Il governo di Lubiana presenta un pacchetto di riforme neoliberali, grazie alle quali la Slovenia potrebbe dire addio al welfare. In vista di un autunno caldo, il governo devia l'attenzione sul contenzioso marittimo con la vicina Croazia, accedendo il nazionalismo patriottico
In questi giorni il governo di Lubiana ha aperto in contemporanea due fronti di non facile gestione ma che nei calcoli del premier Janez Janša dovrebbero in qualche modo sovrapporsi, neutralizzando - con il nazionalismo patriottico che suscitano le rivendicazioni di frontiera nei confronti della Croazia - l'impatto negativo che ha nell'opinione pubblica slovena il pacchetto di riforme neoliberali proposte dai consiglieri economici del governo.
Jože Damjan, economista d'assalto e coordinatore del gruppo di esperti nominato da Janša per tracciare la "road map" delle riforme economiche, sociali e finanziarie della Slovenia in zona euro, ha sostituito l'amico e compagno di cordata Mičo Mrkaić, dimessosi di recente perché deluso dalla lentezza dei cambiamenti da lui auspicati. Damjan ha presentato qualche giorno fa la nuova strategia economica per la Slovenia, una strategia che ha incontrato subito il consenso del governo e delle organizzazioni padronali mentre i sindacati la criticano in quanto vedono nelle riforme proposte un'opera sistematica di smantellamento del welfare. Critici, ma con sfumature diverse, anche i demoliberali ed i socialdemocratici.
Le riforme puntano essenzialmente su una maggior competitività del made in Slovenia, che secondo il gruppo di Damjan passerebbe inevitabilmente per un ritiro quanto più immediato dello stato dalla gestione economica e della sfera pubblica in generale, compresa la sanità, la scuola e le infrastrutture, per un abbassamento dei diritti sindacali acquisiti (semplificando le modalità di licenziamento, riducendo drasticamente il periodo di preavviso e abbassando le spese di liquidazione e benservito), per un'autonomia quanto più ampia della negoziazione tra le imprese e i lavoratori, sempre di più basata su contratti individuali al posto di quelli collettivi mediati dalle organizzazioni sindacali, per una maggiore "flessibilità", ovvero precarietà della forza lavoro, favorendo contratti di impiego ad hoc e senza garanzie, per una deregulation della mediazione statale e soprattutto per una radicale riforma fiscale che abbassi i costi del lavoro e aumenti la disponibilità dei profitti.
Ma la proposta che più fa discutere è quella di eliminare l'aliquota progressiva (attualmente comprese tra il 17 ed il 50%,) per affermare un'imposta unica sul modello delle politiche fiscali di alcuni paesi dell'Est e di quelli baltici. In pratica lo stesso sistema voluto fortemente da Angela Merkel in Germania, un'ambizione questa che è forse alla base della sua strettissima e insufficiente vittoria elettorale. L'imposta unica - avvertono molti economisti e naturalmente i sindacati - aumenterà inevitabilmente le differenze sociali e colpirà inesorabilmente i ceti più deboli. Se a ciò va aggiunta la dichiarata intenzione di modificare l'attuale sistema di transfer sociali e la politica dei sussidi - naturalmente in picchiata - e quella di privatizzare i servizi pubblici rendendoli più cari e in balia del mercato, i meno abbienti hanno di che preoccuparsi. Il governo annuncia pure un aumento dell'IVA e la sua parificazione per tutti i prodotti e servizi. Gli strateghi di Janša presentano tale pacchetto di riforme come un "nuovo modello di sviluppo", un toccasana che dovrebbe rafforzare la posizione e la stabilità dell'economia slovena nella fase dell'adozione dell'euro.
Il piano di Damjan e compagni è destinato ad infuocare l'autunno sloveno anche se il governo si è premurato e si sforza di deviare l'attenzione della pubblica opinione verso gli ancor più roventi temi patriottici del contenzioso di frontiera con la Croazia, mantenuto aperto già per oltre 15 anni.
Il 4 ottobre scorso il parlamento di Lubiana ha varato alla quasi unanimità (con un solo voto contrario e un astenuto) la legge sulla propria zona ecologica di mare e la piattaforma epicontinentale, una legge che di fatto annette una fascia di mare che la Croazia considera di propria giurisdizione e che si estende dal parallelo della croata Umago a quella dell'altrettanto croata Orsera (Vrsar). La Slovenia rivendica l'accesso alle acque internazionali, conscia però di essere alquanto debole sul fronte del diritto marittimo. La polizia slovena, in tempi jugoslavi, controllava il golfo di Pirano e una fascia di mare che arrivava a largo di Salvore, ma molto più a nord dell'inizio delle acque internazionali.
Zagabria ha risposto alla nuova legge e all'"annessione" slovena con la proposta ufficiale di un arbitrato internazionale che sia vincolante per le due parti. La proposta però è stata respinta duramente dalla diplomazia slovena che spera - e lo fa in termini sempre più palesi - di ottenere di più da una pressione diretta sulla Croazia, usando la propria posizione di membro dell'UE e della NATO. Un atteggiamento che ricorda molto da vicino le pressioni italiane sulla candidata UE Slovenia negli anni '90 legate alle richieste di Roma in merito ai beni abbandonati in Istria.
Nella lettera con la quale il ministro degli esteri Dimitrij Rupel ha risposto alla proposta di arbitrato mediata dalla sua omologa croata Kolinda Grabar-Kitarović, il capo diplomazia sloveno non risparmia pesanti rimproveri a Zagabria da lui considerata troppo "inaffidabile" per una soluzione di tipo internazionale. Ma forse nella percezione di Janša ci sono anche i presunti "vantaggi" che una situazione fluida nei rapporti con i vicini meridionali - situazione che potrebbe deteriorare ulteriormente nelle prossime settimane anche grazie all'operato dei nazionalisti più intransigenti di entrambi i versanti - può comportare, alla luce delle radicali riforme sociali ed economiche da avviare nel paese.
Un'emergenza patriottica metterebbe il bavaglio anche a quella stampa che finora è riuscita a schivare l'assalto del governo. I cambiamenti economici e sociali che il governo di centrodestra si accinge a varare hanno bisogno di un quanto più ampio consenso nei media. O perlomeno, del silenzio di chi dissente.