamo a confrontarci, dopo una guerra così dolorosa e traumatica, con ciò che si definiva "dramma collettivo". Questo mi spinse a partecipare a tutti i concorsi pubblici per la realizzazione di monumenti commemorativi, anche all'estero.

Il primo che vinsi venne dedicato ad un prigioniero politico anonimo nel 1952 a Londra. Mi sentii dunque incoraggiato a proseguire su questa strada e arrivai a realizzare, solo cinque anni dopo, un'opera scultorea in memoria delle vittime del nazismo a Dachau e ad Auschwitz. Luoghi importanti, perché simbolo del martirio, dove si era escogitata e messa in pratica la macchina di eliminazione di massa di milioni di persone. Capii che il concetto dei monumenti doveva cambiare. La dimensione del dramma era tale per cui non bastava farlo attraverso l'utilizzo dello strumento letterario. Si doveva cercare, attraverso la libertà di scelta di materiali e interpretazioni, di porre l'accento sulla funzione psicologica dell'insieme, perché il monumento rappresentava lo strumento del ricordo dei fatti e delle memorie dei singoli.

Quando inizia poi il suo lavoro artistico in Jugoslavia?

Partecipando a numerosi concorsi acquisii una grande esperienza ed ebbi la fortuna, già nel 1959, di realizzare il primo monumento dedicato alle "Vittime di Dicembre" vicino alla Dubrava a Zagabria, un fatto avvenuto nel 1943 che tutti ricordano per l'impiccagione di 16 croati dissidenti, tra i quali alcuni rappresentanti dell'élite intellettuale. Fu il primo monumento astratto realizzato in Europa e in questo ambito la Jugoslavia era in una posizione direi di "vantaggio": perché faceva parte del cosiddetto blocco socialista ma rappresentava un caso veramente specifico di appropriazione morale del sistema socialista. Ad esempio sul piano artistico si differenziava significativamente dagli altri paesi del blocco sovietico e quindi dalla scena del socialismo reale. Infatti nel 1948 venne emanata in Jugoslavia una legge che garantiva la libertà dell'espressione artistica e in questo senso io e i miei colleghi più giovani fummo coraggiosi, riuscimmo ad emergere senza alcuna imposizione, devo dire in completa libertà.

Secondo Lei lo stesso Tito aveva spinto in questa direzione?

No, Tito in questo non si immischiava perché aveva attorno a sé dei collaboratori, come Koča Popović e Moša Pijade, che si occupavano di questo ambito e lo consigliavano. Ovviamente poi le decisioni venivano prese insieme. Ai vertici del Partito Comunista Jugoslavo c'erano molte persone che avevano fatto delle esperienze all'estero e che seguivano degli orientamenti, direi, "occidentali". Tanto che furono decisivi nel creare spazio per la libertà espressiva e all'emanazione della legge.

Quindi la politica seguita nella costruzione dei monumenti era legata a questa situazione e non ad altro obiettivo?

No. Non ci sono mai stati degli intrecci politici in questo ambito. Veniva scelto il progetto che si considerava artisticamente migliore.

In Jugoslavia Lei è riuscito ad esprimere pienamente la sua arte espressiva?

La legge in vigore permetteva la costruzione di monumenti solo attraverso la partecipazione a concorsi pubblici e c'era l'architetto Bogdan Bogdanović che era progettista "governativo" di monumenti, nel senso che non doveva trovare le occasioni per esprimersi, godeva di un privilegio che noi altri non avevamo. Bogdanović ha costruito più di 30 monumenti in tutta la Jugoslavia ma senza mai partecipare ad un concorso. Io ho realizzato tanti progetti e disegni ma tramite concorso sono riuscito a realizzarne solo alcuni. Tra questi il monumento dedicato alla Rivoluzione nella Moslavina, a Podgarić in Croazia, il monumento a Mrakovica, sul Kozara in Bosnia Erzegovina. Ma anche uno in Italia, realizzato nel 1970 presso l'ossario di Barletta, in memoria dei feriti jugoslavi che si trovavano in cura in Italia, soprattutto al sud ma che poi sono morti.

E all'estero?

All'estero ricevetti molti riconoscimenti in diverse occasioni e per anni, in Italia, Francia, Germania, Stati Uniti, Belgio e soprattutto in Svizzera. Il primo appuntamento importante fu nel 1960. Tenni la mia prima mostra indipendente presso la Biennale di Venezia e mi assegnarono un primo premio per la mia scultura realizzata con chiodi e legno bruciato! Avevo 32 anni ed ero diventato una stella... esiste anche un documentario sul centenario della Biennale - che cadeva proprio nel 1960 - e che inizia con l'immagine della scultura premiata.

Poi però avvenne un fatto...

