Un fenomeno in crescita, favorito da fattori economici, politici, ma anche culturali. È il razzismo, che trova radici sempre più profonde in Italia e in Europa, e a cui il Vecchio continente fatica a dare risposte sostanziali. OBC ne ha parlato con l'antropologa Annamaria Rivera
Annamaria Rivera è un’antropologa che da lungo tempo si occupa di etnocentrismo, xenofobia e razzismo. Docente all’Università di Bari, ha collaborato ai rapporti dello European Monitoring Centre on Racism and Xenophobia istituito dall’Unione europea. Ha pubblicato numerosi saggi, il più recente dei quali è “Regole e roghi. Metamorfosi del razzismo” (Dedalo, Bari 2009). L’abbiamo incontrata per parlare del fenomeno in Italia e capirne similitudini e differenze con il resto d’Europa.
Com’è cambiato negli ultimi tempi il fenomeno razzista in Italia?
La situazione è peggiorata. In questi anni, e soprattutto a partire dall’insediamento dell’attuale governo, c’è stata un’escalation di provvedimenti legislativi ai danni dei migranti e dei rifugiati di tipo discriminatorio, persecutorio, a mio parere anticostituzionale, dei quali il cosiddetto pacchetto-sicurezza è molto rappresentativo. Nel contempo è come se, soprattutto grazie all’opera svolta dalla Lega Nord, fosse caduto ogni freno inibitorio, per cui le dichiarazioni e gli insulti razzisti sono diventati sempre più tollerati, anche se pronunciati da rappresentanti delle istituzioni. Oggi è come se il razzismo istituzionale si fosse saldato con la xenofobia popolare (che si potrebbe anche definire “razzismo dei piccoli bianchi”). Il che rende “normali” e quotidiane anche proposte contraddittorie e deliranti come l’obbligo delle insegne dei locali solo in italiano o in dialetto, gli esami di lingua italiana per gli stranieri che vogliano aprire un esercizio pubblico, i corsi di dialetto veneto per gli immigrati, le operazioni di caccia al “clandestino” come “Bianco natale”.
Come lo spiega?
Le radici dell’ideologia e del comportamento razzista affondano nella storia del nostro Paese, perché questo comportamento non è stato elaborato. Si parla sempre della “effimera” esperienza coloniale, ma non si dice quanto fu feroce e cruenta, non si ricorda che l'Italia ha il primato di aver utilizzato, su larga scala, le bombe all’iprite e al fosgene contro le popolazioni locali. Oltre ad aver attuato deportazioni e campi di sterminio, nella guerra di Etiopia, fra il 1935 e il 1936. Siamo il paese europeo che meno ha fatto i conti con il proprio passato coloniale. Un esempio, nel periodo del precedente governo Berlusconi è stata allestita una mostra apologetica, addirittura al Vittoriano, intitolata “La gloriosa epopea degli ascari”, dove non c’era una parola sulle stragi, gli orrori e i lager italiani. La rimozione e la mancata rielaborazione riguardano anche il razzismo antimeridionale e quello, antiafricano e antisemita, del regime fascista. In Italia l’antisemitismo, in particolare, costituisce un repertorio retorico latente, ma sempre pronto a essere riutilizzato. Per esempio, l’uso di metafore zoologiche (“sono come animali”, “come insetti”, “come topi”…), tipico dell’antisemitismo, è costantemente presente nel lessico leghista, utilizzato contro migranti e rom. Anche la rimozione del nostro passato di emigranti può spiegare l’ostilità verso i migranti di oggi: si ha paura di scorgere nel volto dell’altro le tracce del passato straccione che appartiene alla nostra esperienza e che abbiamo voluto dimenticare.
È dunque una questione di memoria?
Ovviamente non ci sono solo ragioni culturali o ideologiche, ma anche molto materiali. Il razzismo ha sue precise motivazioni economiche: per esempio, l’attribuzione di status diversi e la dicotomia regolari/irregolari permettono lo sfruttamento della manodopera immigrata, a volte in condizioni servili o di quasi-schiavitù. Da questa ottica si possono leggere le norme proibizioniste contro l'immigrazione sotto una luce diversa: non mirerebbero a tenere i lavoratori immigrati fuori dai confini, ma piuttosto a selezionare, precarizzare e clandestinizzare la forza lavoro immigrata per poterla sfruttare al meglio. Così si crea anche una pericolosa concorrenza al ribasso, che genera ulteriore conflittualità con le fasce più povere o impoverite di italiani.
Che ruolo ha la politica?
Esistono veri e propri imprenditori politici della xenofobia e del razzismo, che catturano consenso agitando il tema dell'insicurezza, con un circolo vizioso tra media e politica. I primi diffondono stereotipi – l’immigrato delinquente o stupratore, la zingara rapitrice di bambini, ecc. - e così alimentano diffidenza, ostilità, fobie. A ciò rispondono i politici interpretando la presunta ansia popolare di sicurezza tramite norme sempre più discriminanti.
