Kinoatelje pubblica un racconto di Elio Vittorini. Lo scrittore, ventitreenne, immagina se stesso bambino a Gorizia negli anni della grande guerra. I luoghi narrati in antiche immagini di Gorizia. A controcanto, un racconto di Elio Marchi. La prefazione
Elio Vittorini vive a Gorizia tra il 1927 e il 1930. Ha diciannove anni, è del 1908, quando nel 1927 sposa Rosa Quasimodo, sorella di Salvatore, ragioniere a Milano. Lui ha grandi ambizioni, ma per il momento solo quelle. Non ha finito gli studi, non ha un lavoro. Lo aiutano i parenti di lei. Il suocero, Gaetano, capostazione in pensione, ha aperto un negozio di «radiotelefonia» a Gorizia, dove il figlio Ettore ha trovato un impiego in prefettura. Sono i «mercanti» del racconto La mia guerra. Il negozio del cavalier Gaetano Quasimodo è in corso Vittorio Emanuele 6 (cioè a metà strada, oggi, fra il cinema e il ristorante) e vanta licenza ministeriale di costruzione di apparecchi radio. Un altro figlio, Vincenzo, apre la prima stazione radio della città in corso Verdi 32, nel corridoio d'ingresso, guarda caso, del cinema Savoia-Centrale; tiene anche una fortunata rubrica di consulenza radio su Squille Isontine, un giornale diretto da Sofronio Pocarini. All'epoca gli apparecchi radio in città erano pochissimi, una decina o poco più, e alla chiusura delle trasmissioni gli utenti venivano salutati uno ad uno. Nello stesso 1927 un decreto ministeriale pone fine all'attività dilettantistica: l'«irradiantismo» privato viene proibito.
Vittorini a Gorizia vive nella casa dei suoceri in Piazzutta, piazza Tommaseo 16, sull'angolo di quella via della Scala in cui 26 anni prima era nata Nora Gregor. Prende possesso di una stanza al primo piano della casa, giusto sopra l'arco di pietra dell'ingresso. Vi sistema libri e carte; collabora a giornali e riviste, scrive racconti, compone i primi tasselli di Il garofano rosso, in cui le identità di due periferie, quella di Siracusa e quella di Gorizia, vengono mescolate. Per sopravvivere lavora come manovale e poi come contabile in imprese edili, al cementificio di Salona-Anhovo. Hemingway, che non lo conosceva ma ne subiva il fascino, scriverà una calda prefazione all'edizione americana di Conversazione in Sicilia: lo definisce «spaccapietre» riferendosi proprio a quell'esperienza goriziana di cui evidentemente Hemingway era al corrente ma che ad Hemingway stesso era mancata.
Il giovane Vittorini risente molto dello spostamento da Siracusa all'estremo nord italiano: registra la trasformazione dei modi di sentire e di scrivere, muta radicalmente orizzonti di gusto e di cultura. Inevitabilmente subisce anche il peso della periferia. Nello stesso tempo si ritrova in una città che vive al meglio la stagione delle avanguardie. Sofronio Pocarini, l'animatore di tutto, è in contatto con l'Europa che conta. Non sappiamo quali rapporti possa aver avuto Vittorini con questo mondo ribollente (che rappresentava del resto il residuo sussulto dell'agonia, considerato che erano comunque stati recisi i legami con il grande pensiero europeo). Resta il fatto che è da allora, dal passaggio di Vittorini da Gorizia, che gli restano appiccicate addosso le etichette di «francesizzante» e di «europeista». Che non erano un complimento.
Nell'ottobre del 1929 pubblica su L'Italia Letteraria un polemico articolo, «Scarico di coscienza», in cui rinnega i luoghi comuni della cultura letteraria italiana per richiamarsi alla «tradizione europea», che per lui voleva dire Svevo, pur con il suo «scriver male», ma anche Proust, Joyce, Virginia Woolf. Le pressioni politiche impongono l'interruzione della sua collaborazione alla Stampa diretta da Curzio Malaparte. Privato di tale risorsa, è costretto a cercare un impiego più congruo a Firenze.
«Fui un solariano», scrive Vittorini in Diario in pubblico, e «solariano era una parola che, negli ambienti letterari di allora significava antifascista, europeista, universalista, antitradizionalista». Vittorini, lasciata Gorizia, diventerà segretario di redazione della rivista. Solaria aveva dedicato un fascicolo speciale al cinema nel marzo del 1927.
Il racconto La mia guerra può anche essere un racconto giovanile. Vittorini lo pubblica quando ha appena 23 anni. Rappresenta comunque una grande prova narrativa nel saper coniugare fantasia ed esperienza, autobiografia e storia. In realtà è un racconto tutto d'invenzione, senza ricorsi immediati alla vita vissuta: quasi a vedere la storia al caleidoscopio. Ricorda Vittorini di non aver avuto per lunghi periodi «rapporti spontanei con le cose materne della terra» e perciò si ritrovava costretto a «guardare all'indietro, scrivendo rivolto all'indietro».
Eppure il suo «guardare all'indietro» ritrova la cronaca: «'Che cos'è una cannonata?' mi chiedevo. E mi pareva dovesse balzarne fuori un cavallo, dopo lo scoppio, un cavallo nero... galoppava, galoppava sul selciato della città...» È un'immagine che ritroviamo quasi identica nei filmati di Luca Comerio, il cavallo che ha perduto il suo cavaliere e che corre, criniera al vento, sfiorando le fronde degli alberi, che in tempo di guerra nessuno potava, di via Tre Re.
In questa edizione al racconto di Vittorini fa da controcanto un raccontino di Elio Marchi, già apparso sulla rivista Isonzo-Soča (n. 18, 1995). Un dialogo a distanza, una curiosità, nulla più. Per dire che le cose si possono anche non perdere nel tempo.
Piccola borghesia, da cui il racconto La mia guerra è tratto, esce sul finire del 1931 nelle Edizioni di Solaria. In copertina riproduceva il volto ridente dell'attrice Laura La Plante. Nel 1929 era stata la protagonista del film musicale Show Boat, la storia di un viaggio lungo il Mississippi. Il giovane Vittorini, stanco di spaccar pietre, l'avrà visto al cinema Savoia, quello nei cui pressi trafficavano i suoi cugini «mercanti». Non è certo un caso che quello spazio urbano sia diventato l'oggetto del racconto: tutto è vicino, i giardini, la casa degli zii, il lungo corridoio d'entrata al cinema, le vie che portanto al castello.
Elio Vittorini, da Siracusa, muore il 12 febbraio 1966 a Milano. In via Gorizia.
LA MIA GUERRA
di Elio Vittorini
Kinoatelje, 2001
56 p., ill.