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Da Tbilisi a Gori, fino a Ergneti, ultimo paese georgiano della zona di sicurezza, vicino al confine con l'Ossezia del sud: una vera e propria zona morta. Il reportage di Olga Allenova giornalista russa di Kommersant

04/11/2008 -  Anonymous User

Di Olga Allenova da Gori - Tbilisi, Kommersant, 24 ottobre 2008 (Titolo originale: La via post-bellica georgiana)
Traduzione per Osservatorio Caucaso: Giorgio Comai

Il ministro degli esteri russo Sergej Lavrov ha dichiarato che nella zona di sicurezza, dove da poco si è ritirato l'esercito russo, hanno luogo violazioni degli accordi Medvedev-Sarkozy. Secondo il ministro, la parte georgiana non mantiene gli impegni per quanto riguarda il ritiro delle truppe nelle loro sedi di dislocazione permanente. Il corrispondente di Kommersant Olga Allenova è stata nella zona di sicurezza e non vi ha trovato truppe di nessun tipo. Ha visto invece come vivono i cittadini georgiani di ritorno nelle loro case dai campi profughi.

Non ci sarà depressione

Poco fuori Tbilisi, vicino all'antica città di Mtskheta, si sta costruendo la prima cittadina per i profughi. I cottage grigi dal tetto rosso, disposti in fila, fanno pensare ad un rispettabile luogo di villeggiatura, piuttosto che ad abitazioni per rifugiati. Oltre a questa, altre due cittadine di questo tipo sono in via di costruzione, nel distretto di Kaspi e vicino a Gori. Le autorità georgiane si sono preoccupate seriamente per trovare una sistemazione per i profughi provenienti dall'Ossezia del Sud, come se avessero infine capito che non riprenderanno mai controllo di questa regione.
A questo proposito, ho posto delle domande a Ia Barateli, aiutante di Dmitri Sanakoev, rappresentante dell'amministrazione dell'Ossezia del Sud fedele a Tbilisi. Ho chiesto perché ai profughi provenienti dall'Abkhazia, rimasti senza casa già nel 1992, le autorità georgiane non hanno ancora offerto una abitazione, mentre ai profughi dell'Ossezia del Sud promettono nuove case già entro la fine dell'anno. Ia mi risponde che la costruzione di queste cittadine non significa certo che la Georgia accetta la perdita dei suoi territori. Semplicemente non è possibile tenere 25.000 rifugiati a Tbilisi, nelle scuole e negli asili. È pericoloso. A Tbilisi si trova l'elettorato più attivo, e non sarebbe giusto se davanti agli occhi di questo elettorato si trovassero profughi dall'Ossezia del Sud. Inoltre "dopo la guerra con l'Abkhazia, in Georgia ci sono stati due anni di depressione, e non si può permettere che ora accada questo". Alle nuove cittadine portano già gas ed elettricità; le autorità promettono di dare la casa ai rifugiati già per il 25 dicembre. "Costruiranno anche una fabbrica per la produzione di carta, in modo che le persone abbiano lavoro", racconta Ia.
Tutta questa premura per i profughi dell'Ossezia del Sud ha causato malcontento tra i profughi dell'Abkhazia, i quali vivono ancora nella Georgia occidentale in studentati ed edifici amministrativi malconci. Anche a loro le autorità promettono migliori condizioni di vita, senza però specificare date precise.

Il conto dei russi

Proseguiamo per la strada principale che unisce Tbilisi a Gori, e più in generale l'est e l'ovest della Georgia. L'autista mi mostra con la mano degli alberi in lontananza a destra della strada: "Lì comincia il distretto di Akhalgori, occupato dai russi". In Georgia è diffusa l'opinione che i russi torneranno e arriveranno fino a Tbilisi; di questo parlano i politici e la gente comune per strada. Secondo questa idea, il controllo su Akhalgori è conveniente perché da lì sono solo 15 km dalla strada principale e 50 da Tbilisi. Il rappresentante della commissione parlamentare per le indagini sugli eventi di agosto, Pata Davitaia, un giorno prima del mio arrivo nella zona del conflitto, mi ha detto: "Mantenere Akhalgori sarà difficile per i russi, perché là le strade sono pessime, e non avranno collegamenti con Tskhinvali. L'unica spiegazione per la loro presenza lì è il loro desiderio di concludere quello che hanno cominciato, prendere Tbilisi e togliere Saakashvili dal potere. Probabilmente, cercheranno di farlo prima dell'inverno."

Attraversiamo il distretto di Kaspi. A destra della strada si sta costruendo una cittadina identica a quella di Mtskheta. Sono già stati costruiti 50 cottage e ne stanno costruendo altri. Si dice che lavorino dalle 8 di mattina fino a mezzanotte, perché il responsabile dei lavori è il ministro degli Interni Vano Merabishvili, ed è un ministro di cui hanno paura. È considerato il braccio destro di Saakashvili. Dicono che può portare a termine qualsiasi incarico, incluso costruire cittadine per i profughi nel giro di due mesi.

