Si chiama "Quarta parete", come il muro immaginario che divide il palco dalla platea ed è la prima compagnia teatrale albanese in Italia. Abbiamo incontrato i suoi fondatori

21/05/2008 -  Marjola Rukaj

La prima compagnia teatrale albanese in Italia parla dell'Albania degli immigrati nel nostro paese, ma anche delle dimensioni umane dell'essere migranti a prescindere dalla nazionalità, in qualsiasi parte del mondo.

La Quarta parete divide il palco dalla platea, ma rende anche possibile l'incontro tra chi sta in scena e il pubblico. Per questo rappresenta l'idea che ha posto in essere la compagnia: la comunicazione, il mettere in contatto un gruppo di persone, i migranti, con coloro che migranti non sono, per riuscire a sciogliere il velo di diffidenza che si interpone attraverso pregiudizi, luoghi comuni e la nota mancanza di contatto.

Anche i due fondatori della compagnia "Quarta parete", Albert Dedja e Dardana Berdyna, sono parte di questa realtà. Sono due artisti albanesi, lei attrice e regista, lui scenografo, che negli anni '90 hanno lasciato l'Albania come molti altri connazionali, per rendersi parte di quel fenomeno che ha definitivamente cambiato l'Albania. La coppia ha lasciato il teatro Aleksander Moisiu di Durazzo per passare alla vita da migranti, alla spersonalizzazione, alle crisi identitarie, alla metamorfosi che produce una nuova identità in un fragile equilibrio tra la nuova realtà e quella lasciata alle spalle nel passato. Si tratta della condizione di molti albanesi, ma anche della condizione dei migranti in genere.

La compagnia rappresenta questi giorni il suo primo spettacolo realizzato a Trento dove la coppia vive. Si intitola "La mano che non mordi" come uno degli ultimi libri di Ornela Vorpsi, che gli autori hanno interpretato con il linguaggio teatrale intrecciandolo in parte anche con il precedente "Il paese dove non si muore mai". Si tratta di una trasposizione teatrale dell'opera della Vorpsi, che è dopotutto un racconto interiore di sensazioni, esperienze da migrante ma anche dell'Albania abbandonata che ritorna tra i ricordi, le riflessioni, e le opinioni alterate della nuova realtà. Per il pubblico teatrale ne risulta un'ottima combinazione dell'intrecciarsi dei racconti incensurati della Vorpsi con il linguaggio del teatro contemporaneo.

La protagonista è Dardana Berdyna, una donna migrante munita di valigie che vaga sul palco portando con sé tutto quello che della sua vita è trasportabile, ma anche il resto che rimane radicato lontano.

C'è una scenografia impressionate da teatro sperimentale, dall'atmosfera suggestiva cui fa da sfondo una tela sanguinante, strappata, su cui vengono proiettati visi lacrimanti dei Balcani, espressioni interrogative di migranti anonimi e sguardi in cui si scorge una sensazione di temporaneità che tutti hanno in comune a prescindere dal colore della pelle e della cultura di provenienza.

Si sentono rumori, di aerei, aeroporti, lingue che si mescolano, e una babele postmoderna riempita dalla colona sonora "Les étrangers" di Patty Pravo, ma anche dalla musica albanese, e balcanica, dai kabà di Laver Bariu che vuole trasportare il pubblico in quello che in mancanza di una definizione migliore viene chiamata "spiritualità balcanica".

Si tratta prevalentemente di un monologo, ma di tanto in tanto, Hans Peter Gottardi, l'attore italiano che fa parte della troupe insieme ai due albanesi, attraversa la scena con un carrello pieno di buste di plastica riempite d'acqua torbida, che assomiglia alle acque dell'Adriatico nei giorni in cui non si va al mare, perché l'acqua conserva il significato del luogo centrale, le aspettative del futuro, il cambiamento, la fine e l'inizio, ma anche il dolore. Sono buste di ricordi intorpiditi che la tecnica illumina seguendo il ritmo delle parole di Berdyna. E poi c'è il dialogo tra i due attori, che sembrano vivere in due mondi paralleli, reciprocamente complementari, del presente, e del passato.

Il testo di Vorpsi, l'interpretazione di Berdyna e Gottardi e l'arte scenica di Dedja sono stati messi in scena a Trento, Rovereto e Bolzano, e altre date avranno luogo prossimamente a Milano, Napoli e Roma. E' un teatro di migranti, un teatro multiculturale, ma anche un assaggio teatrale del meglio che il teatro contemporaneo possa offrire.

Abbiamo incontrato Albert Dedja e Dardana Berdyna, fondatori della compagnia.

Perché scegliere proprio il testo di Ornela Vorpsi? Per fare teatro migrante c'è ampia scelta, basta menzionare Slawomir Mrozek...

Innanzitutto i libri della Vorpsi sono molto belli, e abbiamo notato una piena sintonia con il nostro punto di vista sull'immigrazione, sul nostro passato, c'è un forte nesso anche con la nostra storia personale. Ma il messaggio della Vorpsi è universale, non è qualcosa che vale solo per gli albanesi.

