Un'inchiesta di Osservatorio sui Balcani sullo stato della città simbolo della pulizia etnica e della violenza razzista in Europa, per cercare di capire la Bosnia Erzegovina oggi, dieci anni dopo Dayton. Nei prossimi giorni il reportage e le voci raccolte durante il viaggio
L'11 luglio di quest'anno verrà ricordato in Europa e nel mondo il decennale di Srebrenica, la cittadina bosniaca sotto assedio prima proclamata zona protetta dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e poi abbandonata al proprio destino dalla comunità internazionale.
Le vittime, i prigionieri uccisi dall'esercito di Mladic dopo la caduta della città, furono oltre 7.000 secondo le recenti conferme (14 ottobre 2004) del governo della Republika Srpska, l'entità serba di Bosnia. I sopravvissuti però, per lo più donne, stanno ancora cercando gli scomparsi da una lista di oltre 10.000 persone.
Il Tribunale dell'Aja ha definito genocidio quanto è avvenuto nel luglio di dieci anni fa. In Europa oggi Srebrenica rappresenta questo, il primo genocidio avvenuto dal tempo della Seconda Guerra Mondiale, e dell'Olocausto.
Allo stesso tempo, Srebrenica rappresenta la vittoria del nazionalismo, l'umiliazione della comunità internazionale, la sconfitta di ogni istanza di convivenza. Dopo Srebrenica, è possibile vivere insieme?
Il genocidio ha proiettato la sua ombra sugli ultimi dieci anni. Con la pace, pochi mesi dopo quel massacro, la Bosnia Erzegovina ha mosso i suoi primi passi in una sorta di limbo. Dayton ha fotografato la situazione del 1995, ed è stato in un certo senso conseguenza diretta di Srebrenica e delle altre efferatezze avvenute in quel 1995, volute dagli artefici della guerra per disegnare la pace secondo le proprie convenienze.
Diversamente da quanto avvenuto in Germania dopo la Seconda Guerra Mondiale, infatti, in Bosnia Erzegovina chi ha fatto la guerra ha fatto anche il dopoguerra. La persistente latitanza dei responsabili delle stragi del luglio '95, Karadzic e Mladic, ci ricorda beffardamente che neppure il dopoguerra è ancora finito.
La lunga tregua architettata nell'Ohio, il delicato equilibrio di poteri esistente tra comunità nazionali e comunità internazionale, non può proseguire indefinitamente in posizione di stand by.
Pochi giorni fa (14 marzo), la Commissione di Venezia del Consiglio d'Europa ha deliberato che la organizzazione costituzionale della Bosnia Erzegovina (creata a Dayton) non è né efficiente né sostenibile, e che sotto la presente costituzione la BiH non può compiere alcun progresso verso l'integrazione europea.
I poteri dello Stato centrale devono essere rafforzati, secondo i giuristi, quelli dei Cantoni della Federazione diminuiti o aboliti, le strutture politiche e amministrative semplificate, i poteri di veto etnico ridotti, i poteri dell'Alto Rappresentante internazionale devono gradualmente scomparire.
Dieci anni dopo, in altre parole, si discute ancora della divisione della Bosnia Erzegovina creata durante la guerra, sigillata a Srebrenica e confermata a Dayton.
Per cercare di comprendere la Bosnia di oggi, figlia di quel 1995, abbiamo deciso di ripartire proprio da lì, andando a Srebrenica.
Ecco l'edificio delle Poste, su cui il Generale Morillon aveva innalzato una bandiera delle Nazioni Unite, promettendo che quella città sarebbe stata protetta e i suoi abitanti difesi. Ecco i fori dei proiettili e i colpi delle granate sulle facciate delle case. Ecco la fabbrica abbandonata dove, nell'indifferenza dei caschi blu, le truppe del generale Mladic separarono gli uomini dalle donne e diedero il via alla strage.
Ricostruzione, poca. Almeno in città, la guerra sembra ancora finita da pochi giorni. I segni del degrado sono evidenti. Eppure troviamo diverse voci ottimiste. Soprattutto tra i Musulmani, almeno tra i pochi che ad oggi hanno deciso di rientrare. Il mondo, travolto dal sentimento di colpa, ha infine riconosciuto la loro ordalia. E loro sono pronti ad andare avanti. Il loro slogan è proprio "Idemo dalje". Spiega tutto, affisso ai muri della città con accanto il logo dell'Sda, il partito di Izetbegovic.
Molto più difficile parlare con i Serbi. Quello che è successo grava come un macigno sui nuovi abitanti della città, che portano il peso di uno stigma insopportabile. Fra di loro ci sono situazioni di miseria assoluta, profughi della Federazione che da 12 anni vivono in centri collettivi. A loro Srebrenica, la città dell'argento, non ha portato fortuna. Forse sono proprio loro tra le vittime maggiori della politica del loro governo.
Da qui può ripartire la Bosnia di oggi, dieci anni dopo Dayton? Come?