A Gori non si vedono quasi tracce della guerra. Facendo attenzione, si notano i vetri nuovi alle finestre delle banche e degli edifici amministrativi che si trovano sulla piazza centrale della città. Ma già nel centro abitato di Karaleti, poco oltre Gori, si notano subito case bruciate, e colpisce subito un acre odore di fumo. Qui non c'è né polizia, né esercito. C'è addirittura la sensazione che non ci siano mai stati, che semplicemente nel paese ci sia stato un grosso incendio. "Quando a Karateli c'era un check-point russo, a Gori c'era un grosso campo di profughi" - racconta Ia Barateli - "ma l'8 di ottobre hanno tolto il check-point, e qualche giorno fa hanno chiuso anche il campo profughi: le persone sono ritornate nelle loro case. Anche quelli a cui hanno distrutto tutto sono tornati, con la speranza di salvare il raccolto. Ora vivono negli scantinati, o dai vicini."
Gli abitanti locali ci guardano da un lato della strada, in abiti impolverati e rovinati, e seguono con gli occhi la nostra macchina.

"Perché ci avete bombardato?"

Subito dopo Karaleti si trova Tkviavi. Qui, nella zona di sicurezza, questo centro abitato viene chiamato la "Stalingrado georgiana". Qui non ho trovato neppure una casa intera. Neanche una casa che potesse essere in qualche modo adatta ad essere abitata. All'inizio, mi sembrava tutto morto. Poi, da qualche parte tra le rovine, è uscita una donna con i capelli grigi ed una grande borsa vuota. Zina Merabishvili era scappata da Tskhinvali negli anni Novanta, subito dopo la guerra. Quando sono cominciati gli scontri, Zina ha deciso di rimanere a Tkviavi, è rimasta nella sua cantina. "Prima sono arrivati i militari osseti" - dice Zina - "Hanno sparato molto. Dopo sono arrivati i russi, e si è fatto più silenzioso. Mi hanno detto: 'Se qualcuno vi fa qualcosa, chiamate', e mi hanno dato un numero di telefono."
Zina non ha ancora ricevuto alcun aiuto umanitario e raccoglie frutti negli orti abbandonati. La sua vicina, Valja Kudzieva, è ossetina. Si era sposata con un georgiano, ed ora a paura di ritornare a Tskhinvali dai suoi parenti. Suo marito è paralitico, non hanno fatto in tempo ad evacuarlo, e durante la guerra Valja è rimasta con lui nello scantinato della loro casa. "Perché non ci hanno portato via prima della guerra?" - chiede Valja - "Non sapevano forse che dall'Ossezia stavano evacuando la popolazione. Tutti si preparavano alla guerra, e solo noi non sapevamo niente." La donna mi chiede come può vivere in una casa distrutta. La casa non ha più tetto né soffitto, sono rimaste solo le pareti. Nel cortile della casa c'è una fossa, nella quale a detta di Valja si trova una bomba. "È caduta e non è scoppiata." - dice Valja - "Sono venuti i poliziotti ed hanno detto che la toglieranno di lì. Ma penso che la faranno scoppiare, perché portarla via è pericoloso. E allora non mi resterà proprio niente, neanche la legnaia."

Un po' alla volta, attorno a me si raccolgono abitanti locali. Dapprima appare stupore sui loro volti, poi incomprensione. "Siete di Mosca?" - mi chiede l'anziano Kakha Kareli "Perché ci avete bombardato? I georgiani sono forse nemici dei russi?"
Kakha mi porta all'interno del villaggio. Qui delle case non sono rimaste neppure le pareti, solo rovine. Kakha dice che hanno iniziato a bombardare il paese l'11 di agosto. "Perché hanno bombardato?" - chiede di nuovo Kakha - "Qui non c'erano basi, non c'erano militari. La nostra polizia se ne era andata, non aveva neppure fatto resistenza!"

Passeggiamo per il paese distrutto. Dappertutto escono persone, mi portano uva, pane, acqua, quello che hanno. Dicono che nella zona di sicurezza accoglievano così anche i soldati russi, solo che allora gli abitanti locali avevano di più da offrire. Ora non gli sono rimaste né mucche, né galline, né maiali. "Hanno portato via tutto i saccheggiatori" - racconta Gela Butauri - "Noi siamo scappati a Tbilisi, abbiamo vissuto in una scuola. Siamo ritornati ieri. Non abbiamo né casa, né proprietà. Ci è rimasta solo qualche mela e un po' d'uva. Come potremo vivere?"
All'uomo vengono le lacrime agli occhi. Si avvicina a lui una signora anziana dai capelli bianchi, molto piccola e con una stampella. Gli asciuga gli occhi con la mano e lo porta via all'interno della casa distrutta.

"Noi non ce l'abbiamo con lei, figliola" - mi dice prendendomi per mano Kakha - "Noi abbiamo sempre voluto vivere in pace con i russi. Noi amiamo i russi. Sono quelli come Putin, Žirinovskij, Baburin e Sliska che sono colpevoli di tutto. E anche da noi al potere ci sono altrettanti furfanti.

