L'opinione di Gianluca Paciucci sulla cooperazione culturale tra Italia e Bosnia Erzegovina. Un'attenzione calante nonostante il bisogno reciproco, il silenzio bosniaco e i limiti del provincialismo italiano. Nostra intervista
Gianluca Paciucci è stato dal 2002 al 2006 responsabile culturale presso l'Ambasciata d'Italia in Bosnia Erzegovina e lettore presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università di Sarajevo. Tra i promotori degli Incontri internazionali di poesia, ha tradotto Sarajevo, mon amour (Infinito edizioni, 2007), intervista biografica a Jovan Divjak. Insegnante e poeta, ha pubblicato tra gli altri Erose forze d'eros (Infinito edizioni, 2009), raccolta di versi nati proprio a Sarajevo.
Da responsabile culturale in passato dell'Ambasciata italiana, e oggi da operatore culturale, qual è a tuo giudizio lo stato della cooperazione tra Italia e Bosnia Erzegovina in questo settore?
Non vivo più in Bosnia Erzegovina da qualche anno, ma continuo a seguire la situazione e mi sembra ci siano stati dei passi indietro. L'entusiasmo del primo dopoguerra, per certi versi strano ma simile a quello dei nostri padri dopo il 1945, si è esaurito. L'Italia ha mantenuto un rapporto con questo paese ben oltre la fine del conflitto armato, contrariamente ad altri per i quali cessata la guerra era tutto finito. La nostra presenza sia delle istituzioni sia dell'associazionismo ha compreso che il dopoguerra può essere a volte più difficile della guerra stessa, con quella "fatica delle pianure" di cui parlava Brecht. E per un buon periodo l'attenzione è stata alta, con molte borse di studio per studenti bosniaci o collaborazioni tra università.
Le presenze attive continuano, ad esempio il progetto Ars Aevi per un museo di arte moderna e contemporanea a Sarajevo su disegno di Renzo Piano. Progetto grandioso, difficile, massimalista, ma che aveva detto una cosa chiara: Sarajevo come possibile capitale culturale dell'Europa. Perché no? Bilbao è rinata grazie ad un museo. Certo il progetto è forse troppo impegnativo per le attuali capacità di spesa della Bosnia Erzegovina e dell'Italia, ma l'intuizione resta valida e può dare profilo alla presenza tanto del Ministero degli Esteri quanto delle molte municipalità coinvolte (tra cui Venezia, Prato, Milano...) e delle associazioni locali.
Il problema è che il dopoguerra si sta prolungando in modo eccessivo, la Bosnia non riesce ad uscire dall'emergenza e a darsi una politica di lungo respiro, anche in campo culturale. Così anche dall'Italia si è iniziato a guardare altrove, a nuove emergenze internazionali, come se i vicini Balcani non fossero più importanti. In questo periodo tutte le nostre rappresentanze diplomatiche all'estero stanno riducendo il proprio intervento, alcune chiudendo proprio. Ma la Bosnia è un piccolo paese di pochi milioni di abitanti, forse si potrebbe mantenere una presenza forte anche con investimenti limitati. Invece assistiamo ad una fase di calo dell'intervento e di generale disattenzione per i Balcani, che poi è la disattenzione per tutto ciò che sta al di fuori del nostro piccolo mondo. L'Italia rischia di provincializzarsi nell'immaginario, e di conseguenza nell'intervento politico e culturale all'estero.
Hai citato molti soggetti italiani attivi in campo culturale in Bosnia Erzegovina: ministero, regioni, enti locali, associazioni... Esiste però un "sistema Italia"?
Non penso si debba essere statalisti ad ogni costo. La cosa bella dell'Italia è che a volte le collaborazioni culturali più interessanti sono nate da piccole associazioni di periferia che collaborano con singole realtà bosniache. Certo è importante mantenere una visione d'insieme, perché pure dalla Bosnia vengano cose utili all'Italia. Al tempo stesso mi chiedo se questa grande gelosia italica per le cose che ciascuno fa non sia anche inevitabile. Credo venga dalle nostre radici, un intervento molto centralizzato sul modello francese in Italia non è possibile, e forse nemmeno auspicabile. C'è una ricchezza di realtà locali, non localistiche ma aperte alla collaborazione, con effetti positivi che ricadono sulle nostre comunità. Resta il dubbio su cosa sia meglio: il centralismo burocratico, affannoso, romano, ma che ha anche i suoi vantaggi, o la decentralizzazione che è partecipazione ma può portare alla mafiosità locale. Rispetto all'esperienza bosniaca, comunque, l'effetto positivo dei piccoli interventi è stato maggiore di quello negativo.
