La Georgia odierna è come un'automobile incidentata trainata da un carro attrezzi di cui non si conosce ancora il conducente; potrebbero essere gli americani o gli europei o perfino i russi alla guida
Di Paolo Bergamaschi*
La nebbia improvvisa che avvolge nell'oscurità l'aeroporto di Monaco rischia di farmi perdere la coincidenza per Tbilisi ma mi regala dall'alto, in compenso, lo spettacolo della Baviera ricoperta da una soffice trapunta trafitta da luci soffuse in corrispondenza dei centri abitati. Una volta in queste situazioni ero preso dal panico; ora cammino con fretta controllata per i lunghi androni affidandomi alla sorte benigna ed alla decennale esperienza nella convinzione che, vada come vada, si troverà, comunque, una soluzione. In realtà era l'atmosfera degli aeroporti in genere a farmi entrare in uno stato di eccitazione. Il pensiero della partenza, il lungo viaggio e la meta sconosciuta mi proiettavano nella dimensione dell'avventura, incapace di figurarmi cosa mi aspettava all'arrivo. Oggi ho perso il fascino dell'ignoto perché so perfettamente cosa troverò dall'altra parte. Rivoluzione, guerra, guerra civile, colpo di stato, secessione, attentato al presidente, mobilitazioni di massa, tumulti, irruzione nel parlamento, stato d'emergenza, coprifuoco: non saprei, sinceramente, cosa possa mancare ancora alla storia recente della Georgia, da quando bazzico da queste parti. Qui l'eccezione è diventata la regola, l'eccesso l'abitudine, l'instabilità la normalità. Forse è anche questo che mi attrae. Mi meraviglierei se un giorno arrivassi quaggiù senza che, nel frattempo, sia successo qualcosa di rilevante.
Gli ultimi sondaggi indicano che trenta georgiani su cento sono convinti che il proprio paese abbia vinto la guerra di agosto quando le forze armate russe, irrompendo dalle regioni separatiste dell'Abkhazia e dell'Ossezia meridionale, hanno sbaragliato la debole resistenza dell'esercito di Tbilisi e preso il controllo di larghe fasce di territorio per arrestarsi, sotto la pressione internazionale, solo a pochi chilometri dalla capitale. Sempre lo stesso sondaggio mostra che il consenso dell'opinione pubblica nei confronti dell'operato del proprio governo è quasi plebiscitario. Prima della guerra le truppe georgiane controllavano ancora alcuni villaggi dell'Ossezia del sud ed una vallata dell'Abkhazia (la gola di Kodori), oggi sono state completamente espulse da entrambe le ex province. Prima del conflitto l'economia del paese era una delle più fiorenti della regione, oggi è a rotoli e senza i generosi aiuti europei ed americani non potrebbe tirare avanti. Prima della crisi la Georgia sembrava procedere spedita verso l'adesione alla NATO ed un rapporto più stretto con l'Unione Europea, oggi deve far fronte alle crescenti perplessità dei potenziali alleati. Prima degli scontri il presidente Saakashvili veniva descritto come l'unico leader democratico della regione, oggi sono in molti a dipingerlo come uno dei tanti autocrati che calcano la scena locale. Eppure gli esponenti di governo che incontro non danno alcun segno di pentimento o autocritica per i fatti dell'agosto scorso, sono certi che non si potesse fare altrimenti. Sarà una commissione d'inchiesta internazionale a stabilire le responsabilità dell'accaduto, ma intanto c'è il tempo per presentarsi come vincitori morali del conflitto, il Davide di turno contro la prepotenza del Golia russo. Solo che nella parabola biblica il gigante alla fine viene messo al tappeto mentre in questo caso è Davide a subire le pesanti conseguenze. "La situazione sul terreno è ancora molto volatile", spiega il ministro per la reintegrazione Temur Yakobashvili, "e sarebbe un errore se l'Unione Europea tornasse a normalizzare le relazioni con la Russia", aggiunge con una certa cautela, "se le navi della marina americana fossero state ormeggiate fin dall'inizio nei nostri porti la guerra non sarebbe nemmeno scoppiata". La stessa opinione mi era stata data la sera precedente da Khatuna Gogorishvili, deputata e vecchia amica, durante la tradizionale cena di benvenuto. E' attorno alla tavola imbandita che si coglie fino in fondo lo spirito georgiano e si assapora l'avvolgente e, a volte, soffocante ospitalità della gente del Caucaso.
