Le politiche della memoria nello Stato nazione. Continuità e rotture tra la Jugoslavia socialista e gli Stati successori. L'Unione europea come luogo possibile di una memoria condivisa. Nostra intervista al professor Stefano Bianchini
Stefano Bianchini è professore ordinario di Storia e Istituzioni dell'Europa Orientale all'Università di Bologna, sede di Forlì, e direttore dell'Istituto per l'Europa centro-orientale e balcanica
Professor Bianchini, perché gli Stati ricordano?
Lo Stato ha bisogno di costruire memoria perché sulla memoria fonda l'organizzazione del consenso e la legittimità del potere politico. Si tratta di un processo che riguarda in particolare lo Stato moderno, dalla fine dell'Ottocento in poi. La celebrazione della presa della Bastiglia ad esempio è stata definita come il momento cruciale della Rivoluzione francese cent'anni dopo l'evento stesso, verso la fine dell'Ottocento per l'appunto.
Nel caso jugoslavo, qual è la funzione svolta dalla memoria della Seconda guerra mondiale nel periodo titoista?
È coerente con questo tipo di ragionamento. La Jugoslavia di Tito fondava la propria legittimità sulla Seconda guerra mondiale e sul movimento partigiano. La selezione degli eventi che doveva essere proposta alla memoria collettiva era quindi legata all'esigenza della costruzione della legittimità politica del sistema.
C'è una relazione tra la memoria della Seconda guerra mondiale nella Jugoslavia socialista e la memoria delle guerre recenti nei nuovi Stati?
Sì dal punto di vista metodologico, no dal punto di vista contenutistico. La metodologia è sempre la stessa: gli Stati successori della Jugoslavia avevano bisogno di costruire la loro legittimità in chiave anticomunista. E poiché i comunisti erano i vincitori della Seconda guerra mondiale, la necessità di legittimare e giustificare gli Stati successori inevitabilmente è passata attraverso una rilettura delle vicende della Seconda guerra mondiale. In alcuni casi, come in Slovenia, sono stati messi in evidenza eccidi commessi dai comunisti. In altri casi, più estremi, si sono addirittura valorizzate forze che si sono schierate con il nazismo - come il caso degli ustascia nella Croazia di Tudjman. Questo è accaduto anche più di recente nella Serbia post Milosevic, con la valorizzazione del movimento cetnico che in larga misura - anche se all'origine ambiguamente schierato con gli alleati - fu un movimento finanziato dall'esercito fascista italiano e poi schierato con il nazismo. I contenuti sono oggi diversi, ma la metodologia è la stessa. Però questa coerenza metodologica non è da condurre a una lotta comunismo/anticomunismo. Questa coerenza è legata al modo in cui è stato costruito lo Stato moderno, e lo Stato moderno è lo Stato nazione.
Al centro della narrazione jugoslava c'era il sintagma della fratellanza e unità. Alla luce di quanto è successo negli anni '90 si trattava di un'invenzione, un mito?
No, non era un mito. E' stata poi mitizzata, ma questo è un altro discorso... Corrispondeva ad un'esigenza reale sperimentata dal movimento partigiano, che era un movimento transnazionale e jugoslavo. Con componenti nazionali, ma jugoslavo. Se questo elemento è poi stato mitizzato e alla fine ripetuto liturgicamente senza riuscire più a costruire consenso, non significa che non sia esistito. La memoria selettiva certamente non ha aiutato quando sono poi emerse anche responsabilità che hanno colpito l'immagine del partigiano eroe "duro e puro", in un passato che naturalmente era stato più complesso.
Quali erano gli elementi di questa complessità?
La Seconda guerra mondiale, in Jugoslavia, è stata anche guerra civile. Non c'è stato solo il conflitto contro i tedeschi e gli italiani invasori. Il movimento partigiano ha dovuto combattere anche contro cetnici e ustascia. E' stata anzi una doppia guerra civile perché c'è stata anche la guerra degli ustascia contro i cetnici e dei cetnici contro gli ustascia. Ci sono stati diversi livelli in una guerra che non era legata semplicemente alla costruzione di un determinato ordine sociale, ma che era anche scontro etno-nazionale.