Solo un abitante di Tkviavi, l'anziano settantenne Anzor, non è riuscito a trattenersi. Voleva urlare la sua indignazione. E l'ha urlata. Ha urlato che a Tkviavi sono stati uccisi sette uomini. Ha urlato raccontando di Gela Čichladze, che è stato ferito ed è bruciato nella sua casa. Di Miša e Zachar Melitauri, a cui hanno sparato nelle prime ore dell'occupazione di Tkviavi. Voleva capire perché in Russia si ha tanta compassione per gli ossetini, ma non si ha nessun dispiacere per i georgiani, che neanche loro la volevano questa guerra. Ha urlato che per anni le persone hanno messo mattone su mattone, ma ora sono rimasti in rovina. Che nel ventunesimo secolo non si può arrivare con i carri armati e bombardare pacifici villaggi. Che i georgiani e i russi sono sempre stati popoli fratelli, ed ora li hanno resi nemici. E anche lui ha chiamato furfanti i leader del suo e del mio Paese. Poi si è seduto tra i rimasugli polverosi di mattoni della sua casa e si è messo a piangere.

Zona morta

Dopo siamo arrivati ad Ergneti, l'ultimo paese georgiano della zona di sicurezza, ormai vicino al confine. Ci hanno fermato dei poliziotti. Questo è stato l'unico posto di blocco che abbiamo incontrato per strada. "Non si può andare oltre, è pericoloso" ci dice in un buon russo un giovane in divisa militare americana - "Là c'è già il posto di blocco ossetino". Il posto di blocco che mi mostrava il poliziotto si vedeva chiaramente. Da lì, anche loro ci guardavano con il binocolo. "Non posso permettervi di andare là" - dice il poliziotto - "Finché vi trovate in territorio georgiano, il nostro ministero degli Interni è responsabile per voi".

Mi addentro nel villaggio accompagnata da due poliziotti. Uno di loro, David, è nativo di Kekhvi, quella stessa enclave che adesso è controllata dagli ossetini.

- Ora lì non c'è niente - dice David - Quei paesi ora non esistono più.
- Dove vivete ora? - gli chiedo
- Il ministero dell'Interno mi ha dato un appartamento - mi risponde con dignità David - Tutti i poliziotti che vivevano in quell'area hanno ricevuto un appartamento.

A differenza di Tkviavi, Ergneti è una vera e propria zona morta. Qui c'è un tale silenzio che si sentono i poliziotti che parlano tra di loro sulla strada principale. C'era un tempo quando ad Ergneti aveva sede un grande mercato, dove venivano persone da tutto il Caucaso. Dicono che questo mercato avvicinasse gli ossetini e i georgiani anche più dei matrimoni misti e della storia comune. Nel 2004 finì tutto.

- La guerra è cominciata già allora - dice David, facendo sbattere il calcio del fucile sullo stivale - Ha avuto inizio una sparatoria poco chiara, e Okruashvili ex ministro della Difesa georgiano, ndt ha mandato i suoi uomini su Tskhinvali.

Inaspettatamente, da dietro il portone di una casa vicino alla quale stavamo camminando, si sentono abbaiare dei cani. Alla porta si affaccia una signora anziana. Ci fa segno con la mano, sorridendo con la sua bocca senza denti. Anna Člaidze ha 68 anni, non esce da casa sua e non vuole vivere nelle cittadine per i rifugiati. Anna dorme in una piccola cucina di pietra, riscaldata da una stufetta a legna provvisoria.

- Ho la stufa già da molto tempo, ancora dall'altra guerra - sorride Anna - Sono previdente.

Qui la donna cuoce il pane con della farina custodita in un sottoscala che i saccheggiatori non sono riusciti a trovare. La grande casa a due piani in cui viveva Anna sembra del tutto completa dall'esterno, ma all'interno non c'è niente, né tetto, né soffitto.

- La casa è stata colpita da una bomba? - le chiedo
- No, l'hanno bruciata - dice tranquillamente la donna - Quando loro sono venuti, io mi ero nascosta nel bosco. Hanno sparato molto. Poi hanno dato fuoco. Io me ne sono andata a Gori, e sono tornata da poco.

Anna era una benestante abitante di Ergneti. Aveva cinque mucche, due capre, un frigorifero, una lavatrice ed una televisione. Adesso, non ha più niente di tutto questo. Ma più di tutto, le dispiace per la sua colombaia: le colombe di Anna sono morte quando la casa vicina è stata colpita da una bomba.

Mentre ci allontaniamo da Ergneti, si sentono in lontananza degli spari.

- Qui è sempre così - dice David - Anche ieri hanno sparato. Quelli del posto non tornano qui, hanno paura. Ci sono i russi che sparano. I russi vogliono tornare ancora qui.

Sono sicura che al posto di blocco ossetino che si vede in lontananza mi direbbero che sono i georgiani a sparare. Queste sono le regole di questa guerra.