Che il governo attuale di Tbilisi abbia un rapporto privilegiato con l'attuale amministrazione americana non è un mistero per nessuno. Quello che non è chiaro, però, per gli analisti internazionali è il ruolo giocato da Washington nella decisione di Saakashvili di attaccare l'Ossezia meridionale il 7 agosto. In un incontro a Bruxelles alla fine dello stesso mese cui ho assistito Matthew Bryza, sottosegretario americano agli esteri, ha dichiarato testualmente di avere sconsigliato nella maniera più decisa le autorità georgiane dal reagire alle provocazioni russe ma che, comunque, c'è un limite alla diplomazia. "E' stato un errore attaccare Tskhinvali (la capitale osseta)" ha affermato il politico americano guardandosi bene, ad ogni modo, dal prendere le distanze dal governo di Tbilisi. Una versione più attendibile dell'accaduto me la fornisce Nana, un'altra amica profonda conoscitrice degli ambienti georgiani: "E' chiaro che quando Bush fa passare Saakashvili come il campione che difende i valori occidentali e ne tesse le lodi in tutte le occasioni lo incoraggia ad agire dando l'impressione implicita che non mancherà il sostegno americano". Gli aiuti americani, però, sono arrivati solo alla fine della crisi e, questa volta, sono stati gli europei a sbrogliare l'ingarbugliata matassa. E' ancora Nana a darmi l'immagine più pregnante del suo paese: "la Georgia odierna è come un'automobile incidentata ed ammaccata trainata da un carro attrezzi di cui non si conosce ancora il conducente; potrebbero essere gli americani o gli europei o perfino i russi alla guida". Proprio i russi agli occhi dell'uomo della strada, anche se chi è al governo non osa confessarlo, sembrano avere riconquistato un certo prestigio dopo la recente prova di forza. I vicini non si scelgono e con loro bisogna, prima o poi, trovare un modo per andare d'accordo. Facile a dirsi ma difficile a farsi se il vicino è grande, grosso ed invadente ed incline alle maniere spicce. Occorre qualcuno che faccia da paciere ed è l'arduo compito che l'Europa si è assunta.
La città di Gori si trova a una settantina di chilometri a ovest di Tbilisi, sulla principale arteria che collega la capitale al Mar Nero. Da qui si diparte la via che porta a Tskhinvali e poi, più a nord, attraverso il Roki tunnel in Russia. Gori doveva costituire l'immediata retrovia del conflitto, ma si è ritrovata nell'occhio del ciclone con le ondate di profughi che fuggivano dall'Ossezia sotto la spinta incontenibile dell'armata russa. Secondo le stime delle Nazioni Unite 127.000 persone sono state costrette ad abbandonare le proprie case. Anche Gori è stata evacuata durante quei caldi giorni di agosto ma non resta alcun segno della guerra e dell'occupazione dell'esercito di Mosca. Tutto sembra uguale a come me la ricordavo, compresa l'imponente statua di Stalin al centro della piazza principale. L'unica indiretta testimonianza del conflitto sono i due tir della Croce Rossa Italiana parcheggiati proprio sotto il monumento al dittatore sovietico la cui casa natale, con annesso museo, si trova a poche centinaia di metri di distanza. Da tempo le autorità georgiane vorrebbero rimuovere quella statua, ma l'eredità di Stalin appare ancora troppo ingombrante. Si dice che Saakashvili non voglia farlo da solo; vorrebbe un'iniziativa bipartisan, ma l'opposizione non sembra entusiasta dell'idea. Inoltre, se il presidente georgiano desse l'ordine di farlo adesso, rischierebbe di essere accusato di cercare solo una piccola vendetta ai danni dei russi dopo la pesante sconfitta subita sul campo. Il desiderio inconfessato era, probabilmente, che fossero i russi stessi durante i bombardamenti ad abbattere il monumento, ma questi se ne sono guardati bene dal farlo. I più informati dicono che resta tuttora nel cassetto l'idea di invitare a Gori l'ex presidente della repubblica ceca Vaclav Havel, simbolo della lotta anti-comunista, e con una cerimonia ufficiale rimuovere la statua, impacchettarla e spedirla a Mosca. Sta di fatto che Stalin è ancora lì e ci resterà per un bel pezzo.
Con sorprendente prontezza l'Unione Europea è riuscita nell'impresa di dispiegare in pochi giorni, all'inizio di ottobre, più di 200 osservatori nelle zone di cuscinetto adiacenti alle linee amministrative che separano l'Abkhazia e l'Ossezia meridionale dalla Georgia. Era una delle condizioni poste dai russi per l'abbandono dei posti di controllo da parte delle proprie truppe. L'accordo di pace siglato dal presidente di turno dell'Unione Sarkozy ed il presidente della Federazione Russa Medvedev prevedeva il ritiro completo sulle posizioni precedenti allo scoppio del conflitto, ma questo è avvenuto solo in parte. Nel frattempo, infatti, Mosca ha riconosciuto l'indipendenza delle due regioni separatiste e dopo la conclusione di accordi di cooperazione militare ha rafforzato la propria presenza riconvertendo il contingente di mantenimento della pace già in loco, previsto dagli accordi di cessate il fuoco dei primi anni novanta, in forze alleate dei nuovi stati. Gli osservatori europei hanno il compito di contribuire alla stabilizzazione e normalizzazione della situazione e di cercare di ricostruire un clima di fiducia fra le parti. Poiché le autorità abkhaze ed ossete, però, ne impediscono l'accesso nei propri territori sono costretti a monitorare solo le zone di conflitto tornate sotto il controllo di Tbilisi. Anche la richiesta di ingresso inoltrata dall'eurodeputata francese Marianne Isler-Beguin che accompagno è stata rispedita al mittente. Ci aggreghiamo, quindi, ad una pattuglia franco-polacca per il quotidiano giro di perlustrazione al confine con l'Ossezia. Le pattuglie sono di ronda giorno e notte. Anche se totalmente disarmate, con la loro presenza nei villaggi e nelle località più sperdute aiutano a risollevare il morale di una popolazione sfibrata dalla paura e dalle privazioni subite durante la breve guerra.