I monumenti edificati corrispondono a questa rappresentazione?
Spesso incontriamo un simbolismo che trascende letture unicamente ideologiche. Il cimitero partigiano di Mostar, ad esempio, è una costruzione estremamente interessante. Per accedervi bisogna percorrere un tragitto tortuoso e in pendenza che rappresenta la difficoltà della costruzione e della ricostruzione del Paese attraverso la lotta. C'è una rappresentazione simbolica che va al di là della mitologia cercando di costruire un esempio. Anche il monumento alle vittime di Kragujevac va in questa direzione. Due ali spezzate ricordano ottomila persone fucilate dai nazisti. Rappresentano le ali della vita spezzate. Nel loro simbolismo questi monumenti offrono un'immagine che potrebbe anche prescindere dal mito meramente partigiano. La costruzione della libertà è effettivamente un processo faticoso, tortuoso e complesso. La difesa della vita viene invece ricordata nelle ali spezzate di una comunità, c'è quindi il riconoscimento collettivo di un gruppo al di là delle letture ideologiche.
Nella Germania del secondo dopoguerra alcuni teorici, in particolare della scuola di Francoforte, parlavano del fare i conti con il passato nel senso di una riflessione incondizionata su quanto era avvenuto. Cosa sta succedendo da questo punto di vista nei nuovi Stati, rispetto alla memoria di quello che è successo negli anni novanta?
Per il momento non direi proprio che si stia facendo i conti con il passato. Siamo ben lontani da questo. Per poter fare i conti con il passato (col recente passato in questo caso) bisognerebbe fare una riflessione collettiva sulle ragioni che hanno portato la Jugoslavia al suo disfacimento, e a quel disfacimento così violento e sanguinoso. Ma questa è una riflessione troppo dolorosa per le popolazioni vittime di questo conflitto, per chi lo ha provocato e per i governi che hanno costruito di fatto la legittimità degli Stati successori su una memoria parziale. Troppo presto perché questo possa avvenire, e questo spiega perché il cammino per la stessa riconciliazione del Paese sia un cammino molto lungo. Anche perché, a mio avviso, il processo di disgregazione della Jugoslavia non si è ancora concluso.
La storia si compone di diversi rivoli, che abitualmente vengono semplificati nella rappresentazione offerta dai vincitori. Quale potrebbe essere un modo per mantenere l'ambivalenza delle singole storie nella rappresentazione pubblica?
Nel contesto dello Stato moderno, e per Stato moderno intendo Stato nazione, indipendentemente da come si voglia interpretare la parola nazione, credo che questo non sia possibile. La selezione resta parziale. Per poter avere una storia e una memoria condivisa bisogna andare oltre lo Stato nazione. Può esistere ad esempio una memoria condivisa nell'Unione europea? Questa è una domanda importante, perché per poter costruire l'Unione europea c'è bisogno di riconciliazione. Nel momento in cui c'è bisogno di riconciliazione, dobbiamo ricostruire un passato condiviso. Per ricostruire un passato condiviso c'è necessità di porre sul tavolo tutti quegli elementi, quei rivoli come lei li ha definiti, di una storia complessa che deve essere ricostruita non tanto come somma algebrica di tutto ciò che ci accomuna dimenticando quello che ci ha diviso, ma come costruzione della complessità delle vicende che hanno portato a determinate conclusioni anche se drammatiche.
Ci sono degli esempi di sforzi di questo genere, pensiamo al tentativo di scrivere libri di testo scolastici congiunti che affrontino le relazioni greco-turche in maniera condivisa. C'è stata la commissione, tanto boicottata in Italia, la commissione italo-slovena, che ha trattato tutti i temi più delicati tra Otto e Novecento nelle relazioni tra Italia, Jugoslavia e successivamente Slovenia. C'è adesso un progetto analogo di ricostruzione nelle relazioni franco-tedesche. È importante tuttavia che questi sforzi non selezionino a loro volta gli elementi comuni per dire "ci vogliamo bene", quanto ricostruiscano la complessità e anche le tragedie, in un contesto però in cui dobbiamo fare i conti non più con l'omogeneità ma con la complessità. Metodologicamente questo richiede uno sforzo nuovo enorme, una visione diversa della storia e della storiografia.
