Dopo anni di dibattiti e proposte, la riforma della cooperazione internazionale sembra ora approdare ad un risultato concreto: una nuova legge. Il testo proposto, tuttavia, alterna apprezzabili elementi di novità a concetti superati
Oggi si avvia in Commissione affari esteri del Senato la discussione sulla riforma della cooperazione allo sviluppo, attesa da oltre un decennio e più volte arenatasi nelle scorse legislature. E' un impegno assunto dall'attuale maggioranza in campagna elettorale, e dunque c'è attesa e fiducia di raggiungere finalmente un risultato concreto. La stessa scelta del Governo di proporre una legge delega - per cui il Parlamento approva un testo breve con i soli principi essenziali della riforma, mentre la sua definizione completa è lasciata all'esecutivo tramite successivi decreti attuativi - è un segnale forte di assunzione di responsabilità, oltre che un tentativo di accorciare i tempi. Alcuni lamentano il rischio che ciò impoverisca il dibattito in sede parlamentare. Ma la paralisi attuale della cooperazione allo sviluppo necessita di un intervento rapido che superi l'attuale legislazione del 1987, ferma ad un'epoca storica ormai tramontata. Inoltre le resistenze da vincere sono forti sia dentro l'apparato ministeriale, sia nei mondi che in questi anni hanno vissuto di rendita dentro la palude del sistema costituitosi. Ben venga quindi un'azione energica del Governo e della Vice-ministra delegata Sentinelli, che peraltro già nei mesi passati ha avviato un'ampia consultazione con i vari attori della cooperazione italiana.
Ciò che invece preoccupa è il contenuto poco innovativo del testo di legge e della relazione illustrativa allegata. Certo va compreso il loro carattere di compromesso tra diverse visioni degli apparati ministeriali: oltre agli Esteri, la legge tocca in particolare competenze del Ministero dell'Economia, che controlla gran parte dei fondi, e del Dipartimento per la Protezione Civile, che presso la Presidenza del Consiglio ha costituito negli anni una potente struttura autonoma per l'aiuto internazionale d'emergenza. Va compreso inoltre che non si può chiedere ad una legge di essere più avanzata del clima culturale che le sta attorno. Oggi purtroppo il mondo della cooperazione allo sviluppo risulta inadeguato, se non addirittura in regresso verso forme di vecchia beneficenza e moderna tele-carità. Si pensi all'Operazione Arcobaleno, alle raccolte via sms per lo tsunami o il Darfur, al Fondo globale per la lotta all'AIDS e alle malattie endemiche lanciato dal G8. tutti esempi di come un approccio mediatico e che risponde principalmente alle emergenze umanitarie abbia soppiantato nell'immaginario collettivo e nella prassi diffusa gli interventi strutturali di lungo termine.
Ciononostante, ci si sarebbe potuti aspettare qualche innovazione in più, almeno nel linguaggio, per adeguare il passo ad un mondo globale che ha superato da un pezzo le vecchie divisioni geografiche. Non solo quella est-ovest, con la caduta del Muro di Berlino, ma anche quella nord-sud, se pensiamo alla frammentazione e alla poliformità assunte dai fenomeni di esclusione e inclusione, di arricchimento e impoverimento. Nairobi racchiude le baraccopoli come Korogocho e il lusso iper-moderno dell'élite affaristico-finanziaria keniota. Cina, India o Brasile esprimono insieme sud e nord del mondo. E il sud è ormai ovunque, grazie ai migranti. Allora che senso ha usare ancora simili termini, o parlare di "Paesi in via di sviluppo" come fa il titolo della legge? Non è questo il luogo per una riflessione sul concetto di sviluppo e sulle varie alternative formulategli. Certo, resta la sorpresa per un utilizzo acritico di questo e altri concetti del '900 - Paesi meno avanzati, Paesi beneficiari... - dentro una legge che dovrebbe portare la cooperazione italiana nel nuovo millennio.
Per la verità un riferimento all'oggi c'è, ma poteva anche essere evitato. Proprio in apertura di relazione accompagnatoria, infatti, si richiama l'utilità della cooperazione allo sviluppo nel rafforzare il contrasto al terrorismo internazionale. Affermazione certo condivisibile, perché lottare contro povertà ed esclusione è un modo per togliere consenso ai fanatismi. Ma che rischia di confermare quell'ossessione securitaria in cui sono cadute le relazioni internazionali dopo l'11 settembre 2001. Di motivazioni etiche e pragmatiche per rafforzare la cooperazione allo sviluppo ce ne sono molte altre, e più urgenti.
Venendo al merito del disegno di legge, molte previsioni sono apprezzabili e condivisibili. Spiccano in particolare quattro punti: il superamento della pratica odiosa dell'aiuto legato, quell'aiuto cioè rivolto a paesi terzi, ma condizionato all'acquisto di beni e servizi italiani; l'indisponibilità delle risorse della cooperazione per attività militari, come invece scandalosamente accaduto in tempi recenti; l'ampliamento dei soggetti titolati a partecipare ad iniziative di cooperazione allo sviluppo, oltre il ristretto numero delle ong finora riconosciute; la previsione di una normativa ad hoc sugli aiuti d'emergenza, con implicito ridimensionamento del ruolo assunto dalla Protezione Civile. Doverosa poi la distinzione tra indirizzo politico della cooperazione, affidato al Ministro degli Esteri o ad un suo Viceministro, e gestione operativa degli interventi. Questi infatti vengono finalmente sganciati dal Ministero, con relativo netto dimagrimento della Direzione Generale Cooperazione allo Sviluppo, per essere affidati ad una apposita Agenzia, "organismo di diritto pubblico con piena capacità di diritto privato".