Sì, accadde un "problema politico". Nei padiglioni nazionali per la Francia Hans Hartung vinse il gran premio per la pittura e a me venne assegnato il primo premio per la scultura. Però, nel padiglione centrale che veniva adibito alle mostre rappresentative, commemorative e così via, quindi più grandi, arrivò il pittore Foutier portato da André Malraux, eminenza grigia della cultura europea e non poteva quindi accadere che Fourier rimanesse senza un grande premio. Quindi, dato che secondo le regole della Biennale non erano le singole mostre a concorrere ma i padiglioni nazionali, mi ritirarono il premio e concessero un altro premio per la pittura, a Foutier. Ma in realtà è come se io lo avessi ricevuto.

La partecipazione alla Biennale di Venezia mi aprì tantissime porte e riuscii a sviluppare con grande successo la mia carriera artistica, un esempio è dato dal fatto che la scultura con cui avevo partecipato a Venezia venne poi esposta al Moma di New York.

E nel suo paese?

Nel mio paese si costruivano monumenti in ricordo dei caduti, delle vittime o degli eroi della Seconda Guerra Mondiale. Non si chiamava Jugoslavia ma "kiposlavija"! (ndr: gioco di parole con "kipar", che in croato significa scultore). Alla fine degli anni '60 partecipai e vinsi il primo premio al concorso per la costruzione del monumento sul Kozara in territorio bosniaco, dedicato sia agli eroi sia alle vittime di quello che accadde durante la Seconda Guerra Mondiale. La storia e il significato di questo monumento sono molto chiari. Si sa bene, storicamente, che cosa accadde in questa zona.

Ci può raccontare cosa avvenne?

Si tratta di una delle più famose epopee della guerra di liberazione, avvenuta nel 1942, quando l'esercito di Hitler era al massimo delle sue forze ed era arrivato vicino a Mosca. In quel momento in Jugoslavia c'era un movimento di resistenza molto forte e l'esercito tedesco di occupazione aveva fatto molti prigionieri.

Mrakovica, che era isolata dal centro della resistenza dell'Esercito nazionale partigiano di liberazione, si trovava nelle vicinanze della statale principale che portava da ovest a est e quindi in un luogo strategicamente cruciale. Qui era attivo un gruppo di 4.000 partigiani che organizzava delle azioni diversive molto importanti, proprio lungo questa via di comunicazione. Per cui Hitler decise di liquidare totalmente il gruppo e organizzò un'offensiva con 40.000 soldati tedeschi e con il sostegno di soldati ustascia. Utilizzò 4 divisioni contro 4.000 partigiani, in un rapporto numerico di 10 a 1. Nell'offensiva i partigiani vennero attaccati da tre direzioni diverse e furono accerchiati. La popolazione locale si ritirò assieme ai partigiani a Mrakovica, dove vissero per 40 giorni nutrendosi di erbe e radici.

Quindi questo monumento possiede due dimensioni. La prima è quella eroica: dopo 40 giorni di assedio i partigiani ruppero l'accerchiamento e in 2.000 riuscirono a liberarsi, mentre gli altri 2.000 partigiani morirono. La parte drammatica di questo evento è che per rappresaglia la popolazione civile che si era rifugiata qui, tra cui 12.000 bambini, donne e anziani, venne in gran parte uccisa sul posto e in parte deportata al campo di concentramento di Jasenovac dove morirono praticamente tutti.

Si era venuto a sapere dei fatti di Kozara dopo o durante la guerra?

Durante la guerra rappresentava l'epopea più importante dell'Esercito Nazionale di Liberazione e si ballava continuamente il kolo di Kozara (ndr: danza tradizionale) e si cantavano canzoni di Kozara, per cui era a conoscenza di tutti.

Avevo 13 anni quando iniziò la guerra e in quanto cattolici croati eravamo sfollati in un campo profughi in Serbia, per non essere perseguitati dai nazionalisti croati ustascia. Per cui passammo la guerra in Serbia, dove la situazione era ancora più confusa, perché al governo c'erano sia i serbi fascisti, che si chiamavano "ljotićevci" (ndr: uomini di Ljotićev), saliti al potere protetti dai tedeschi, sia i "rojalisti" di Dražen Mihajlović, e i comunisti che avevano fondato il movimento di resistenza in Serbia prima, e in qualche maniera parallelamente a quello in Croazia.

I partigiani poi si ritirarono in Bosnia, in un territorio più sicuro per le operazioni: per motivi geografici e geologici, per la struttura delle zone di montagna dove era più facile sopravvivere e organizzare la resistenza. Questa è tutta la storia che io ho vissuto e visto con i miei occhi. (1 - continua L'arte di Dusan Dzamonja (II))