Le guerre degli anni Novanta rappresentano il fallimento dei Memoriali titoisti?
Quella guerra è sorta in conseguenza del fatto che è fallito o è finito il patto in base al quale sloveni, croati e serbi avevano dato vita alla Jugoslavia nel 1918. Le leadership politiche di questi tre Paesi, a cavallo fra il '90 e il '91, hanno deciso che non c'erano più le ragioni per stare insieme, dopo che quelle stesse tre élite avevano deciso di creare la Jugoslavia nel 1918. Direi che ogni vicenda storica ha un suo inizio e una sua fine, non userei come categoria politologica quella del fallimento. Anche perché nel tempo noi non sappiamo come verrà ulteriormente valorizzato un determinato monumento che comunque rappresenta un passaggio storico. Quei monumenti della lotta partigiana hanno rappresentato comunque una fase che ha portato emancipazione e voto. Le donne in Jugoslavia hanno avuto il diritto di voto grazie alla lotta partigiana. L'importante è capire se questi monumenti devono essere assolutizzati e devono diventare la fonte unica della memoria di uno Stato. Allora sì, in questo caso è fallito, perché è finito. Ma non possiamo vedere nel lungo periodo quale sarà l'impatto di questi monumenti. A volte siamo troppo condizionati dalla sensazione che la storia finisca con noi stessi. In realtà siamo soltanto dei soggetti di passaggio, la storia è molto più lunga. Vedremo. Le piramidi sono una testimonianza del fallimento dell'Impero egizio?
Quei monumenti, ad esempio Jasenovac, sono stati però utilizzati per polarizzare il dibattito pubblico negli anni '80 e '90, con esiti disastrosi...
Il fatto di aver discusso così a lungo su quanti fossero stati uccisi a Jasenovac, se 700 mila o 70 mila o 50 mila, a seconda delle letture fatte dai nazionalisti serbi, croati o in epoca comunista, quando si parlava di 700 mila morti a Jasenovac, non cambia la natura di quel dibattito. Adesso secondo i calcoli che sembrano più vicini al reale si dovrebbe essere trattato di un numero fra le 70 e le 100 mila persone. Ma tutto quel dibattito doveva servire ad una sola cosa, a chiarire se i serbi avevano esagerato oppure no, e se i croati volevano ridurre il peso dei serbi oppure no. Quindi a che cosa serviva in ultima analisi? A preparare culturalmente la gente ad ammazzarsi. Questo era ciò a cui serviva. A scavare l'odio, perché solo l'odio avrebbe potuto provocare la fine della Jugoslavia. L'unico modo per dividere quel Paese era creare le condizioni perché attraverso l'odio ci si potesse ammazzare, in modo tale da costruire un muro che impedisse la ricostruzione di un vivere comune. Quella ricostruzione del vivere comune che adesso paradossalmente potrebbe passare attraverso il processo di allargamento dell'Unione europea, qualora il processo di integrazione vada avanti. Gli uomini politici, che all'epoca erano quasi tutti membri della Lega dei comunisti della Jugoslavia, avevano già preparato il piano per poter dividere il Paese. Nessuno mi toglierà dalla mente che le leadership di Slovenia, Croazia e Serbia avessero concordato. Ormai i dati li abbiamo anche se purtroppo non abbiamo i verbali delle riunioni. Avevano concordato di frantumare il Paese: questo avviene tra il gennaio e il marzo del 1991, quando la Federazione jugoslava ancora esisteva. C'erano anche altre forze che guardavano diversamente al futuro del Paese. Purtroppo non hanno avuto né lo spazio né il riconoscimento, non avevano poi neanche le armi e quindi non avrebbero avuto gli strumenti. Ci sono state decine di migliaia di morti che risulteranno tanto più inutili quanto più si verificherà l'allargamento dell'Unione europea. Gente morta veramente per niente. È una grande responsabilità politica che ricade su quei dirigenti. Questo naturalmente se il processo di integrazione europea andrà avanti. Io qualche dubbio oggi ce l'ho.