Le famiglie che incontriamo a Ergneti vivono nella terra di nessuno che separa le postazioni georgiane da quelle russe fra campi di granoturco striminzito, verze ed alberi di mele. Poche case semidistrutte nella fascia ai cui lati le sentinelle si scrutano e si controllano con il rischio continuo di improvvise schermaglie. Sono rientrate da poco e si preparano al lungo inverno cercando di riparare le misere abitazioni. Non si lamentano dei soldati russi; sostengono, come la maggior parte dei profughi, che il vero problema sono le bande di paramilitari osseti che sfuggono a qualsiasi regola e si lasciano andare alle azioni più atroci. Più a ovest, al check point di Zemo Nikosi, sotto ad un cielo limpido spazzato dal vento freddo del Caucaso, i bambini giocano fra i sacchi di sabbia e gli autoblindo.
I poliziotti georgiani ci spiegano che vorrebbero urgentemente recuperare nella "no man's land" la carcassa di un carro armato abbandonato in un fossato (gli osservatori europei ci spiegheranno, più tardi, che si teme la presenza di uranio impoverito) ma che non riescono a concordare l'operazione con i militari russi. Ci spingiamo, quindi, all'interno della terra di nessuno con i tank russi dalla parte opposta che cominciano a posizionarsi. Il comandante ci viene incontro accompagnato da un paio di soldati con il mitra in pugno. Vuole sapere chi siamo e che intenzioni abbiamo. Attimi di tensione e, poi, una volta spiegato il motivo della pacifica incursione, grandi sorrisi davanti ai microfoni ed alle telecamere dei giornalisti che ci accompagnano. "I soldati russi sono qui per garantire la pace; vogliamo che osseti e georgiani tornino a parlarsi", dichiara. Rotto il ghiaccio, ci raggiungono anche i militari di Tbilisi che trovano con la controparte, in pochi minuti, l'accordo sulle modalità dell'intervento. Sullo sfondo risaltano le macerie delle prime case di Tskhinvali, duramente colpita dai bombardamenti. Ce ne andiamo soddisfatti per avere creato un momento di dialogo fra le parti in una situazione ancora troppo tesa mentre il nostro fuoristrada traballa sull'asfalto che porta i segni evidenti dei cingoli dei carrarmati. Sulla via del ritorno ci fermiamo a dare
un'occhiata ai nuovi villaggi in costruzione destinati ad ospitare i circa 31.000 sfollati che non possono, si spera solo per il momento, fare ritorno alle proprie abitazioni in Ossezia. I paesi occidentali hanno appena garantito al governo georgiano aiuti per 3,45 miliardi di euro. Le opere sono in fase di avanzamento e dovrebbero concludersi prima dell'inverno. Almeno da questo punto di vista le autorità georgiane hanno mantenuto gli impegni dimostrandosi all'altezza della situazione. A ciascuna delle famiglie, inoltre, è stato assegnato un pezzo di terra coltivabile visto che si tratta, in buona parte, di agricoltori.
Da uno a dieci direi sette e mezzo. Non il top ma quasi. Dovessi un giorno smettere di fare la spola fra Bruxelles e la pianura padana, Tbilisi potrebbe essere uno dei posti dove vorrei vivere. "Siete venuti per scongiurare una nuova guerra?" ci chiedono preoccupate tante delle persone che incontriamo al di fuori degli incontri ufficiali. La guerra combattuta ha lasciato il posto ad una guerra di propaganda fatta di veleni e retorica che si allunga fino a Ginevra dove i colloqui di pace fra russi e georgiani, sotto l'egida di Nazioni Unite ed Unione Europea, si stanno arenando fra questioni formali e veti incrociati. Forse non sarà una guerra ma un'altra rivoluzione a sconvolgere la Georgia o forse il paese sarà vittima di nuovi equilibri geopolitici in una complessa partita che si gioca fra Russia, Europa e Stati Uniti su di uno scacchiere più ampio. Ogni cosa a suo tempo. Intanto i profughi aspettano.
*Consigliere per gli Affari Esteri del Parlamento europeo