D'altra parte, colpisce che oltre metà dell'articolato di legge, così come gran parte del dibattito sviluppato in questi mesi sulla riforma, ruotino attorno all'Agenzia. Certo gli aspetti pratici, e quindi anche le regole di costituzione dell'Agenzia, sono fondamentali per il futuro orientamento della cooperazione allo sviluppo italiana. Sembra però di cogliere un eccesso di pragmatismo che rimanda ad una visione tecnicista della cooperazione, quasi che la parte di indirizzo politico-programmatico fosse secondaria. Così se da un lato il comma 3 dell'articolo 2 richiede criteri precisi sulla gestione ed i poteri interni dell'Agenzia (nomina e poteri del direttore, nomina del comitato direttivo, ruolo di controllo e vigilanza del Ministero...), dall'altro il comma 1 dello stesso articolo lascia alquanto vago lo spazio di concertazione sugli indirizzi politici tra Ministero e altri attori coinvolti ("anche attivando forme di consultazione degli altri soggetti pubblici e privati del sistema nazionale della cooperazione").
Oltre a ciò, il modello di cooperazione allo sviluppo disegnato rischia di apparire centralistico e settoriale: debole è il riferimento all'integrazione con le altre politiche di cooperazione internazionale, quali commercio estero, cultura, ambiente, sanità etc... ("anche prevedendo e disciplinando forme di coordinamento di tutte le iniziative di cooperazione", art. 2 comma 1 lettera a). Di più, il richiamo ripetuto all'ambito della politica estera, se comprensibile nell'intento di limitare il ruolo dell'Economia o di altri Ministeri, comporta di nuovo un'idea poco avanzata di cooperazione. Quasi fosse una cosa che riguarda solo "gli altri", le terre lontane. E non invece una relazione tra soggetti e territori che dovrebbe coinvolgere e modificare al pari anche "noi", la nostra casa. Ci è arrivata l'Unione Europea, che nella nuova Politica di vicinato ha connesso l'ambito esterno della cooperazione transnazionale e transfrontaliera con quello interno delle politiche di coesione regionale. Non si potrebbero pensare anche a livello italiano meccanismi più stringenti per promuovere coerenza e interazione tra politiche settoriali?
Altro rischio che traspare dal testo di legge è, si diceva, il centralismo. Tutto il sistema della cooperazione disegnato ruota infatti attorno a Ministero ed Agenzia, istituzioni a carattere nazionale. Poco spazio viene lasciato ad una possibile articolazione multilivello che consideri il piano europeo, o quello sub-nazionale di regioni, province e comuni. I riferimenti all'UE presenti nel testo sono generici e non operativi ("in coerenza con la normativa comunitaria in materia", art. 1 commi 1 e 2), mentre con un po' di innovazione si poteva lanciare qualche segnale concreto verso una futura politica comune europea in questo campo. Almeno prevedere per l'Agenzia una connessione stretta con analoghe strutture di altri paesi, oltre che con Bruxelles.
Ugualmente i riferimenti alla cooperazione dei territori si limitano a richiamare il bisogno di un controllo centrale ("riconoscere la funzione della cooperazione decentrata, prevedendo modalità di coordinamento con la politica nazionale di cooperazione allo sviluppo", art. 2 comma 1 lettera j), la cui garanzia peraltro è affidata ad un organismo tecnico quale l'Agenzia ("assicura la coerenza con gli indirizzi e le finalità del Ministero di tutte le iniziative di cooperazione allo sviluppo, incluse quelle proposte e finanziate dalle Regioni e dagli enti locali", art. 2 comma 2 lettera b). Non c'è traccia al contrario di una valorizzazione positiva di specificità e punti di forza dei vari territori, e neppure di una possibile articolazione regionale dell'Agenzia stessa... Le istituzioni nazionali sembrano porsi come controllori degli altri attori, più che facilitatori di interazione e scambio tra centro e periferie, o tra soggetti pubblici e privati. Nessun cenno alle buone pratiche dei tavoli tematici o geografici - pure sviluppatesi in questi anni in varie parti d'Italia - attraverso i quali far crescere dal basso e nel concreto un reale "sistema paese".
E d'altronde quale sia l'idea del rapporto tra governo ed enti territoriali lo chiarisce la relazione accompagnatoria, con linguaggio poeticamente ministeriale: "E' necessario, al riguardo, non obliterare i principi costituzionali cui la disciplina della cooperazione allo sviluppo soggiace. ... Con sentenza 1 giugno 2006, n. 211, il Giudice delle leggi la Corte Costituzionale, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge della provincia autonoma di Trento 15 marzo 2005, n. 4, ... ha ritenuto che il potere di determinazione degli obiettivi di cooperazione nonché dei destinatari dei benefici è di esclusiva pertinenza dello Stato, in quanto caratteristici della politica estera di cui la cooperazione allo sviluppo è parte integrante". In realtà l'equazione secca cooperazione allo sviluppo = politica estera = competenza governativa è discussa e discutibile. Certo non si poteva chiedere ad un disegno di legge del Governo di ignorare una pronuncia della Corte Costituzionale. Era lecito però sperare che mostrasse un giudizio politico più articolato.
Tutto male, dunque? Niente affatto. Lo ribadiamo: lo sforzo del Governo va apprezzato e incoraggiato. L'Italia non può più aspettare una riforma della sua cooperazione allo sviluppo. E anche i tempi è giusto siano rapidi. Solo, è altrettanto importante non perdere l'occasione per provare a far avanzare la qualità dei pensieri e delle azioni che muovono la cooperazione. Il nostro intende essere un contributo in questa direzione.
Si veda il testo integrale della relazione introduttiva e della legge delega.