Il Cremlino (foto J. Leach)

La risolutezza russa e l'indecisione euroatlantica dopo il 7 agosto. I conflitti "scongelati" del Caucaso, la nuova geografia regionale e la partita sul Mar Nero, nostro commento

02/09/2008 -  Marilisa Lorusso

Se l'azione di Saakashvili, l'attacco all'Ossezia del Sud, rimane ad oggi un imperscrutabile atto di - per lo meno - ingenuità, oltre che un clamoroso errore di valutazione, certo non si può supporre che con altrettanta ingenuità si stia muovendo il vertice moscovita.

La scelta di riconoscere le due Repubbliche repentinamente, senza dare spazio alle sollecitazioni che sarebbero potute emergere dagli incontri europei e internazionali, è eloquente. Mentre ancora gli analisti valutavano le ipotesi di come fosse più strategicamente valido muoversi, i giochi a Mosca erano già finiti. Riconoscimento, unilaterale, immediato, di tutte e due le Repubbliche.

E' un atto fermo e definitivo, e gli inviti a "ripensarci" non possono che essere retorici. Il 27 agosto, il presidente statunitense George Bush invitava a rispettare l'integrità territoriale georgiana, quanto si rispetta quella russa o di ogni altro paese. Sottolineava che il comportamento russo non fa che esacerbare le tensioni e complicare le negoziazioni diplomatiche, e sosteneva che la Russia si sarebbe dovuta attenere agli impegni assunti internazionalmente, riconsiderare la decisione irresponsabile assunta, e seguire quanto sancito dall'accordo in sei punti. Parole svuotate dai fatti.

La validità dell'accordo in sei punti si limita, quindi, alle istanze relative al ritiro dei soldati georgiani e russi nelle posizioni precedenti il 7 agosto, al passaggio di convogli e aiuti umanitari. Per quanto riguarda il peacekeeping, è chiaro che la Russia ha già ben chiaro come esso dovrà essere condotto, e si appellerà alla vaghezza dei termini con cui è descritto nell'accordo stesso, per cercare di realizzarlo più conformemente possibile alle proprie ambizioni.

Quanto al punto relativo alla stabilità e allo status di Abkhazia e Ossezia del Sud, il problema per Mosca pare aver assunto una forma chiara: i conflitti si sono "scongelati" e lo status che ne emerge è l'indipendenza. Che non preluderà, dalle parole del ministro degli Esteri russo Lavrov, a un'annessione come unità federali, per quanto sia molto verosimile che le due nuove statualità faranno per lo meno domanda di venire ammessi nella Comunità degli Stati Indipendenti, o di avere con essa rapporti privilegiati anche in tema di sicurezza (in fondo Mosca si è impegnata ad affrontare il tema della sicurezza e stabilità, nel sesto punto dell'accordo...). Questo potrà giustificare la presenza di peacekeeper della CSI, cioè a prevalenza russa, mentre, data l'uscita della Georgia dalla CSI stessa, il loro intervento nella Georgia appare più problematico da un punto di vista procedurale.

Inutile appare, quindi, pensare che si faccia un passo indietro, o si prendano in considerazione "negoziazioni diplomatiche" che pretendono di prescindere dalla scelta di Mosca. Un atto di forza a tutti gli effetti, la scelta del Cremlino, che per l'appunto, senza alcuna ingenuità, appare pronto ad affrontare tutte le conseguenze di questa azione.

Anzi, è stata per prima Mosca a chiarire che quei meccanismi sanzionatori che paventavano i paesi euroatlantici, come il congelamento della cooperazione in seno alla NATO, sarebbero potuti essere provvedimenti adottati da lei medesima, qualora l'atteggiamento occidentale l'avesse motivata in tale direzione. Ed è chiaro che la Russia non si tirerà indietro. Se la posta continuerà ad alzarsi, non ci saranno comunque segni di arretramento.

E' un "basta" detto a chiare lettere, dopo lunghe contrattazioni, altalene di previsioni e mediazioni continue sulla cosiddetta transizione egemonica. In questo momento il messaggio è chiaro per tutti: a livello locale, per i membri del Governo e dell'opposizione georgiana; per i paesi vicini, in primis l'Azerbaijan a ridosso delle elezioni, con tutta la propria strategia petrolifera degli anni futuri da delineare, e che si è trovato improvvisamente con i confini con la Russia chiusi "a scopo precauzionale" e via dicendo, un'eco che arrivi alla Turchia, a chi si affaccia sul Mar Nero e a tutti i loro alleati. Il "Mare caldo" di zarista memoria si insanguina, piuttosto che abbandonarlo. Anche se, ovviamente, questa è l'estrema ratio che certo Mosca preferirebbe evitare.

Se lo può permettere? Può l'Orso russo, stanco di colpire di fioretto, e che ha approfittato della ghiotta occasione - offerta su un piatto d'argento da Saakashvili - per sfoderare una potente zampata, isolarsi e alienarsi per perseguire i propri interessi? Apparentemente a Mosca si ritiene di sì e, a meno che anche questo non sia un errore di valutazione, il Cremlino si sente con le spalle protette. O almeno ritiene che il gioco valga la candela.

Nella guerra di opinioni già in corso, un dato certo lo dona il calendario: il 26 il riconoscimento, il 27 l'incontro con il presidente della Repubblica Popolare Cinese Hu Jintao. Il quale, a differenza dei leader euroatlantici, non ha tuonato contro la decisione di Mosca, pur non avendola appoggiata. Si è limitato a dire che "la Cina ha notato gli ultimi sviluppi nella regione e auspica che le parti interessate arrivino a un accordo attraverso il dialogo e il coordinamento".

Che l'atteggiamento cinese sia differente, lo si evince anche da un altro interessante dato: fra le misure di ritorsione per la posizione assunta, si ventilava di rivalutare l'assegnazione a Sochi dei giochi invernali del 2014. La zona, a ridosso dell'Abkhazia, doveva essere rilanciata con una gigantesca operazione di immagine attraverso i giochi stessi, e la Russia lo considera un obiettivo importante.

Dopo essersi complimentato per le performance degli atleti russi alle recenti Olimpiadi, Hu a reiterato il pieno appoggio cinese perché la Russia ospiti le Olimpiadi invernali del 2014 nella sede assegnata sul Mar Nero, offrendo assistenza per l'organizzazione e la sicurezza dei giochi.

La posizione russa isola il Paese in misura relativa, non assoluta. Nel valutare il nuovo ordine mondiale si dovrebbe rifuggire a ogni forma di unilateralismo, non solo nelle azioni, ma anche nella comprensione delle dinamiche in corso.