Il concetto di imprenditore politico della paura richiama quello del signore della guerra visto all’opera nei Balcani.
Non lo trovo un accostamento troppo arbitrario, soprattutto per la capacità di questi politici di risvegliare, legittimare, “sdoganare” come si dice oggi, gli umori latenti. Di dar loro una dignità per cui possano esprimersi apertamente e legittimamente. La paura dell’altro non è innata o naturale, è sempre costruita da qualche soggetto. Come si inventarono le streghe per dare la caccia alle donne, oggi si agita il tema della sicurezza per dare la caccia agli immigrati, nonostante i dati delle forze dell’ordine neghino la crescita dei delitti. È stato, ahimè, un ministro degli interni di centrosinistra, Giuliano Amato, ad inventare la formula bislacca della “insicurezza percepita”, per giustificare scelte politiche restrittive dettate da allarmi mediatici, contro l’evidenza dei dati sulla criminalità.
Ci sono forme di razzismo che coinvolgono in particolare chi proviene dall'Est Europa?
Dipende dai momenti. Nella geometria variabile del capro espiatorio all'italiana sono stati coinvolti, di volta in volta i profughi della guerra jugoslava o le persone che scappavano dall’Albania. Per un certo periodo, ogni fatto di cronaca nera aveva come protagonista “lo slavo”. Poi è stata la volta degli albanesi, non solo oggetti dalla propaganda razzista ma anche vittime delle politiche di pattugliamento dei confini, decise dal governo italiano: ci siamo dimenticati troppo in fretta la strage della “Kater I Radesh” e i suoi 108 profughi annegati a causa dello speronamento di una corvetta italiana. Più di recente i bersagli sono diventati i migranti rumeni, che, in particolare dopo il cosiddetto “stupro della Caffarella”, nel 2009, sono stati oggetto di una campagna isterica e martellante. Che non solo ha portato all’arresto di due innocenti, ma ha anche alimentato una sorta di “epidemia delirante”, come quelle del Medioevo: ci sono state ragazze che hanno denunciato stupri mai avvenuti dando colpa a rumeni. Con questo voglio dire, che, al di là della provenienza, del colore della pelle, della differenza o dell’affinità culturale, qualunque categoria di migranti rischia oggi in Italia di diventare il bersaglio di campagne razziste e provvedimenti discriminatori.
Ma si potrebbe guardare al fenomeno migratorio con altri occhi?
È un falso che esista una soglia di tolleranza rispetto al numero di arrivi di persone dall’estero, superata la quale l'“integrazione” sarebbe difficile o impossibile. Ci sono tanti esempi che mostrano l'“utilità” dei migranti, e non solo perché coprono posti di lavoro sgraditi agli italiani o permettono di bilanciare i conti delle pensioni. Malgrado le campagne, le leggi, le aggressioni razziste, vi sono ambiti in cui “spontaneamente” si crea l’integrazione – in senso reciproco – fra nativi e migranti. Basta pensare al fatto che in certi quartieri di Roma, per esempio, la cancellazione dei tradizionali luoghi di socialità (osterie, caffè, ecc.) in favore di ipermercati e filiali bancarie, è stata compensata dal sorgere di piccoli esercizi gestiti da immigrati e immigrate, che svolgono la stessa funzione: piccole botteghe artigiane, negozi di frutta e verdura, bazar cinesi, e così via, dove italiani e stranieri si incontrano e si scambiano anche favori e aiuto… Altro che gli immigrati come agenti del “degrado dei quartieri”! Bene, quei luoghi di socialità sono frequentati da quegli stessi italiani, proletari o piccolo borghesi, che potrebbero essere attratti dalla protesta anti-immigrati. Se ci fossero delle politiche adeguate, esse dovrebbero rafforzare questi fenomeni molecolari, non contrastarli.
La xenofobia cresce in tutto il continente insieme all'antieuropeismo. Perché l'Europa non sa rispondere?
Sono costretta a dirlo in modo sintetico e forse banale: L’Europa monetaria è stata costruita, quella sociale e politica stenta a delinearsi. Anche la Carta europea dei diritti fondamentali è debole, e gli stessi tentativi compiuti dalle agenzie comunitarie funzionano poco o niente affatto. Lo dico a ragion veduta, avendo collaborato per anni alla redazione di rapporti sulla xenofobia, il razzismo e l'antisemitismo. Manca un processo di vera costruzione culturale e politica, di ricerca della coesione europea che trovi fondamento anzitutto nella difesa dei diritti dei lavoratori, delle donne, dei migranti e di altri soggetti sfruttati o discriminati, e nella prospettiva di una cittadinanza europea di residenza.