Come vedi lo scambio sul versante italiano, cioè quanto circolano le nuove produzioni culturali, i nuovi scrittori e artisti bosniaci in Italia?
Qui sono più pessimista. C'è qualche realtà culturale importante che dialoga con la Bosnia Erzegovina, ma in genere l'Italia vive nell'incapacità di conoscere ciò che avviene oltre i propri confini, perché affetta da provincialismo. Verso il mondo slavo c'è un'ignoranza di fatto, che si vede anche nella chiusura o nelle difficoltà vissute da vari Dipartimenti di slavistica, penso alle università di Genova, di Roma o dell'Orientale di Napoli. Ed è un problema serio, perché mentre gli altri ci conoscono noi non li conosciamo. Questo genera la paura e l'immagine degli slavi violenti, che in parte persiste ancora. E ci impedisce di entrare in contatto con una splendida produzione culturale: per fare due nomi, Danilo Kiš e Miljenko Jergović sono tradotti in italiano ma restano sconosciuti perfino ai letterati, che guardano altrove. Colpevolmente.
La cultura di un paese è molto legata alla sua capitale: che immagine hai di Sarajevo?
Sarajevo è sempre stato uno dei cuori dell'Europa, non c'era bisogno della guerra per rendersene conto. Gerusalemme d'Europa suonava quasi uno slogan pubblicitario, ma rendeva il fatto che in un fazzoletto di terra si possano trovare le chiese ortodossa e cattolica, delle splendide moschee, le sinagoghe askhenazita e sefardita, e vari luoghi di culto laico. A questi tengo particolarmente, come il monumento ai liberatori della città il 6 aprile 1945, la fiamma eterna che non è stata spenta nemmeno sotto l'assedio e che i sarajevesi hanno preso a simbolo della vecchia e nuova resistenza. Oppure il cimitero moderno del 1965, col suo spiazzo entro cui stanno cinque cappelle, una per religione compresa quella per gli atei. Una Sarajevo dell'accoglienza dunque, che purtroppo ho visto smentirsi nel dopoguerra per la violenza che vi è cresciuta. Sia quella dell'assedio delle bande armate contro i civili, tipica del novecento, sia quella odierna delle bande giovanili.
Ma non bisogna dimenticare Banja Luka, un luogo che frequentiamo poco come occidentali. C'è una sorta di puzza sotto il naso, ma che senso ha non andarci? Posso capire persone di Sarajevo o Srebrenica, ma io sento che è importante frequentarla. A Banja Luka c'è un dipartimento di italianistica nella Facoltà di filosofia, avviato da Danilo Capasso, che da anni forma nuove generazioni di studenti all'antifascismo. Persone che, quando i tempi saranno maturi, potranno contribuire a costruire un paese più libero e giusto anche in quella parte di Bosnia Erzegovina.
Operare in campo culturale significa parlare del passato e del futuro, e quindi in Bosnia Erzegovina della guerra. Tra chi dice solo "guardiamo al futuro" e chi vuole monumentalizzare il passato, che alternative vedi?
Sono entrambi vicoli ciechi, questo è certo. Portano all'asfissia politica nell'oggi. Per uscirne ci vuole il coraggio degli intellettuali, una figura da riscoprire in quei luoghi, accanto ad una rinascita economica perché se manca il pane è difficile parlare d'altro. Una rinascita economica seria, sostenibile, non quella falsa di ora. E intellettuali che facciano il loro lavoro, ma ho paura che pochi lo facciano e quei pochi vengono marginalizzati in ogni comunità: a Sarajevo come a Banja Luka, a Belgrado come a Pristina.
Ciò danneggia le nuove generazioni, con un impoverimento culturale che se non porta direttamente a nuove guerre, radica l'ostilità per generazioni. Gli intellettuali e i padroni dell'economia hanno responsabilità rilevanti, ma temo che entrambi stiano guardando più nelle proprie tasche che al bene dei loro popoli.