Parla delle riflessioni che tutti i migranti possono fare ovunque siano. Poi ovviamente il fatto che tratta del nostro paese, della nostra cultura, ci ha convinto a volerlo rappresentare. Parla delle nostre feste, dei matrimoni, dei Balcani, del sole di Tirana, della polvere, e anche del peso dell'emigrazione, o della triste storia della dittatura in cui abbiamo vissuto, l'isolamento ... Sono dei punti che abbiamo in comune con lei. Dal punto di vista teatrale era molto interessante mettere tutto questo insieme in uno spettacolo.

Voi dite che il vostro è un teatro contro i pregiudizi. Come viene espresso questo nei vostri lavori?

Noi non facciamo teatro politico. Non trattiamo l'aspetto politico, semplicemente perché ciò arriva in modo indiretto attraverso la condizione del migrante, si vede anche il disagio, anche i pregiudizi. Non ci piace fare politica, ma semplicemente convincere che c'è bisogno di conoscere le culture altrui prima di poter giudicare. Noi vogliamo che l'opinione pubblica si sensibilizzi sulla necessità di comunicare, essere più propensa a comunicare con chi viene da fuori per vivere in questa terra.

Com'è fare teatro albanese in Italia?

Noi non siamo gente che vede solo l'aspetto negativo delle cose, cerchiamo di focalizzare anche quelli positivi. Non bisogna necessariamente parlare male. La nostra iniziativa teatrale è stata accolta con enorme interesse, dal pubblico e dagli enti culturali. C'è enorme considerazione per la scuola albanese di teatro. Il pubblico ha accolto in modo molto sentito lo spettacolo. Ho visto alcuni nel pubblico in lacrime per l'emozione dopo le rappresentazioni e questo ci ha fatto enormemente piacere.

Era una storia balcanica ma qualcuno ci ha detto che fa risvegliare anche nel pubblico italiano i ricordi dell'emigrazione che anche gli italiani hanno vissuto nella loro storia. Ad esempio, uno dei nostri attori, Hans Peter Gottardi, è nato in Svizzera da una famiglia di emigrati italiani, quindi la sua storia assomiglia un po' alla nostra. Anche lui durante le prove ha riconosciuto delle parti della propria vita con i genitori emigrati in Svizzera, riconosceva la nostra sensibilità, il disagio, la nostalgia.

Quali sono i progetti per il futuro?

Dato che il primo progetto ha avuto successo, un critico milanese ci ha detto "Non mollate, avete in mano qualcosa di straordinario". Ci è stato suggerito di portare lo spettacolo anche in altre città. Per ora i nostri progetti sono Roma, Napoli, Milano. Sarà un piacere trasmettere anche in queste città il nostro messaggio. Dopo tutto si tratta di uno spettacolo che potrebbe venir rappresentato in Italia come in Svizzera, in Olanda, come a New York, ovunque, perché l'emigrazione è ovunque la stessa.

E in Albania...

Questa è la ciliegina sulla torta, porteremo questo spettacolo anche in Albania. Ci piacerebbe fare una rappresentazione al Teatro Nazionale, e poi ritornare al Aleksander Moisiu di Durazzo, il nostro caro teatro che abbiamo lasciato negli anni '90 per venire in Italia. Però ovviamente bisogna adattare tutto in albanese. Parleremo anche con l'autrice, perché ci sarà anche una traduzione in albanese del suo libro e vogliamo essere in sintonia con il testo albanese.

Il messaggio principale della pièce è che noi siamo spaesati, qua dove viviamo ma anche nel nostro paese d'origine, non perché non abbiamo più nessuno, ma quando torniamo lì la gente, gli amici non ci vedono più come parte della loro società. Ovviamente anche la politica ha le sue colpe, il fatto che noi non siamo in alcun modo tutelati né in Italia né in Albania influisce. E' un po' come dice la Vorpsi, che quando va in Albania, le manca l'Europa. Si vive tra due centri di gravità, il passato e il presente.

In Albania, penso sarà una novità, perché noi esprimiamo emotivamente, lo stesso spaesamento anche nel nostro paese. Però non porteremo questo spettacolo in Albania per introdurre qualche novità inaudita o per fare una rivoluzione artistica. Assolutamente non abbiamo pregiudizi del genere. Non penso che l'Albania sia arretrata in questo senso. Anche tecnicamente vengono adoperati strumenti contemporanei, si vede nelle opere dei numerosi artisti contemporanei albanesi.

Noi puntiamo solo al messaggio emotivo che vogliamo giunga in modo più diretto possibile. Non si tratta di una sfida. In Albania ci sono ormai tutti gli elementi dell'arte contemporanea occidentale. Anche il teatro ne è parte, le scuole di recitazione sono ormai tutte orientate secondo i canoni dell'arte contemporanea. Non si esclude la possibilità che in futuro si possa intessere una collaborazione con le scuole di teatro albanesi o con delle compagnie private in Albania.